Area riservata

Ricerca  
 
Siti amici  
 
Cookies Policy  
 
Diritti d'autore  
 
Biografia  
 
Canti celtici  
 
Il cerchio infinito  
 
News  
 
Bell'Italia  
 
Poesie  
 
Racconti  
 
Scritti di altri autori  
 
Editoriali  
 
Recensioni  
 
Letteratura  
 
Freschi di stampa  
 
Intervista all'autore  
 
Libri e interviste  
 
Il mondo dell'editoria  
 
Fotografie  
 
 
  Poesie  Narrativa  Poesie in vernacolo  Narrativa in vernacolo  I maestri della poesia  Poesie di Natale  Racconti di Natale 

  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Inverno inoperoso, di massimolegnani 10/04/2017
 

Inverno inoperoso

di massimolegnani



L’inverno mio operaio per una volta è fermo.

Tacciono le sgorbie, non gira il tornio, riposano ciliegio e cirmolo sbozzati a grandi ciocchi che mi limito a sfiorare, come vi leggessi in braille coi polpastrelli ciò che non saranno.

C’è un piacere sottile, che rasenta pace e tristezza, nel sottrarsi alla mietitura delle emozioni, lasciarle lì, appese al cuore o ben visibili all’esterno, senza il mio tocco che le faccia vive.

Tre stagioni a lanciare semi e ami, solo l’inverno per raccogliere le reti e i frutti e trasformarli in legno. Questo il mio ritmo da sempre, nove mesi fermo in attesa, come una gravidanza a rischio, dicembre a far riemergere quel che mi è rimasto dentro del passaggio delle cose e infine loro, gennaio e febbraio, fasi di genio e febbre, appunto, a dare forma e qualche senso ai sentimenti che mi hanno attraversato. Che poi il senso i più non lo capiscono, si fermano alla forma, le superfici lisce o non sempre levigate, i ritocchi o le sbavature del pastello e le figure belle ma che poco somigliano al reale. “Manca verismo”, sentenziano i saccenti accartocciando il labbro, e non sono in grado di guardare l’anima del legno né tantomeno quella mia. I più sono gli stessi che in quest’inverno insolito già si aprono al sogghigno ascoltando il silenzio dell’artista mentre passeggiano davanti al mio laboratorio. Entrano, talvolta, per una consolazione che ha qualcosa di indecente. È la pietà pelosa di chi sguazza nel dolore altrui e lo misura al metro corto del proprio essere piccino. Mi battono mani sudate sulle spalle e confondono il mio mutismo di voce e opere con una sorta di paralisi.

Loro non sanno che non sono stato mai tanto ricco come ora di fervore.

Allargano le braccia, “L’ispirazione per ora se ne è andata, poi vedrai che torna, come farà lei del resto.” Alludono e credono con questo di sistemare capra e cavoli e rifilarmi anche il contentino di una speranza in cui non sperano.

Poveri imbecilli, luridi sciacalli.

Certo ho sofferto e soffro la sua assenza, ma è così bello rivederla nascosta nel legno dove sembrava altro agli altri e vera solo a me. È così pieno e tondo il suo ricordo che non mi sento solo.

Non siamo stati mai nemici, noi, semmai amici in guerra e in odio qualche volta, in amore sempre. E già su questo vorrei e avrei da lavorare, raccontare noi con il linguaggio sobrio della sgorbia. Ho in mente quale legno e quale foggia, ma non si muovono le mani se non per carezzare il pezzo scortecciato, immaginarlo nei dettagli e ricomporsi inerti al grembo.

E ancor di più saprei come tradurre il suo sguardo di quella sera a giugno, noi tre a cenare tra fiaccole e cicale, io che bevevo vino e lei intanto centellinava le parole di Riccardo come un vino raro. Due piccole incisure avrei segnato in un legno morbido, forse betulla, ai lati di un accenno rosso, a raccontare le fossette che le si andavano formando tra bocca e guance nell’ascolto. Lei lo ascoltava, io mi baloccavo tra la soddisfazione di saperla esattamente e il rammarico di vederla scivolare via senza un mio gesto a trattenerla.

Ho in mente pure loro due insieme, che a guardarli con il distacco del perdente erano troppo belli per esserne geloso. Avrei poco da scolpire, basterebbe scorticare una radice adatta, di quelle aggrovigliate in un intrico di rami sotterranei. Sarebbe il loro abbraccio che non ho mai visto, l’intimo groviglio che è nato loro dentro quella sera e che hanno impiegato qualche mese a riconoscere. Di mio ci metterei la lima a fare liscio il legno come la sua pelle e qualche colpo con la raspa a far più duri certi tratti, le mani di lui nodose e aspre.


Potrei, quest’anno, uno scaffale intero di sculture, ma resto fermo. Non impugnerò i miei arnesi per narrare quel che è stato. L’intima emozione che mi avvolge e che mi muove a stare inerte non è materia da far spolpare agli avvoltoi.

Così contemplo una perfezione mai raggiunta che racchiudo nella teca dell’immaginario e mi sento soddisfatto del volto tuo che più non sfioro di dita e sgorbie.

 
©2006 ArteInsieme, « 014054871 »