Inverno
inoperoso
di
massimolegnani
L’inverno
mio operaio per una volta è fermo.
Tacciono
le sgorbie, non gira il tornio, riposano ciliegio e cirmolo sbozzati
a grandi ciocchi che mi limito a sfiorare, come vi leggessi in
braille coi polpastrelli ciò che non saranno.
C’è
un piacere sottile, che rasenta pace e tristezza, nel sottrarsi alla
mietitura delle emozioni, lasciarle lì, appese al cuore o ben
visibili all’esterno, senza il mio tocco che le faccia vive.
Tre
stagioni a lanciare semi e ami, solo l’inverno per raccogliere
le reti e i frutti e trasformarli in legno. Questo il mio ritmo da
sempre, nove mesi fermo in attesa, come una gravidanza a rischio,
dicembre a far riemergere quel che mi è rimasto dentro del
passaggio delle cose e infine loro, gennaio e febbraio, fasi di genio
e febbre, appunto, a dare forma e qualche senso ai sentimenti che mi
hanno attraversato. Che poi il senso i più non lo capiscono,
si fermano alla forma, le superfici lisce o non sempre levigate, i
ritocchi o le sbavature del pastello e le figure belle ma che poco
somigliano al reale. “Manca verismo”, sentenziano i
saccenti accartocciando il labbro, e non sono in grado di guardare
l’anima del legno né tantomeno quella mia. I più
sono gli stessi che in quest’inverno insolito già si
aprono al sogghigno ascoltando il silenzio dell’artista mentre
passeggiano davanti al mio laboratorio. Entrano, talvolta, per una
consolazione che ha qualcosa di indecente. È la pietà
pelosa di chi sguazza nel dolore altrui e lo misura al metro corto
del proprio essere piccino. Mi battono mani sudate sulle spalle e
confondono il mio mutismo di voce e opere con una sorta di paralisi.
Loro
non sanno che non sono stato mai tanto ricco come ora di fervore.
Allargano
le braccia, “L’ispirazione per ora se ne è andata,
poi vedrai che torna, come farà lei del resto.” Alludono
e credono con questo di sistemare capra e cavoli e rifilarmi anche il
contentino di una speranza in cui non sperano.
Poveri
imbecilli, luridi sciacalli.
Certo
ho sofferto e soffro la sua assenza, ma è così bello
rivederla nascosta nel legno dove sembrava altro agli altri e vera
solo a me. È così pieno e tondo il suo ricordo che non
mi sento solo.
Non
siamo stati mai nemici, noi, semmai amici in guerra e in odio qualche
volta, in amore sempre. E già su questo vorrei e avrei da
lavorare, raccontare noi con il linguaggio sobrio della sgorbia. Ho
in mente quale legno e quale foggia, ma non si muovono le mani se non
per carezzare il pezzo scortecciato, immaginarlo nei dettagli e
ricomporsi inerti al grembo.
E
ancor di più saprei come tradurre il suo sguardo di quella
sera a giugno, noi tre a cenare tra fiaccole e cicale, io che bevevo
vino e lei intanto centellinava le parole di Riccardo come un vino
raro. Due piccole incisure avrei segnato in un legno morbido, forse
betulla, ai lati di un accenno rosso, a raccontare le fossette che le
si andavano formando tra bocca e guance nell’ascolto. Lei lo
ascoltava, io mi baloccavo tra la soddisfazione di saperla
esattamente e il rammarico di vederla scivolare via senza un mio
gesto a trattenerla.
Ho
in mente pure loro due insieme, che a guardarli con il distacco del
perdente erano troppo belli per esserne geloso. Avrei poco da
scolpire, basterebbe scorticare una radice adatta, di quelle
aggrovigliate in un intrico di rami sotterranei. Sarebbe il loro
abbraccio che non ho mai visto, l’intimo groviglio che è
nato loro dentro quella sera e che hanno impiegato qualche mese a
riconoscere. Di mio ci metterei la lima a fare liscio il legno come
la sua pelle e qualche colpo con la raspa a far più duri certi
tratti, le mani di lui nodose e aspre.
Potrei,
quest’anno, uno scaffale intero di sculture, ma resto fermo.
Non impugnerò i miei arnesi per narrare quel che è
stato. L’intima emozione che mi avvolge e che mi muove a stare
inerte non è materia da far spolpare agli avvoltoi.
Così
contemplo una perfezione mai raggiunta che racchiudo nella teca
dell’immaginario e mi sento soddisfatto del volto tuo che più
non sfioro di dita e sgorbie.
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