Altri
uomini
di
massimo legnani
In
tutta la vita non ho mai avuto particolari attitudini a fare altro da
quello che ho fatto. Mi manca la manualità dell’artista
o anche solo dell’artigiano, non ho passione per la scienza,
non fa per me il fuoco sacro che spinge a battere nuove vie, e anche
la mia cultura è un colabrodo di lacune. Insomma mai avrei
potuto fare il sarto, il parrucchiere o il disegnatore (la matita in
mano più impegnativa delle forbici), né il ricercatore
o il matematico (a mala pena so sottrarmi, mai sommarmi agli altri),
tanto meno l’insegnante, il prete o lo studioso di lingue vive
o morte, mi è rimasto per esclusione solo il lavoro che nella
realtà ho fatto. Ho talmente disparate inettitudini che mi
ritrovo un campo sterminato in cui fantasticarmi abile. Ma, lavoro a
parte, una piccola dote ce l’ho ed è appunto la
fantasia, un’immaginazione che traduco in parole, insomma, non
so far di mio ma so immaginarmi differente e abile. Forse è
solo per questo che invento storie e personaggi, per “vedermi”
capace a fare. Solo così scolpisco il legno, guido ambulanze,
suono la fisarmonica (e pure il flauto e il violoncello), ho
manualità nel piegare la carta in origami, ho l’ardore
tragico dell’esploratore polare, la capacità di essere
folle a ululare al vento sopra un tetto, la saggezza di leggere il
tempo nell’acqua di un canale, la sfrontatezza del ladro di
galline fianco a fianco di una volpe. E do nomi di altri uomini a
questi virtuosi virtuali, Camillo, Osvaldo, GianGaleazzo, vite e
caratteri perdenti e una sola abilità sublime che faccia loro
da bandiera e invidia a me. Oppure uso direttamente l’“io”
quando è più impellente il desiderio di essere capace
(capace di fare cosa? qualunque cosa, il netturbino, il
carpentiere, l’astrofisico, il barista..oh cosa darei per
essere barista, entrano a frotte, Lucio, un macchiato tiepido,
Lucio un cappuccio buono e tu rapido, gesti perfetti, e, se è
lei a chiedere, disegni sopra la schiuma bianca un cuore scuro di
cacao con aria indifferente).
Lettera
incerta dei narcisi
di
massimolegnani
Il
nome m’evoca un’epoca remota e luoghi scomparsi dalla
geografia della memoria pur esistendo ancora ma ormai diversi da se
stessi, i laghi dei dintorni, Pusiano, Monate, Ghirla e le montagnole
della domenica, il Sacromonte, il Ghisallo, Pian dei Resinelli. Forse
non ci sono più i narcisi, noi li raccoglievamo a mazzi in un
prato in riva al lago tra Angera e Ispra, eppure ovunque mi sembra ce
ne fossero, nella memoria li colloco come reali tra lo slittino e il
salame di cioccolato tenuto al freddo dell’ultima neve e in
piena estate tra gli spruzzi gioiosi della cascata del Toce. Luoghi e
tempi inverosimili, me ne rendo conto, nella mia testa scombinata il
ricordo del narciso si deve essere appiccicato a quello delle gite
fuori porta, forse per colpa della resina, le pigne profumate che
m’imbrattavano le dita. Loro, comunque, hanno un nome che
definire sbagliato è poco, un vero controsenso, loro, i
narcisi, sono la modestia, prova a raccoglierne uno solitario e ti
accorgerai quanto poco sia innamorato di se stesso, vive, ed è
bello, solo in gruppo dove si spalleggia e si consola con i simili.
Nessuna vanità, nessun narcisismo nella sua corolla
tremebonda, il tulipano, piuttosto, avrebbero dovuto chiamarlo
narciso, con quel suo stelo dritto da pornodivo in eccesso di
testosterone e i petali fiammeggianti a gridare al mondo ma quanto
sono bello. I narcisi no, i narcisi erano i fiori di mia mamma,
lo specchio gentile di una pudicizia bella fuori del tempo. Tulipano
semmai era mio padre con i suoi baffetti a spazzolino e il borsalino
sulle ventitre.
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