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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Quando sento dire, di Marina Pasqualini 12/05/2017
 

Quando sento dire

di Marina Pasqualini



Quando sento dire: “Mamma mia, dove siamo arrivati! Non ci sono più i valori, si stava meglio prima!” ripercorro per un attimo la storia dell’umanità, e vedo ferocia, guerre corpo a corpo, violenza inaudita, inciviltà assoluta. E allora ringrazio per il cammino compiuto dagli uomini e per essere nata in un periodo dove i diritti vengono sanciti da leggi democratiche. Ma una cosa sì la rimpiango, ed è la vita che mi racconta mia madre, e prima di lei, mia nonna, nei cortili.

A Restellone, ove crebbe mia nonna, tra Sesto San Giovanni e Monza, rivedo lei bambina, giocare con un sasso, cui aveva dato un’anima, trattandolo come una bambola. Lo copriva con una copertina e lo coccolava quasi fosse la sua bambina. E ogni sera lo nascondeva per poi ritrovarlo il giorno dopo. Gli aveva voluto bene, mi racconta. Poi lei era diventata una giovane donna che aveva avuto due figlie ed un marito che lavorava alla Breda, in fabbrica. La sera lui tornava, in bicicletta, e mentre lei era ai fornelli, come le altre donne, e i bambini giocavano in cortile, tirava fuori l’armonica a bocca e si sedeva fuori, sulla ringhiera. Anche gli altri uomini, alla stessa ora, si accingevano a suonare uno strumento, chi la chitarra, chi il mandolino, e davano inizio ad un concertino che allietava l’aria e gli animi. Passava la stanchezza nell’attesa dell’umile cena, e vi era letizia e condivisione. Una piccola festa, e nessuno si sentiva solo.

E quegli ultimi dell’anno, quando ognuno portava qualcosa da mangiare nell’abitazione più grande, i bambini messi a dormire e controllati dalla portinaia, che veniva ad avvisare quando qualcuno di loro si era svegliato ed era ammesso a partecipare, solo a quel punto, ai festeggiamenti.

Solo ad ascoltare, sento un calore umano ed un senso di appartenenza che ora non è più, per il fatto che viviamo in appartamenti, che solo per l’etimologia della parola stessa rendono le persone ‘appartate’, quindi sole.

E poi ricordo un altro fatto, avvenuto in un cortile della via Colombo, a Sesto San Giovanni, quando mia madre era una giovane sposa. Una sera un loro amico, Peppino, stava molto male. Era necessario l’intervento di un medico specialista, che abitava a Milano. Non essendoci il telefono, un gruppetto di amici, tra cui mio padre, si recò all’indirizzo di detto luminare, il quale era restio ad uscire di casa a quella tarda ora, peraltro con degli sconosciuti. Accettò di seguirli a patto che uno di loro rimanesse a casa sua, quale pegno e garanzia. Così fecero, e il medico poté praticare un’iniezione al malato. La diagnosi era: se supera la notte, sarà guarito, altrimenti…La cosa che mi ha colpito maggiormente è quello che è avvenuto dopo: tutti gli amici della via, di genere maschile, erano radunati chi in casa e chi in cortile, essendo troppi, e le mogli tutte a casa di mia madre. Attesero insieme fino all’alba e Peppino guarì. Mi immagino quella solidarietà data a sua moglie, quel sostegno sincero che deve aver attutito non poco l’angoscia altrimenti insopportabile, se affrontata da soli.

Sono queste le cose che invidio loro, non certo la mancanza di comodità, di lavatrici e asciugatrici di cui disponiamo oggi. Non invidio il fatto che quelle spose abbiano dovuto lavare i pannolini a mano per poi farli asciugare su stufe a legna o carbone. Certo che no, cento volte meglio i nostri pannolini usa e getta, i nostri caloriferi, le nostre televisioni e i nostri cellulari: tutto ciò ci ha reso la vita più facile, non vi è alcun dubbio. Che dire poi degli insetti, delle cimici, dei topi, cose al cui solo pensiero rabbrividisco. Ma penso a quante giovani spose di oggi si sentano sole già al rientro dall’ospedale, dopo aver partorito, e protraggano la naturale depressione post partum per troppo tempo. Invece a quei tempi i bambini si allevavano tutti insieme, nei cortili appunto, ove le nonne sferruzzavano e davano loro un occhio chiacchierando. Bando alla solitudine.

Ora io che abito in una villetta a schiera, so poco o nulla della vita che si svolge fra le mura dei miei vicini di casa. Una volta una mia amica mi ha detto: “Ho visto un fiocco azzurro sul cancello della tua vicina!” ed io ho risposto: “Non sapevo fosse incinta!” Oggigiorno ogni famiglia porta i propri fardelli all’interno delle proprie ristrette mura e questi diventano così molto più pesanti. Auspico un ritorno alla condivisione, all’abbattimento dei muri e alla costruzione di tanti piccoli ponti. Ognuno di noi può farlo, a partire da domani mattina. Basterebbe un sorriso in più, fermarsi qualche minuto a scambiare due parole, almeno quando ci si incontra per le vie dei nostri paesi o delle nostre città. Mi è capitato di volermi fermare con qualche conoscente e sentirmi dire che non aveva tempo, che doveva ‘correre’ a comprare il pane, mentre la prima necessità dell’essere umano, come disse Madre Teresa di Calcutta, è quella di parlare con gli altri. Ma di un dialogo che sia vero, fatto anche di ascolto e di partecipazione se qualcuno ci racconta i suoi problemi…”Quando suona la campana, suona anche per te”.

Dicono che i veri amici si riconoscono nel momento del bisogno, ma non è sempre vero. A volte arrivano persone, quando sei in disgrazia, come corvi affamati. Credo che un vero amico si riconosca forse di più nel momento del tuo successo, quando viene a congratularsi sinceramente.

Ma questa è un’altra storia.

 
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