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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  di vagando, di massimolegnani 09/06/2017
 

di vagando

di massimolegnani



Questa ostinazione a possedere spazio e tempo come fossero i tesori dell’avaro, quando sono solo degli abbagli, un guardare le dita al posto delle lune.

Insopportabile.

Uomini e donne che si credono vincenti nello scandire secondi all’orologio dal braccialetto d’oro, loro stessi caricati a molla pronti per lo scatto. Conoscono l’ora di Roma, di Tokio e di NewYork , però non sanno riconoscere, quando arriva, l’ora della verità e si perdono il momento irripetibile, quello che non trovi sul quadrante, l’istante magico che sta nascosto al mondo e ti passa accanto silenzioso, l’istante da afferrare per la coda o per le ali, la farfalla che poi ti vibra nello stomaco e fa tremar la Cina.

Sono gli stessi uomini, le stesse donne, che si muovono spediti, guidati a mente cieca dall’androide, così raggiungono la meta con la facilità di un AllBlacks al Sei Nazioni, ma intanto si sono persi il viaggio e il dubbio, la magia dell’incertezza che ti costringe a guardarti intorno, a usare gli occhi e il cuore per capire dove andare e forse ugualmente poi finisci per sbagliare.

Il viaggio è il bel disorientarsi, quel sapersi perdere vivendo nell’errore come fosse il vero arrivo.

Ricordo andando a Reggio in una notte sfatta di calura, l’interruzione in autostrada ci costrinse fuori dalla direttrice certa. L’ora tarda e la stanchezza ci fecero sbagliare qualche incrocio tra Locri e Lagonegro, così ci ritrovammo ad infilare strade sempre più improbabili, da traffico locale. Reggio un miraggio che stava sfumando al buio, ma proprio il buio ci andava regalando scenari inaspettati, lanterne ciondolanti sotto i carri, neon di simpatica bruttezza a illuminare case dalle porte aperte, lampadine colorate a bordo-strada a rischiarare bancarelle improvvisate, piccole piramidi di pomodori secchi, carabinieri in legno come pupi siciliani, brocche e piatti col galletto, peperoncini in festoni smisurati, e tutt’intorno voci di richiamo e un brulicar di vita come a giorno.

Si procedeva a braccio, equidistanti ma assai distanti dai due mari, lungo una dorsale in saliscendi senza fine che inanellava paesi e smarrimenti. Il buio sfilacciava immisurabile e la distanza sembrava dilatarsi di ora in ora, la punta dell’Italia la credevamo a un passo ma quando chiedevamo era espressivo il gesto della mano e comprensiva la risata. Così si andava avanti, sottratti al tempo, affrancati dallo spazio. Ogni imprevisto diventava una sorpresa, la trattoria sperduta aperta in piena notte per soddisfare la nostra sola fame, un bar da ultima frontiera col cesso al centro del locale a tacitare vescica e gola in contemporanea, e tu ridevi che non è il caso di schifarsi, ogni strada errata ci forniva l’impressione di penetrare fisicamente la Calabria, Sila e Aspromonte che si toglievano di dosso gli stereotipi per farsi terre d’accoglienza, un Messico nostrano senza nuvole.

E poi la meraviglia all’alba scendendo da Gambarie, vedere laggiù il mare e l’isola Sicilia, enorme. La nostra meta raggiunta al fine con la fatica allegra di un Castrogiovanni al Sei Nazioni.


 
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