di
vagando
di
massimolegnani
Questa
ostinazione a possedere spazio e tempo come fossero i tesori
dell’avaro, quando sono solo degli abbagli, un guardare le dita
al posto delle lune.
Insopportabile.
Uomini
e donne che si credono vincenti nello scandire secondi all’orologio
dal braccialetto d’oro, loro stessi caricati a molla pronti per
lo scatto. Conoscono l’ora di Roma, di Tokio e di NewYork ,
però non sanno riconoscere, quando arriva, l’ora della
verità e si perdono il momento irripetibile, quello che non
trovi sul quadrante, l’istante magico che sta nascosto al mondo
e ti passa accanto silenzioso, l’istante da afferrare per la
coda o per le ali, la farfalla che poi ti vibra nello stomaco e fa
tremar la Cina.
Sono
gli stessi uomini, le stesse donne, che si muovono spediti, guidati a
mente cieca dall’androide, così raggiungono la meta con
la facilità di un AllBlacks al Sei Nazioni, ma intanto si sono
persi il viaggio e il dubbio, la magia dell’incertezza che ti
costringe a guardarti intorno, a usare gli occhi e il cuore per
capire dove andare e forse ugualmente poi finisci per sbagliare.
Il
viaggio è il bel disorientarsi, quel sapersi perdere vivendo
nell’errore come fosse il vero arrivo.
Ricordo
andando a Reggio in una notte sfatta di calura, l’interruzione
in autostrada ci costrinse fuori dalla direttrice certa. L’ora
tarda e la stanchezza ci fecero sbagliare qualche incrocio tra Locri
e Lagonegro, così ci ritrovammo ad infilare strade sempre più
improbabili, da traffico locale. Reggio un miraggio che stava
sfumando al buio, ma proprio il buio ci andava regalando scenari
inaspettati, lanterne ciondolanti sotto i carri, neon di simpatica
bruttezza a illuminare case dalle porte aperte, lampadine colorate a
bordo-strada a rischiarare bancarelle improvvisate, piccole piramidi
di pomodori secchi, carabinieri in legno come pupi siciliani, brocche
e piatti col galletto, peperoncini in festoni smisurati, e
tutt’intorno voci di richiamo e un brulicar di vita come a
giorno.
Si
procedeva a braccio, equidistanti ma assai distanti dai due mari,
lungo una dorsale in saliscendi senza fine che inanellava paesi e
smarrimenti. Il buio sfilacciava immisurabile e la distanza sembrava
dilatarsi di ora in ora, la punta dell’Italia la credevamo a un
passo ma quando chiedevamo era espressivo il gesto della mano e
comprensiva la risata. Così si andava avanti, sottratti al
tempo, affrancati dallo spazio. Ogni imprevisto diventava una
sorpresa, la trattoria sperduta aperta in piena notte per soddisfare
la nostra sola fame, un bar da ultima frontiera col cesso al centro
del locale a tacitare vescica e gola in contemporanea, e tu ridevi
che non è il caso di schifarsi, ogni strada errata ci forniva
l’impressione di penetrare fisicamente la Calabria, Sila e
Aspromonte che si toglievano di dosso gli stereotipi per farsi terre
d’accoglienza, un Messico nostrano senza nuvole.
E
poi la meraviglia all’alba scendendo da Gambarie, vedere laggiù
il mare e l’isola Sicilia, enorme. La nostra meta raggiunta al
fine con la fatica allegra di un Castrogiovanni al Sei Nazioni.
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