Passione
“Devo sbrigarmi” pensò Lorenzo nello scendere dal letto.
Rabbrividì per il
freddo e subito si infilò il maglione che la sera precedente aveva lasciato
sulla sedia. Quell'inverno era così rigido che aveva
preso l'abitudine di tenersi il pigiama, anche di giorno, sotto agli altri
abiti.
Accese la luce: la
lampadina che pendeva dal soffitto diffuse un debole chiarore nella stanza.
Controllò l'ora e ripeté:
“Devo sbrigarmi”.
I suoi ottant'anni non gli permettevano di muoversi con rapidità.
Lanciò un'occhiata alla stufa spenta e alla caffettiera sul fornellino,
già pronta, ma alla fine, seppure con riluttanza, rinunciò all'idea di scaldare
la stanza e di farsi un caffè.
“Meglio, così
risparmio” si disse.
Era una sua
abitudine, quella di parlare a voce alta rivolgendosi a se stesso.
Andò verso il
lavello, aprì il rubinetto e bagnandosi appena le punte delle dita si sciacquò
velocemente il viso: faceva troppo freddo anche per lavarsi.
Si legò una sciarpa
al collo, indossò il pesante cappotto e si mise i guanti di lana in tasca. Se
li sarebbe infilati dopo essere andato in bagno.
Diede un'occhiata
intorno, spense la luce, uscì e chiuse la porta
facendo girare la grossa chiave per due volte nella toppa. Abitava in una
stanza a pian terreno di una vecchia casa a Madonna di Campagna, una di quelle
case di ringhiera che, dietro alla facciata decorosa, nascondeva un profondo
cortile dove si affacciavano alloggi ai piani superiori e, al piano terreno,
locali adibiti a rimesse, magazzini, cantine. La stanza di Lorenzo era
sistemata tra l'officina di un ciclista e la rimessa di un venditore ambulante
di robe vecchie, quasi al fondo del cortile.
A Lorenzo quella
sistemazione piaceva per una serie di motivi.
C'era la comodità
del bagno che si trovava a pochi metri dalla sua stanza. Era, quasi, come
averlo in casa e praticamente non lo usava nessuno tanto che, da tempo, aveva
preso l'abitudine di lasciare il rotolo della carta igienica senza portarlo
avanti e indietro come, invece, faceva una volta.
Poi c'erano i vicini.
Ernesto, che
pomposamente si faceva chiamare antiquario, non mancava mai di regalargli
qualcosa sotto Natale. L'ultima volta era arrivato con una vecchia edizione di
Guerra e Pace ancora in buono stato, fatta eccezione per la copertina sciupata.
Nel dargliela aveva detto sorridendo furbescamente:
“Ieri, al Balon, c'era una donna che voleva comprare a tutti i costi
proprio questo libro. Continuava ad offrirmi sempre più soldi per averlo, ma io
non mi sono mica fatto convincere! Era per te e così non sono stato a sentire
ragioni. Anzi, ad un certo punto le ho detto: «Cara madamin,
ca ënsista nen për piasì!».
Se ne è andata offesa, ma chissenefrega!”
Luigi, invece, di professione
riparava biciclette: era un ometto mezzo calvo con le mani perennemente sporche
di grasso e la radio sempre accesa in officina. Lo chiamavano “ël ciclista” per il discreto passato sportivo che l'aveva
visto partecipare, come gregario, anche ad un giro d'Italia. Nella sua
officina, alle pareti, c'erano appese le foto di vecchi campioni che
ricordavano il suo periodo d'oro. Era un uomo di poche parole,
ma tutti i giorni si sincerava che il vicino non avesse bisogno di
nulla.
Lorenzo uscì sulla strada e si
incamminò verso la fermata del nove. Il traffico a quell'ora
del mattino era inesistente: le poche auto transitavano con i fari accesi a
gran velocità approfittando delle strade semideserte. Salì sul tram e si
sedette in prima fila. Sospirò soddisfatto. Per mezz'ora se ne sarebbe stato
tranquillo al caldo guardando la città a risvegliarsi; a poco a poco il tram si
sarebbe riempito, ma, al momento, si sarebbe goduto la pace e la tranquillità.
Non sopportava la ressa della gente, gli spintoni, la promiscuità che si veniva
a creare nelle ore di punta. Anche da giovane amava stare solo.
Era stato un bravissimo linotipista in una piccola
tipografia aperta in società con un lontano cugino. Aveva lavorato per anni in
una stanzetta sul retro del negozio e, come unica compagnia, la sua linotype;
volentieri aveva lasciato al cugino il compito di trattare con i clienti. Anche
se erano trascorsi tantissimi anni da allora sentiva ancora la mancanza
dell'odore del piombo caldo mescolato a quello dell'inchiostro e, talvolta, gli
pareva persino di sentire il tintinnio cristallino delle matrici. Aveva composto
milioni di parole, con passione e competenza, le aveva allineate, dando luce a
libri, opuscoli, riviste. Ricordava ancora la commozione e la meraviglia che lo
assalivano di fronte ad una bozza ancora umida di stampa. Con occhio critico
apprezzava l'eleganza dei caratteri e l'allineamento perfetto delle righe di
quella che considerava una sua creatura. Poi la tipografia era fallita, le
linotype sostituite dai computer e lui, troppo vecchio per imparare un nuovo
mestiere, era campato di piccoli lavori.
Arrivò alla stazione di Porta Nuova alle sei e trenta, dieci minuti prima dell'arrivo del treno
proveniente da Roma. Ormai non doveva neppure controllare i tabelloni: il treno
sarebbe arrivato al binario numero otto e lì si
sarebbe fermato essendo arrivato al capolinea.
Attraversò il grande atrio dalle
volte alte e immense, si infilò nel passaggio lato via
Nizza e lo percorse fino a sbucare davanti ai binari.
Si avvicinò ad un crocchio di persone
vestite con divise verdi che stavano fumando e bevendo caffè; poco distante da
loro, grossi raccoglitori di immondizia, scope, palette.
“Ciao, Lorenzo. E' da un po' che non
ti vedevamo! Hai fatto vacanza?”
Lorenzo rispose al saluto scherzoso,
scuotendo la testa in segno di diniego. Una donna si allontanò dal gruppo
ritornando poco dopo con una tazza di caffè.
“Bevi che fa un freddo della miseria
stamattina” disse porgendogli la bevanda bollente.
Il piccolo bicchierino di plastica
gli scottò piacevolmente le dita.
Un uomo barbuto dal forte accento
meridionale aggiunse:
“Prima
d'andare via passa nei nostri spogliatoi: in questi giorni abbiamo lavorato noi
per te: troverai una busta sotto al tavolo…”
Gli altri si misero a ridere per la
battuta e Lorenzo ringraziò, compunto e serio come sempre.
Era da anni che frequentava la
stazione e, ormai, gli inservienti lo conoscevano e lo trattavano come uno di
loro. All'inizio aveva fatto fatica a spiegare e spiegarsi, ma alla fine
avevano capito. E lo avevano assecondato.
Il rumore del treno in arrivo coprì
le loro chiacchiere. Gli inservienti iniziarono a camminare lungo la banchina
per raggiungere gli ultimi vagoni. I passeggeri scesero camminando in fretta,
trascinandosi dietro i bagagli mentre accendevano una
sigaretta o telefonavano al cellulare.
Lorenzo rimase fermo vicino ad una
colonna aspettando con pazienza che tutti si fossero allontanati. Poi salì sul treno. Iniziò a percorrere un vagone dietro l'altro
guardando con attenzione sui sedili e sui sostegni in alto, dove i viaggiatori
posavano i loro bagagli. Dopo un'intera notte passata in treno i segni della
permanenza erano ben visibili sotto forma di cartacce, bottiglie vuote,
giornali spiegazzati lasciati in giro un po' ovunque.
Era incredibile, poi, quante cose i
viaggiatori dimenticassero nella fretta di scendere.
Lorenzo, se trovava un oggetto, lo
metteva ben in evidenza sul sedile di modo che gli addetti alle pulizie
potessero vederlo facilmente.
Al terzo vagone trovò, lasciato su un
sedile, un libro. Un'edizione economica, ma in buono stato. Lorenzo lo prese in mano e lo sfogliò con delicatezza: negli occhi
un sorriso soddisfatto. Si trattava di un romanzo storico che lui non aveva
ancora letto. Andava pazzo per i romanzi storici. Leggeva di tutto, ma quelli
erano i suoi preferiti. Tolse dalla tasca una busta di nylon e vi infilò dentro
il libro con cura. Poi continuò nella sua ricerca, senza fortuna.
“Trovato qualcosa?” gli chiese l'uomo
dall'accento meridionale passandogli accanto.
“Sì, oggi mi è andata bene”
“Perfetto. Ricordati di passare nello
spogliatoio, prima di andare via”
“Certo!” rispose Lorenzo.
Scese con cautela dal treno e
camminando lentamente si diresse verso gli spogliatoi. Come gli avevano detto
sotto il tavolo trovò una busta con dentro alcuni libri: gli sarebbe piaciuto
sfogliarli subito, ma non voleva abusare troppo della gentilezza dei suoi
amici. C'era sempre il rischio che entrasse qualcuno
che non lo conosceva e sarebbe stato imbarazzante spiegare il motivo della sua
presenza.
Rientrò a casa con il suo bottino. Si
sedette sul letto e tolse i libri dal sacchetto. Li esaminò uno per uno e
guardò le alte pile di libri, ordinatamente accatastate, che riempivano tutto
lo spazio disponibile. Pensò che avrebbe dovuto ben presto eliminare la sedia
perché occupava troppo spazio: in fondo non gli era poi così indispensabile.
"...Quando penso a tutti i libri che mi
restano da leggere, ho la certezza di essere ancora felice..."
Jules Renard