Con
la veletta sugli occhi
di
massimolegnani
Amavo
in lei il furore e il distacco nel piacere, i gusti raffinati, la
smania di tormentarsi l’anima e quell’acquietarsi
improvviso in un equilibrio raro. Amavo il suo infuocarsi in una
partigianeria smaccata, lo scegliere d’impulso il lato su cui
stare e quel suo starci poi con convinzione fino al prossimo tormento
dello spirito. Amavo l’eleganza dei suoi gesti erotici, le
serissime invenzioni dell’istinto, e soprattutto amavo il suo
pudore nascosto sotto una sfrontatezza in crosta. Amavo il modo
strano del suo amore e la sua rabbia quando ero troppo tiepido.
Sì,
amavo in lei tutto ciò che mi era differente, l’incolmabile
distanza dal mio mondo: io, previdente e prevedibile, non facevo un
passo che non fosse ponderato, lei che se la guardavi camminare
accanto a te, non potevi indovinare il passo successivo.
Lei
una specie di ossimoro, io una frase correttamente piatta.
Come
poteva durare? Ma soprattutto come era potuta cominciare?
Ancora
mi stupisco.
Quella
sera, nel caos di una festa a casa di amici comuni, l’avevo
persa quasi subito di vista. La ritrovai in terrazza che beveva vino
bianco al buio. Era vestita in modo eccentrico. Per rompere il
ghiaccio feci una battuta, quegli scarponcini di vernice nera su una
gonna lunga e vaporosa erano un contrasto davvero eccessivo. Lei
senza voltarsi mi sibilò un Piantala
secco e definitivo. Non mi offesi e per puntiglio restai lì al
suo fianco senza ribattere. Mi appoggiai anch’io alla balaustra
e per un tempo lungo ci spartimmo il silenzio e lo sguardo sperso
sulle luci delle macchine che lontane risalivano la valle.
Quando
finalmente i nostri occhi s’incrociarono, in un soffio caldo mi
disse Portami
via di qua.
Ce la filammo mano nella mano, scendendo le scale a balzelloni,
improvvisamente allegri.
Si
fece loquace nel nostro peregrinare insoddisfatti da un luogo
all’altro. L’ascoltavo volentieri raccontarmi, seduti in
un locale di quart’ordine, la delusione dell’esame
d’italiano alla maturità, come fosse accaduto ieri e non
vent’anni prima, e poi spiegarmi la posizione delle stelle
mentre eravamo sdraiati sull’erba a San Michele. Tentai di
baciarla ma lei mi disse un no tranquillo, riprendendo a parlarmi di
Sirio e Orione. Rinunciai ad altre iniziative e mi adeguai al ritmo
della notte scandito dalle sue parole e dai suoi silenzi.
Però
non mi sorpresi quando mi disse “Andiamo
a casa mia”,
come fosse l’unica cosa logica da fare.
Eravamo
già nudi, quando lei si staccò da me e sparì in
un’altra stanza. Riapparve poco dopo con un cappello in testa
dalla foggia antiquata, di quelli minuti e tondi come una ciambella
che qualcuno ancora usa ai matrimoni.
Nuda,
con il cappello in testa, poteva sembrare ridicola, ma io non risi.
Intuivo una serietà speciale in quell’incedere solenne.
Senza parlare risalì dai miei piedi come fosse fiume il mio
corpo e lei il salmone che ritorna.
A
cavalcioni su di me abbassò lentamente la veletta sul
viso.
Perchè?
le chiesi dispiaciuto.
Mi
rispose con dolcezza: I
miei occhi, la mia bocca, troppa timidezza, non reggerebbero il tuo
sguardo.
E
mi amò in un silenzio rotto unicamente dai miei gemiti
stupiti.
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