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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La trota grassa, di massimolegnani 29/09/2017
 

La trota grassa

di massimolegnani




La signora Jole era restia a scendere in negozio, le sembrava una beffa spolverare le statuine, i ninnoli, gli avori ingialliti e tutti quegli oggetti amati, antichi più di lei, e poi dover stare lì in attesa di un acquirente che quasi certamente non sarebbe entrato. Ormai la stagione volgeva al termine e a dirla tutta non era stata una gran stagione. Preferì restare affacciata alla finestra a fissare il sottile strato di nebbia che si era adagiato come una patina protettiva sulla superficie dell’acqua. Il lago le restituiva intatta la malinconia con cui lei lo guardava. Non era l’invecchiare che la rattristava, in fondo aveva sempre amato tutto ciò che non fosse moderno, passeggero, e se teneva, come ora, una mano intrecciata all’altra poteva ignorare il lieve tremore che le agitava le dita. Era piuttosto quello scivolare inesorabile nella solitudine, sempre meno amici che passavano a trovarla, alcuni scomparsi, i più semplicemente spariti, sempre meno parole e sorrisi da scambiare con qualcuno. Lei che era stata al centro dei salotti bresciani aveva da anni abbandonato la città per non assistere al proprio definitivo declino, convinta che sul piccolo lago che tanto le assomigliava avrebbe trovato consolazione, se non la pace. Ma l’unica consolazione era poter ripensare con nostalgia ai bei tempi andati, lasciarsi cullare dalle frivolezze vissute quando non c’era uomo che non ambisse ad accompagnarla a teatro o in un’ombrosa sala da tè. Ero io la trota grassa, si ripetè ricalcando le parole con cui la vezzeggiava Manlio, parole che in bocca a qualunque altro le sarebbero suonate offensive, ma bisbigliate da lui tra le lenzuola stropicciate assumevano un fascino particolare. Erano un omaggio sfrontato non tanto all’opulenza delle sue forme quanto alla sua fama di femmina fatale che divorava gli uomini e annientava le rivali: c’è sempre una trota più pasciuta delle altre, come si nutrisse delle sue simili, una trota che ogni pescatore vorrebbe catturare. Ma tu non abbocchi all’amo. E con un sorriso malandrino le infilava un dito in bocca a mo’ di uncino, lasciando poi che lei glielo mordesse mostrando i denti in una voluttà solidale. Oh Manlio, nemmeno tu, però, ti sei lasciato catturare, forse ci assomigliavamo troppo, mormorò la signora Jole come avesse ancora davanti a sé l’antico amante.

Delle voci dalla strada la distolsero da pensieri che si facevano sempre più cupi: un uomo a bordo di una spider d’argento chiedeva informazioni a un passante, un luogo lungolago dove pranzare ed eventualmente pernottare. Jole si sporse e gli gridò di aspettarla. L’uomo alzò lo sguardo stupito e, dato che non aveva fretta, accostò l’auto a bordo strada. L’anziana signora fu presa da una frenesia sproporzionata al caso che le intralciò i gesti con cui stava indossando una collana e un braccialetto d’oro e le rallentò i passi suoi insicuri verso la scala. Quando finalmente lo raggiunse, spiegò al turista che in paese non c’erano ristoranti né tantomeno alberghi, ma lei conosceva un posto delizioso, pochi chilometri più a nord. Gli disse il nome della località e del titolare dell’albergo, un mio caro amico, aggiunse, poi volle scrivere con mano malferma qualche riga di presentazione, invero non necessaria data la poca gente in giro. Lo guardò ripartire orgogliosa dell’aiuto che gli aveva dato.

L’albergatore non ebbe alcuna difficoltà ad assegnare al nuovo cliente una camera con vista sul lago ma, guardando incuriosito il biglietto, gli confidò di non avere idea di chi fosse la donna che si era firmata con una semplice J.



 
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