La
ragazza alla pari
di
massimolegnani
Tutto
cominciò con l’annuncio che avevo affisso in università,
nella mia bacheca personale, cerco studentessa alla pari (sono
escluse le frequentatrici del mio corso) per collaborazione
domestica. Avevo urgenza di sostituire l’Argilia che, ormai
anziana, aveva improvvisamente alzato bandiera bianca ed era andata a
svernare al suo paesello. Mi era sembrato che l’annuncio in un
ambiente dove ero piuttosto conosciuto (e temuto) fosse la soluzione
più spiccia. E poi, a dirla tutta, ero stufo di vecchiume, già
mal sopportavo il mio che avanzava inesorabile come un panzer, e mi
allettava l’idea di avere giovinezza che girasse per le stanze.
In
realtà risposero in poche, ma per fortuna con Michela fu
intesa a prima vista: vitto, alloggio, una buona remunerazione e
piena libertà nel tempo libero, una volta assolti i compiti
domestici. La ragazza si dimostrò da subito solerte ed
efficiente, tanto che presto le affidai altre mansioni, come il
disbrigo della corrispondenza e il pagamento delle bollette, poco
alla volta l’intera gestione della casa. Con lei vi furono
altri sviluppi, ma quello che successe tra noi, dopo e di più,
è una questione privata di cui non ho intenzione di parlare,
non voglio innescare rimproveri moraleggianti o battute volgari. Vi
dico solo che Michela era una piacevole conversatrice a tavola e
davanti al caminetto e io godevo della sua presenza tra le mura di
casa senza domandarmi come impiegasse le ore fuori di qui.
Ma
una sera che era uscita, come quasi sempre accadeva a una cert’ora,
mi accorsi di sentire la sua mancanza e di non essere affatto
contento di non sapere dove fosse. Una preoccupazione quasi paterna,
mi dissi, ma nel giro di poco divenne un’agitazione morbosa
priva di sbocchi. Dopo molta inquietudine, decisi di andare a
cercarla e uscii di casa piuttosto baldanzoso. In realtà avevo
idee vaghe su dove potesse essere. Di lei, di quali fossero i suoi
amici, di quali luoghi frequentasse, non sapevo nulla, Michela era
una ragazza riservata, quella sera però avrei usato il termine
evasiva, reticente.
Mi
diressi in centro battendo vie affollare e viuzze deserte senza
trovarla. Pub, bar, osterie, non so in quanti locali entrai, sempre
più affannato e sempre più frustrato a non vederla tra
i clienti. Non volevo arrendermi, ero sopraffatto da un’ostinazione
cupa. Provai ancora in una vineria che sapevo frequentata da
studenti. Mentre bevevo qualcosa di forte al bancone la vidi
abbracciata a un tipo torvo a un tavolo in fondo alla stanza. Per un
istante i nostri sguardi s’incrociarono e io feci un goffo
cenno di saluto che lei finse di non vedere. Per i pochi momenti in
cui rimasi lì a trangugiare un vinaccio acido lei mi ignorò,
occupata com’era a strusciarsi e a baciare il suo compagno
ignaro di tutto. Pagai e uscii frastornato.
Mi
seccava essermi fatto sorprendere da lei in un luogo in cui l’unica
giustificazione alla mia presenza era proprio lei. Mi seccava che non
avesse risposto al mio saluto, anche se capivo che non poteva fare
altrimenti. Mi seccava l’intimità con cui stava
abbracciata a quel ragazzo, noi non ne eravamo mai stati capaci. E mi
seccava soprattutto che tutte queste cose m’infastidissero
oltre misura, come potessi essere geloso di lei.
La
strada verso casa fu un tormento, ero scosso da emozioni
contrastanti, ira, gelosia, frustrazione, sollievo. Sì, per
brevi momenti mi sentivo sollevato dal fatto che Michela avesse una
sua vita affettiva dalla quale ero escluso, questo sgomberava il
campo da ogni implicazione e complicazione sentimentale. Avevo,
saltuariamente, il suo corpo e questo doveva bastarmi. Ma era un
sollievo effimero, subito soffocato dalla rabbia al pensiero di lei
tra le braccia di un altro. Al sollievo più radicale, cogliere
l’occasione per troncare ogni rapporto con lei, non ci pensai
nemmeno per un istante.
Michela
tornò che era notte fonda. Io l’avevo aspettata
sforzandomi di interessarmi a un saggio sulle origini del linguaggio
che in realtà trovavo noiosissimo. Ero nel mio letto, la
chiamai mentre passava per il corridoio. Cacciò dentro la
testa, aveva il trucco sfatto, i capelli in disordine, un segno
vistoso sul collo. Sentii di nuovo l’ira montare, avrei voluto
chiederle con voce tagliente se aveva scopato bene e mi trattenni a
fatica. Le chiesi invece se considerasse il sesso con me un obbligo
compreso tra le sue mansioni, non diverso dal dovermi tenere in
ordine i conti o passare il battitappeto. Non gradì la domanda
e mi guardò con sospetto cercando di capire dove volessi
andare a parare. Ha qualche rilievo da muovermi?, mi chiese,
tornando a un asettico lei. Quel tono vagamente ironico mi fece male,
mi dominai a stento e tentai a mia volta di mantenere un
atteggiamento distaccato mentre le rispondevo no, al contrario
vorrei che passassi il resto della notte nel mio letto. Ma era
evidente come per la prima volta la stessi quasi implorando.
Appoggiata allo stipite della porta mi guardò stupita, come
non si aspettasse una proposta del genere. Dopo qualche istante, in
cui sembrava realmente riflettere su cosa rispondermi, mi gelò
con un non mi sembra il caso, Marcello. Buonanotte. Non
riuscii a replicare e bofonchiai un buonanotte sconsolato
mentre lei si era già allontanata.
Meditai
sulla mia disfatta, niente di peggio che uscire allo scoperto e venir
falciato da un rifiuto. Non avrei potuto scegliere una serata
peggiore per farle quella proposta, lei forse appena sgusciata fuori
dal letto di un altro, io da ore in preda all’inquietudine.
Mi
ero rassegnato a una notte probabilmente insonne, quando Michela
entrò senza bussare. Indossava un pigiama infantile con
stampigliati tanti animaletti scherzosi e appariva imbronciata. Si
era portata il cuscino dalla sua stanza, non riesco a dormire,
mi disse, infilandosi sotto il piumone, come può fare una
figlia nel letto dei genitori durante un temporale. Si addormentò
di botto, prima che io mi fossi ripreso dallo stupore. Ora ero certo,
sarebbe stata una notte insonne. La mia, almeno.
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