Ma
i mandarini dove sono?
di
massimolegnani
Al
mercato della frutta misuro il tempo andato. Ho passi strascicati tra
i banchi carichi di merce troppo moderna, roba elettronica, tessuti
sintetici, attrezzi incomprensibili. Guardo e borbotto. E un filo di
bava mi si ghiaccia sotto il labbro. Ho il furore stupido dei vecchi,
lo so, la loro nostalgia cretina per i bei tempi andati, me ne rendo
conto, ma i mandarini dove sono?
Spaccherei
il bastone sul groppone a questo mascalzone che ride alla mia
richiesta, nonno,
ce li hai sotto il naso i mandarini, cassette intere.
Le
balle! Questi non sono mandarini. Hanno quei nomi scemi, mandaranci,
clementine, mapo, e sanno d’invenzione di laboratorio, come si
chiama quella pecora, sì, quella che era nata in quel modo
strano che non ho mai capito come, Doroti? Dotti? Ecco, con questi
agrumi è uguale. Mica sono nati da una pianta di Sicilia. No,
lo so io che arrivano diretti da una fabbrica supertecnologica.
Incroci li chiamano, una schifezza, dico, io.
Ma
ve li ricordate voi i mandarini, un tempo? Le bucce spesse, rugose,
abbondanti, che il frutto quasi ci ballava dentro, come le tette
della Gina dentro il reggiseno. Ci passavi i polpastrelli, sulle
bucce neh, mica sulle.., poi le incidevi con l’unghia del
pollice, tiravi e tac spogliavi il mandarino (con le tette della Gina
non era così facile, ma dopo, crispa che bello). E la buccia
la mettevi sui cerchi della stufa a profumare la casa, durava ore
prima di abbrustolire e fare quell’odore un po’ più
amaro, che era il momento più bello per noi bambini, un grande
apriva lo sportello che a noi era proibito, le buttava tra le braci e
le bucce scoppiettavano facevano scintille e fiammate violente e noi
lì a battere le mani.
Le
bucce di adesso sono sottili come carta e lisce e tese, senti che gli
spicchi dentro premono come i seni gonfi della televisione, quelli
delle veline, delle letterine, delle cretine, seni lucidi e pompati,
pura plastica, bucce e tette. Tutta roba finta, buona solo per gli
occhi degli allocchi, scusate il bistis di parole. ‘Ste bucce
qui, come non bastasse il seno finto, fatichi a staccarle dal frutto,
devi pelare il mandarino col coltello, s’è mai visto
dico io il coltello per il mandarino che ci sono sempre state le
unghie?
Poi
li mangi, mastichi, mastichi e niente, non trovi un seme. Ma caspio,
te li ricordi, a tavola, quei semi grossi come noci che sputavi in
faccia a tuo fratello, finchè uno scappellotto non ristabiliva
l’ordine? Ma se non c’hanno i semi come fanno a
riprodursi? Ah già, la Doroti! Bella schifezza di laboratorio,
che poi ormai la Doroti sarà già anche morta, sparisse
con lei tutta ‘sta roba artificiale e tornassero le cose
genuine.
Già,
già, borbotto ma poi li compro sempre. E lui, il mascalzone,
lo sa, è lì che aspetta che io smoccoli tutta la
tiritera tanto per sfogarmi e intanto ride. E prima che glielo dica
io, mi domanda, nonno,
il solito chilo di clementine?
E
io rassegnato faccio sì col capoccione.
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