Sogno
profetico
di
Grazia Giordani
"Aveva
preparato un impasto grande e l'ha diviso in tre parti".
Queste
furono le parole di mia madre nel chiaro di un'alba anemica, appena
screziata di nebbia, mentre mi porgeva una tazza di latte
schiumoso.
"Chi?" - le chiesi ancora assonnata,
sforzandomi di allungare la mano, tirandomi fuori dalle coperte.
"Tua
suocera mancata. E' il sogno che ho fatto stanotte: una visione
piacevole di Zaira che in una profonda fontanella di farina aveva
fatto cadere otto uova che parevano guardarmi con i loro bulbosi
occhi gialli. E lei impastava con energici movimenti fino ad ottenere
una superficie liscia e setosa. Poi, con gesto deciso, ha dato tre
colpi di lama e ha diviso l'impasto in tre parti per tirarlo a
sfoglia più agevolmente con il matterello. Mi sono risvegliata
con una sensazione di felicità e ho voluto raccontartelo."
Da
cinque anni non si parlava più di Silvio e delle mie nozze
mancate, in famiglia. Era diventato un argomento proibito. Avevamo
preso questa decisione il giorno in cui era arrivata la "lettera".
Un foglio color avorio, chiuso in una busta in tinta aveva portato in
casa nostra tanto umiliato dolore: Silvio, dopo sei anni di
fidanzamento, rompeva la promessa, scrivendo accorate richieste di
perdono ai miei genitori.
"Ho avuto la sfortuna di
innamorarmi di un'altra donna" - era stata la frase della
lettera che aveva inflitto la trafittura più urente al mio
cuore. E adesso capivo che aveva lottato, cercando di resistere, che
la sua non era stata una decisione presa alla leggera, perché
- proprio poche sere prima - a cena a casa mia, aveva preso accordi
con i miei per le pubblicazioni e i primi sponsali, facendomi salire
sul monte della felicità, ignara che pochi giorni dopo sarei
dovuta sprofondare in una squallida valle di sconforto. Immaginate la
mia disperazione quando mio padre lesse le crudeli affermazioni della
lettera? Dissi a me stessa: "Non voglio più sentirlo
nominare, non voglio più parlarne, non voglio più
pensarlo."
Se riuscii in parte a mantenere i primi due
propositi, al terzo non tenni fede. Come potevo non pensarlo? Tutto e
niente me lo ricordavano: bastava leggere il suo nome in un'epigrafe
sul muro (una vera valanga di Silvio aveva deciso di passare a
miglior vita in quei tempi), oppure leggere il suo nome sul giornale,
riferito ad un attore o ad un ricercato dalla giustizia, perché
il cuore mi salisse in gola, amaro e soffocante come i miei pensieri.
E così mia madre - raccontandomi del sogno -, era venuta meno
ad un proponimento di famiglia, ad un decisione che avevo ritenuto
irremovibile quasi fosse un albero radicato da secoli in un arido
terreno. Mi rividi diciassettenne, proprio nel momento in cui alla
fiera di S.Giorgio avevo conosciuto Silvio. Aveva dieci anni più
di me, la figura asciutta, il sorriso franco, lo sguardo acuto degli
uomini che ti leggono dentro e che sanno lasciarti qualcosa di sé,
quasi una trasmissione dei propri pensieri, di quei lampi della mente
che - per uno strano pudore - stentano ad esprimere a parole. In
quella lontana sera estiva indossavo un abito leggero, che richiamava
l'azzurro sereno dei miei occhi, in parure con il nastro fra i
capelli. di un biondo indeciso come il mio carattere di ragazzina
insicura. Dicevano che io fossi graziosa, così lieve nel
passo, efebica nella figura. Silvio si unì al nostro gruppo e
fece colpo su noi ragazzine con magnanimi gesti, offrendo dolcetti e
a tutte i biglietti per la giostra. Mi sfiorò appena una
braccio nel salutarmi e io avvertii, nell'ansito lieve del suo
respiro, che quel saluto era una metafora, che nascondeva la voglia
di sfiorare le mie labbra, se non addirittura i miei minuscoli seni
di donna-bambina. Il giorno dopo lo incontrai che girovagava nei
pressi di casa mia e ne fui felice, ma non volevo illudermi.
Indossava abiti eleganti, ma non sofisticati, adatti a sottolineare
una virilità chiusa dentro le asprezze di un pudore eccessivo,
proprio agli uomini del mio tempo, a quelli che venivano dalla terra,
timorosi di apparire fragili, femminei. Il suo corteggiamento si
faceva sempre più stretto. Forse era incantato dalla mia
ingenuità, da una freschezza senza finzioni che esaltava la
sua tendenza a sentirsi macho, anche se il dizionario degli anni
Trenta non contemplava questo vocabolo. Non era affettuoso nel senso
classico della parola, soprattutto non in pubblico, ma appena poteva
avermi fra le braccia, mi sentivo ubriaca di lui, sconvolta in corpo
e pensieri.
Tutto questo mi tornò in mente quando mia
madre mi parlò del sogno. Nel pomeriggio di quello stesso
giorno, venne a trovarci una cugina. Ero all'acquaio a rigovernare i
piatti.
"Scusa, ho bisogno di parlarti" - mi disse. Mi
parve strana, questa sua insolita aria di mistero. Nascondeva in mano
un bigliettino ripiegato in quattro, allusiva nello sguardo, l'indice
perpendicolare tra naso e bocca, ad intimarmi un complice silenzio.
Lessi febbrilmente il biglietto: era Silvio che - dopo cinque anni di
silenzio - si rifaceva vivo, chiedendomi un appuntamento. In quel
preciso istante mi riapparve l'immagine della "rivale".
L'avevo vista una sola volta passare per strada al braccio di lui.
All'acquamarina pallida del mio sguardo giovanile aveva contrapposto
le more ardenti dei suoi occhi scuri; la mia bocca pulita, senza
rossetto, mi parve annientata da quelle labbra di carminio, sensuali
come il frutto del peccato. Mi parve inoltre che le mie chiome
chiare, appena mosse da un'unica onda sulla fronte, sfigurassero
accanto a quel caschetto bruno, malizioso. I seni diritti sembravano
voler forare il raso della sua camicetta e la rotondità dei
glutei - troppo fasciati dal tessuto della gonna - sembravano voler
promettere (promesse del tutto mantenute), quel che io non avevo
saputo dargli. Fu questa dolorosa visione a dissuadermi
dall'incontrarlo o fu il ricordo dei cinque lunghi anni, riempiti da
immagini che avrei voluto cancellare? Bastava l'aroma di un sigaro a
riportarmi il sapore del suo fiato, bastava un colpo di tosse o
l'accenno di una risata lievemente aspra a riportarmi tutto lui, i
suoi silenzi, il suo modo contraddittorio di amarmi. C'era la guerra.
Per riempire i miei vuoti d'umanità, facevo da madrina a
qualche soldatino, aiutavo mia madre a confezionare indumenti, ma il
mio cuore era altrove.
Silvio non si diede per vinto. Vennero
altri biglietti. Lui che era un uomo abituato a non chiedere mai,
questa volta chiese e lo fece insistentemente e così ottenne
il mio perdono e quello dei miei genitori. Fu subito stabilita la
data delle nozze. Eppure non ero del tutto felice, non riuscivo a
cancellare completamente il ricordo del precedente voltafaccia del
mio volubile fidanzato. Mia madre ed io ci recammo in bicicletta a
conoscere ufficialmente la famiglia. Indossavo un abitino blu di buon
taglio; una corona di margherite sottolineava il corpetto, quasi un
simmetrico, ingenuo giardino delle mie speranze.
L'accoglienza
dei Bighi fu festante, generosa, ma il fidanzato si allontanò
presto come se la festa non gli appartenesse, come se si vergognasse
a dimostrare pubblicamente il suo affetto e la sua considerazione nei
miei confronti. Questo gesto ci offese tutti al completo, sebbene i
Bighi ci avessero accolte a braccia aperte, a cominciare dal padre,
abbigliato con un gran foulard legato a fiocco intorno al collo e con
il panciotto appesantito da un grosso orologio d'oro a catena. Sì,
fu veramente molto affettuoso con noi questo padre-fattore in
procinto di diventare ricco possidente terriero, che ci venne
incontro con un largo sorriso, caracollando a cavalcioni di un
destriero tirato a lucido come il suo padrone.
Perché
Silvio aveva lasciato (o era piuttosto stato abbandonato?) la
brunetta tutta pepe? Perché era tornato da me con tanta
puntigliosa insistenza per poi trascurarmi così davanti alla
sua famiglia?
Tutto il mio parentado, al ritorno, sollevò
un coro di:
"Lascialo, lascialo!"
"E le
partecipazioni? E le bomboniere già pronte? E i
regali?"
"Meglio nozze rimandate che infelicità
perpetua."
Fu una notte d'inferno, ma non mi lasciai
convincere. E feci bene ad ascoltare la voce dei sentimenti piuttosto
che quella dell'orgoglio ferito.
Dopo una cerimonia alla grande,
nonostante le ristrettezze belliche, ci fu un dolcissimo viaggio di
nozze a Roma e una gravidanza lampo. Concepii immediatamente un
figlio, purtroppo di brevissima vita, e questo fu il grande dolore
della mia esistenza, poiché non vennero altre creature,
sebbene illustri medici mi avessero ripetutamente visitata e
rassicurata, prevedendo una nidiata di piccoli Bighi.
Adoravo la
compagnia di mio marito. Coglievo mazzolini di fiori di campo, a
primavera, per ornare il suo tavolo di lavoro. Silvio era laconico,
allora, nel linguaggio e avaro di lodi, ma sapevo di farlo contento.
La felicità ci raggiungeva soprattutto la notte, nel nostro
molleggiato lettone, dove Silvio era finalmente se stesso.
Altrettanto eravamo felici all'imbrunire, quando io mi vestivo a
festa (stivaletti in tinta con abiti che sembravano danzare intorno
alla mia esile figura) e il mio ombroso marito - fattosi
miracolosamente tenero - mi stringeva alla vita e io mi avvinghiavo
al suo petto. Contavamo quasi le foglie degli alberi, spiavamo i
filari delle piante, pieni di vita, di progetti, pieni di futuro. Se
lo stagno era ghiacciato, Silvio pattinava leggero come un elfo ed io
afferravo lunghi filamenti vegetali, quasi liane di sogno, e mi
lanciavo in aeree scivolate, rincorrendo quello sposo che finalmente
era tutto mio.
Silvio non c'è più. Se l'è
preso la malattia molti anni fa. Eppure, mentre vi parlo e sollevo
gli occhi verso la vetrata, mi pare di vederlo sorridente e - forse
un po' impacciato - nell'atto di porgermi un vassoio coperto da un
tovagliolo. Sotto c'è un impasto grande per tagliatelle,
diviso in tre parti: me lo manda sua madre che è molto saggia
e sa che questi sono stati gli spicchi più forti della mia
vita, dentro cui fra amore e perdono ha trovato spazio un po' di
felicità.
www.graziagiordani.it
|