Diario
delle bugie
di
massimolegnani
Tu
mi chiedi di raccontarti qualcosa che sia autentico,
niente d’inventato, dai,
ma non è facile per me che da anni mescolo memoria e fantasia,
Massimo e Camillo, il vero e il falso, quel che è successo e
quel che non è stato. E ora, a districare il tutto è
come dovessi dividere la pula dal grano e io non sono il contadino
che gli bastava il gesto ampio e semicircolare a far cadere sul
cemento dell’aia le due frazioni separate, io provo a lanciare
in aria le parole ma ricadono com’erano, pure e spurie
mescolate.
È
che io sono un emerito bugiardo e proprio quando invento e temo di
non essere creduto, zac, ci metto la mia faccia che in scrittura è
usare l’io, la prima persona singolare. E magari lo spaccio per
“diario”, come fa il fedifrago alle strette giurando
sulla bibbia.
Io
sono stato sandinista in Nicaragua, ciabattino in Svezia a spiare le
ragazze che danzavano al palchetto nel primo novecento, scacchista
ambiguo in una repubblica del Baltico e sono andato a Rugen ad
incantarmi per un seno in controluce.
Solo
sulla carta, tutto questo, spero ti sia chiaro.
Anche
se poi a Rugen ci sono andato veramente, come in pellegrinaggio nei
luoghi che avevo vagheggiato, e in Nicaragua, bè, era come se,
perché ho assimilato le avventure di un amico mio.
Ma
tu, diario,
insisti, quello
vero.
E
diario sia, sincero.
Vedi,
la mia prima elementare è durata un solo giorno, perché
ancora non sapevo dire le bugie. Eppure i miei genitori me l’avevano
spiegato, se
ti chiedono quanti anni hai devi dire sei e alla domanda quando sei
nato rispondi il quattro settembre.
Mi
credevano dotato, poveretti loro, e d’accordo con la maestra mi
avevano iscritto in prima a cinque anni. Ma si può mentire al
direttore entrato in classe col cappotto scuro sulle spalle come
fosse un giudice togato? Me la ricordo la mia faccia da coniglio
smarrito, me la ricordo perché poi ho impiegato anni a
cancellarla e nel frattempo è stata immortalata in tante foto,
la penna in mano e gli occhi intimiditi. Avrei dovuto anche inventare
un nome di comodo, massimolegnani sarebbe stato perfetto, ma m’è
venuto in mente con decenni di ritardo. Così, “ho
cinque anni e sono nato il quattro gennaio, signor direttore.”
Fine
della carriera scolastica.
Bene
sarei tornato a casa a giocare con le macchinine per un anno
intero.
E
invece no!
Tu sei un bambino dotato
(aridaje
i genitori), non
possiamo farti perdere un anno. Inutile
spiegare loro che l’anno per me sarebbe stato di guadagno, che
già quel solo giorno di scuola in mezzo a gente più
grande mi aveva messo addosso un’angoscia terribile, un mio
compagno aveva addirittura i pantaloni alla zuava, io le braghette a
fil di chiappe, e un altro aveva la fionda con cui mi tirava
pallottole di carta. Volevo restare a casa, ma io ero un bambino
dotato, di cosa non me l’hanno mai saputo dire.
Così
prima privata, tutti i giorni a casa della maestra Calini Pezzoni a
riempire quaderni di aste. Mi sembra di aver fatto aste per un anno,
mica facile sai, soprattutto quelle oblique, d’accordo c’erano
i quadretti, ma mica facile tirare la diagonale senza sapere cosa
fosse. E poi non sono mai stato bravo a disegnare.
Il
fatto è che non mi sono mai schiodato da quella prima in
solitaria, una vera traversata oceanica in controvoglia. Mi sono
rimasti appiccicati come carta moschicida lo spaesamento, mai capito
che ci facessi lì, e il disinteresse per l’apprendimento.
La
maestra era profuga di Libia e dalla Libia s’era portata una
palma che vivacchiava asfittica in mezzo al ghiaietto del giardino,
ma che cosa ce l’ha a fare uno un giardino se anziché
l’erba ci mette la ghiaia e una palma?
La
maestra mi chiamava zuccone e perdeva le salive tanto si arrabbiava.
Ma quando mia mamma mi veniva a prendere, lei si faceva ossequiosa,
mi carezzava sulla testa e le diceva “è
proprio un bambino dotato.”
Non
so come, ma ho imparato a scrivere. Ormai era la fine dell’anno
scolastico e a settembre sarei stato iscritto alla seconda. Per
festeggiare mi hanno comprato un diario e io per abituarmi al
prossimo primo giorno di scuola e non fare figuracce, l’ho
riempito con una sola frase ripetuta all’infinito “ho
sei anni compiuti il quattro settembre.”
Senza
pensare che nel frattempo gli altri ne avevano compiuti sette.
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