Spazzacamino
di
massimolegnani
L’ho
chiamato ad agosto, è arrivato solo ora, forse era partito
dalla Danimarca ai tempi di Andersen.
Già,
dici spazzacamino e t’immagini un ragazzino magro, col cilindro
in testa, il nerofumo in viso, le corde a tracolla, pronto a calarsi
dal comignolo e a riapparire ancor più sporco dalla cappa del
camino.
Invece
si presentano in due, distinti, lindi, educati, stavo per cacciarli
credendoli testimoni di Geova.
Avevamo
l’agenda piena di impegni più urgenti, si
giustificano compassati mentre indossano guanti in lattice, tute
candide e calzari immacolati. Sembrano due RIS di Parma. E come RIS
riempiono la casa di gesti professionali, di strumenti tecnologici e
di un alone di diffidenza programmatica, tesa a scoprire quali
delitti nascondo sotto la cenere. Nessuno è mai privo di
errori, sembrano dirmi, e noi siamo qui per scovarli. E
intanto analizzano i fumi, esaminano grumi catramosi staccati dalla
canna fumaria, seguono su un monitor le immagini di una telecamera
che hanno calato dal comignolo.
Li
osservo e mi sento sempre più a disagio, penso ai miei
scheletri nell’armadio, ripasso le bugie dette negli ultimi
dieci anni, non devo contraddirmi, stai calmo, massimo, non hanno
prove, è tutta scena per spaventarti. Si consultano a
sguardi silenziosi, scuotono la testa ma non spiccicano parola.
La
mia ansia cresce.
Lei
usa legna verde o umida, sentenzia severo, picchiettando con uno
specillo sul reperto di catrame, quello che mi sembra il capo.
Iooo?
Mai! Glielo giuro sulla testa di mio nonno (pace all’anima
sua), signor capitano., rispondo sudando freddo. Negare, negare
sempre, negare anche l’evidenza. La luce che ha sopra il
caschetto mi acceca e mi impedisce di guardarlo in faccia, è
quasi un terzo grado.
Si
rilassi, signor legnani, beva un po’ d’acqua. È
l’altro che parla, quello che fa la parte del buono, sai la
tecnica collaudata del bastone e la carota per disorientare
l’indagato. Ma io non ci casco, respingo sdegnato il bicchiere,
sono perfettamente rilassato. Non ho nulla da nascondere, io.
Rispondo secco e ficco le mani in tasca, che non si veda il tremore
che le affligge.
Vorrei
esaminare le sue scorte di legna, dice il capitano, usando un
condizionale che suona più perentorio dell’ imperativo.
Apro la porta e gli indico la scala che scende al locale dove
conservo la legna. Non voglio scendere con loro, ma il suo..ci
faccia strada, non mi lascia scampo.
Mentre
li introduco nella legnaia mi sento già spacciato. Infatti:
Questo
è sangue. Come lo spiega, signor legnani?, chiede il
capitano indicando l’accetta infissa in un ceppo e le chiazze
rosse che tappezzano il pavimento, la legna accatastata e qualcuna
persino il soffitto.
La
gallina, balbetto senza riuscire ad aggiungere altro.
Cioè?
Non
sono riuscito a staccarle il collo al primo colpo.
Quanti
colpi?
Una
trentina.
Omicidio
con efferatezza!
Con
imprecisione, puntualizzo. Non stava ferma e io sono maldestro
con l’accetta.
L’uomo
studia i ciocchi di legno e ne sfila uno dalla catasta più
imbrattato di sangue degli altri.
Questo
lo prendo io per esaminarlo in laboratorio. Ci dirà tante
cose. Ha un sorrisetto soddisfatto il capitano, io mi sento
morire.
Risaliamo.
Sulla scala mi scortano, uno davanti e l’altro dietro, forse
temono che scappi.
Ma
io non scappo, ormai sono rassegnato.
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