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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Spazzacamino, di massimolegnani 02/03/2018
 

Spazzacamino

di massimolegnani



L’ho chiamato ad agosto, è arrivato solo ora, forse era partito dalla Danimarca ai tempi di Andersen.

Già, dici spazzacamino e t’immagini un ragazzino magro, col cilindro in testa, il nerofumo in viso, le corde a tracolla, pronto a calarsi dal comignolo e a riapparire ancor più sporco dalla cappa del camino.

Invece si presentano in due, distinti, lindi, educati, stavo per cacciarli credendoli testimoni di Geova.

Avevamo l’agenda piena di impegni più urgenti, si giustificano compassati mentre indossano guanti in lattice, tute candide e calzari immacolati. Sembrano due RIS di Parma. E come RIS riempiono la casa di gesti professionali, di strumenti tecnologici e di un alone di diffidenza programmatica, tesa a scoprire quali delitti nascondo sotto la cenere. Nessuno è mai privo di errori, sembrano dirmi, e noi siamo qui per scovarli. E intanto analizzano i fumi, esaminano grumi catramosi staccati dalla canna fumaria, seguono su un monitor le immagini di una telecamera che hanno calato dal comignolo.

Li osservo e mi sento sempre più a disagio, penso ai miei scheletri nell’armadio, ripasso le bugie dette negli ultimi dieci anni, non devo contraddirmi, stai calmo, massimo, non hanno prove, è tutta scena per spaventarti. Si consultano a sguardi silenziosi, scuotono la testa ma non spiccicano parola.

La mia ansia cresce.

Lei usa legna verde o umida, sentenzia severo, picchiettando con uno specillo sul reperto di catrame, quello che mi sembra il capo.

Iooo? Mai! Glielo giuro sulla testa di mio nonno (pace all’anima sua), signor capitano., rispondo sudando freddo. Negare, negare sempre, negare anche l’evidenza. La luce che ha sopra il caschetto mi acceca e mi impedisce di guardarlo in faccia, è quasi un terzo grado.

Si rilassi, signor legnani, beva un po’ d’acqua. È l’altro che parla, quello che fa la parte del buono, sai la tecnica collaudata del bastone e la carota per disorientare l’indagato. Ma io non ci casco, respingo sdegnato il bicchiere, sono perfettamente rilassato. Non ho nulla da nascondere, io. Rispondo secco e ficco le mani in tasca, che non si veda il tremore che le affligge.

Vorrei esaminare le sue scorte di legna, dice il capitano, usando un condizionale che suona più perentorio dell’ imperativo. Apro la porta e gli indico la scala che scende al locale dove conservo la legna. Non voglio scendere con loro, ma il suo..ci faccia strada, non mi lascia scampo.

Mentre li introduco nella legnaia mi sento già spacciato. Infatti:

Questo è sangue. Come lo spiega, signor legnani?, chiede il capitano indicando l’accetta infissa in un ceppo e le chiazze rosse che tappezzano il pavimento, la legna accatastata e qualcuna persino il soffitto.

La gallina, balbetto senza riuscire ad aggiungere altro.

Cioè?

Non sono riuscito a staccarle il collo al primo colpo.

Quanti colpi?

Una trentina.

Omicidio con efferatezza!

Con imprecisione, puntualizzo. Non stava ferma e io sono maldestro con l’accetta.

L’uomo studia i ciocchi di legno e ne sfila uno dalla catasta più imbrattato di sangue degli altri.

Questo lo prendo io per esaminarlo in laboratorio. Ci dirà tante cose. Ha un sorrisetto soddisfatto il capitano, io mi sento morire.

Risaliamo. Sulla scala mi scortano, uno davanti e l’altro dietro, forse temono che scappi.

Ma io non scappo, ormai sono rassegnato.




 
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