TANTI AUGURI, JOE
La COLUMBUS viaggiava con
tutta la potenza dei suoi tre iperturbo E-27
alimentati a propellente misto. Fendeva i neri mari dello spazio infinito da 73
giorni.
Joe d'Ottavio quella mattina compì in perfetto orario i
cinque controlli di routine sugli automatici e i due sulle riserve, poi trovò
qualche minuto per pensare al suo ritorno. Straordinario e festoso ritorno.
Dea
si profilava non molto lontana. Una grossa palla eburnea come una sfera di
latteo cristallo. Un leggero sorriso mosse le labbra di Joe quando si chiese per
l'ennesima volta come mai lo scopritore dell'undicesimo pianeta del sistema
solare non avesse dato a quella lontanissima roccia il nome d'un dio
mitologico. Era forse una domanda retorica poiché una
verità lui forse la conosceva. Il sorriso si accentuò. Correva voce che quel
nome fosse di una donna, che aveva preteso un pianeta
in cambio d'una notte d'amore. Joe provò a immaginare
quale fantastica donna dovesse essere quella
presuntuosa amante e istintivamente pensò alla sua attrice preferita. Sospirò.
Chissà, forse per lei avrebbe fatto lo stesso.
Un
cicalio lo distolse da quel piacevole pensiero. Guardò il proprio cronometro da
polso più per abitudine che per verificare l'ora. Il computer che regolarizzava
la sua giornata non sbagliava mai. Erano infatti le 12
e 30 precise, orario standard terrestre. Mangiò con appetito, come al solito, senza fame e questo era l'inequivocabile segno
che stava bene. Contravvenendo alle precise disposizioni saltò il controllo
medico giornaliero, ma redasse il consueto diario di bordo. Infine con un certo
anticipo se la squagliò nella grande cupola trasparente. Nell'intimo Joe era un sognatore e adorava stendersi sotto quella
cupola dal diametro di circa tre metri a guardare l'universo scorrere
lentamente davanti ai suoi occhi. Amava anche scrivere versi, ma li teneva
gelosamente per sé. In quel momento non era in vena; si limitò allora a
chiudere gli occhi e a sognare d'essere nuovamente sulla Terra, in uno
qualsiasi dei suoi angoli più reconditi in una notte d'estate a fissare le
stelle. Con a fianco…
L'allarme
giallo l'infastidì sul più bello. Si sollevò borbottando un –
Cosa diavolo succede ora? – e senza fretta raggiunse il posto di
controllo più vicino. Accese i due monitor secondari e li sincronizzò con gli
altri due principali sempre in funzione. Poi attese.
L'allarme
continuava a essere giallo, solo un preavviso. Ma per cosa? Pigiò qualche tasto
Con una certa curiosità. Non era preoccupato, avrebbe persino
potuto starsene buono buono ad attendere che
l'automatico gli desse delle informazioni precise, ma sapeva per lunga
esperienza che un allarme giallo trascurato avrebbe potuto in seguito creare
fastidi. Pericoli mai, ma fastidi sì. Lui amava una vita tranquilla. Era forse
per questo che era stato preferito a una ventina di altri astronauti per quella
monotona missione verso Dea.
E
con istruzioni di una semplicità disarmante. Doveva semplicemente piantare sul
suolo ghiacciato una bandiera, quella del suo stato e pronunciare le fatidiche
parole: "...in nome del Popolo... e del Presidente... io prendo
possesso... bla, bla, bla. .." Poi rimettere il vestito buono nella valigia
e tornare a casa.
La
corsa ai pianeti era diventata frenetica, ma stranamente un accordo era
rispettato: chiunque fosse stato in grado per primo di piantare la propria
bandiera su un qualsiasi pianeta o roccia vagante nello spazio ne sarebbe
divenuto il legittimo proprietario. C'erano stati troppi guai sulla luna.
Troppi guai per colpa di troppe bandiere diverse. A lui stava bene. Meno di
sette mesi di missione e poi il resto dell'anno a casa con uno stipendio da
favola. Intanto i primi segnali finalmente giungevano. Il
computer prese a ticchettare quasi battesse i denti dal freddo e infine
una frase pulsante e luminosa apparve sul video principale:
SCIAME DI METEORE MEDIO-PICCOLE IN
ROTTA DI COLLISIONE
Joe sbuffò infastidito. Altre riparazioni in vista. Uno
schermo mostrò una zona dello spazio e localizzò lo sciame con un cerchietto
che andava lentamente ingrandendosi. Di lato in basso a destra due diverse
numerazioni. La prima scandiva i secondi al rovescio per l'impatto, la seconda
numerava velocemente le meteore rilevate. Lo schermo ausiliare era ovviamente
rimasto spento. L'uomo lo svegliò, poi digitò alcune istruzioni. Il computer le
recepì con la solita inumana efficienza e, chiesta conferma, fece rientrare
negli appositi alloggiamenti il 73% degli elementi esterni. Per il restante 27%
si sarebbe affidato alla fortuna anche se sapeva bene
che qualcosa ne sarebbe uscita rovinata.
Il
tempo passava lentamente e lo sciame s'ingrandiva sotto lo sguardo attento
dell'astronauta. Man mano che le meteore si facevano più vicine il computer di
bordo riversava sullo schermo 2 un mare di dati che venivano
tutti immagazzinati nella memoria centrale. Rotta, composizione, velocità,
diametro medio, minimo e massimo. E finalmente giunsero.
E
andarono oltre in una frazione di secondo. Solo un leggerissimo crepitio.
E
quasi contemporaneamente tre spie gialle presero a pulsare.
–
Eccoti sistemato per le prossime ore. – si disse sospirando. Soltanto lui
sapeva bene quanto l'infastidisse interrompere la
solita routine quotidiana.
Rimise
fuori tutti gli apparecchi. Accese le telecamere 3 e 4 e chiese la posizione
delle zone colpite. Non aveva finito di battere la domanda che le solite
scritte apparvero sullo schermo:
CONDOTTO SCARICO RIFIUTI 4 SETTORE C-5-J
ANTENNA PUNTAMENTO CELLULE
SOLARI 23 SETTORE F-2-H
TELECAMERA I
SETTORE F-3-W
Il
primo e il terzo guasto non lo preoccuparono per nulla. Il secondo era da
ripararsi al più presto. L 'energia era tutto in
quella scatola di latta. In ogni caso cominciò dal primo che era riparabile
dall'interno. Un meteorite aveva urtato il portello esterno del condotto di
scarico facendolo aprire. C'era anche la possibilità che fosse
saltato del tutto, ma poco importava. Sigillò il portello interno in
modo che non vi fossero perdite. E così poteva restare sino al rientro. Era già
tanto tenere in funzione il condotto scarico rifiuti 1. L'antenna per il puntamento
era stata tranciata di netto, mentre la telecamera aveva avuto il supporto
semplicemente inclinato.
Attese
ancora qualche istante davanti allo schermo per verificare se ci fossero danni
ad altri apparecchi, ma per fortuna nulla apparve sul video. Allora fece
rientrare i pannelli con i pezzi danneggiati e, indossata la tuta, si apprestò
a ripararli. Per qualche ora poteva disattivarli. Avrebbe reso un po' cieca
l'astronave, ma era un lavoro che andava fatto. Attraverso la fitta rete di
condotti periferici, come grandi capillari dell'astronave, raggiunse il settore
dell'antenna e la sostituì. Più difficile del previsto fu raddrizzare il
supporto della telecamera. Mentre lavorava il suo sguardo salì un attimo al
cielo nero attraverso la stretta apertura del settore e pensò a quanto fosse rischioso un tempo effettuare riparazioni di quel
genere uscendo nello spazio. Lo sguardo scivolò al pianeta ancora lontano. Era
davvero bello, con quell'aspetto vagamente cupo.
Meritava certo di essere paragonato a una splendida donna.
Eppure
lui l'avrebbe chiamato in un altro modo…
Girò
il capo di scatto. Cos'era stato? Con la coda dell'occhio aveva intravisto come
un movimento. Fuori. Si diede dello sciocco. Ovviamente non c'era nulla, non
POTEVA esserci nulla. Un movimento? A centinaia di milioni di chilometri dalla
Terra? Nello spazio assolutamente vuoto?
Sollevò
le spalle. Forse aveva lavorato troppo. Lo pensò senza ironia. Sapeva bene che
una prolungata inattività poteva rendere faticoso un lavoretto d'un paio d'ore.
Specie in assenza di gravità e con la pesante tuta. Si ripromise di tornare in
palestra quotidianamente, com'era el programma e non
solo quando ne aveva voglia come stava facendo da un paio di settimane. Finì in
fretta il lavoro e forse per questo non ne fu molto soddisfatto. La telecamera
avrebbe potuto ruotare sino a un certo punto riducendo il campo visivo. Doveva
quindi essere sostituita. Non poteva farlo in quel momento, non aveva portato
con sé il pezzo di ricambio. Sollevò le spalle in un gesto a lui molto
familiare. Poco male, l'avrebbe sistemata il giorno seguente, del resto non
c'era fretta. Rimise a posto l'attrezzatura e tornò all'interno della nave.
Quella
sera la cena fu abbondante. Mangiò accompagnato da una vecchissima opera lirica
di Mascagni. Quando terminò si sentiva completamente
a posto. S'era scrollato di dosso persino quel senso di solitudine che
l'afferrava nei rarissimi momenti in cui la sua mente tornava a casa, alla sua
famiglia. Compì l'ultimo controllo, verificò che tutte le spie fossero spente,
chiese al computer se ci fossero ordini in memoria dalla base per il giorno seguente
e, ricevuta risposta negativa, tornò alla sua cuccetta.
Sprimacciò
un vecchio cuscino con all'interno autentica lana, che
usava portare con sé nelle missioni, si spogliò e in slip e canottiera si stese
sul lettino prendendo un libro a caso. Aprì alla pagina segnata e cominciò a
leggere. Rilesse tre volte lo stesso periodo senza capirlo. Infine sollevò gli
occhi dal foglio. La sua mente era tornata a quel guizzo, quel movimento
rilevato di sfuggita fuori dell'astronave. Già, fuori. Certo un riflesso sul
vetro del casco. Non poteva essere null'altro. Era stupido continuare a pensare
e magari preoccuparsi per nulla.
Così
decise di concentrarsi sul romanzo.
Fu
grazie a questo che sentì il rumore.
Il
racconto s'era fatto tanto avvincente che non s'accorse
d'aver prolungato la lettura sino a notte tarda. Ovviamente seguiva il tempo
standard terrestre solo per una questione fisiologica. Era opportuno che il suo
organismo non risentisse dei mutamenti d'orario, insomma facevano di tutto per
rendergli meno stressante il viaggio solitario. Stressante?! Spesso aveva riso
di quella vana preoccupazione. Lui era sempre stato un misantropo, l'unica
compagnia che amava era quella di un buon libro e di qualche nastro d'ottima
musica. Poi aveva le sue poesie. E non c'era bisogno di null'altro. Era stato
sposato due volte e probabilmente avrebbe divorziato prima o poi dalla seconda
moglie. Nessuna donna riusciva a sopportare il suo carattere introverso e la
sua compagnia silenziosa.
Il
rumore che udì fu di metallo contro metallo. In realtà i colpi furono due, il
primo leggero, il secondo più deciso, ma a quel punto poco importava. Era un
rumore. Ed era impossibile che potesse esserci. Joe
sollevò perplesso gli occhi dal libro e istintivamente li puntò in alto. Una certa
preoccupazione si fece strada nell'intimo. Sì, lui si preoccupava facilmente, a
volte per sciocchezze, ma era anche un grande esperto di viaggi spaziali e per
questo sapeva che quei colpi non erano assolutamente una sciocchezza. Anzi. ..Il suo cervello cominciò a lavorare freneticamente. Cosa
poteva averli causati? Un colpo d'ariete nelle tubazioni d'acqua? Possibile.. se ci fossero state tubazioni. Conosceva bene quella
sezione di nave quasi fosse stato lui stesso a
progettarla e sapeva che da quella parte non esistevano condutture d'alcun
genere. Non era stata scelta a caso. Ne, del resto, qualcosa poteva sbattere
liberamente.
Allora?
Si alzò dal letto, infilò la leggera tuta da riposo, un paio di scarpette senza
suole e uscì dalla cabina. Le luci erano attenuate, ma la visibilità
sufficiente. Dal più vicino terminale del computer chiese la sezione della nave
nella sua zona. Attese appena un secondo. Per accertarsi di ricordar bene.
Intorno alla sua cabina si aprivano a ventaglio quelle destinate all'equipaggio ovviamente vuote. Sopra queste parte della
stiva, precisamente le sezioni 7 e 8. Più su ancora la fascia delle navette di
salvataggio. Infine otto centimetri d'acciaio temprato e lo spazio esterno.
La
soluzione del problema non poteva essere difficile. Si allontanò dal terminale
e cominciò a esplorare le cabine. Poi passò alle stive. Quando aprì la porta
della 8 si fermò sulla soglia aggrottando le sopracciglia. Un grosso
contenitore d'acciaio troneggiava nel bel mezzo della stanza. Con circospezione
cominciò ad avvicinarsi. Intorno a lui il silenzio era ovattato. Non un rumore,
il più banale, insignificante. Silenzio assoluto. E così doveva essere. Quel
silenzio avrebbe potuto far impazzire un uomo normale. Al contrario lui
l'adorava.
Il
contenitore era vicinissimo, a portata di braccio. Con una mossa decisa lo
aprì. E si diede dello sciocco. Era il contenitore per eventuali reperti.
Ricordò che all'ultimo momento era stato spostalo dalla stiva
2 alla 8 perché più vicina. Sollevò le spalle stringendo le labbra e si
girò per uscire.
Fu
allora che udì il terzo tonfo. Proveniva inequivocabilmente da
su.
La
sensazione che provò è difficile da descrivere. Come. ..come
esser solo in un appartamento d'un palazzo vuoto in una città deserta in un mondo
morto e all'improvviso udire un rumore di passi dietro la porta. L'astronave
era per lui tutto. Il suo appartamento, il suo palazzo, la sua città, il suo
mondo.
E
lui era l'unico abitante di quel microcosmo.
Eppure
aveva sentito dei colpi. Secchi, decisi. Qualunque meteorite sarebbe stato
rilevato con molto anticipo.
Cercò
di riflettere senza lasciarsi spaventare. Immediatamente sopra le stive c'erano
le navette di salvataggio. Che ci fosse un clandestino? Un'altra improbabile
possibilità. Nella corsa a Dea qualche altra nazione poteva aver tentalo il
colpo gobbo: ma chiunque si fosse nascosto l'avrebbe potuto fare con l'aiuto di
un complice alla base. E portandosi appresso una non indifferente riserva
d'acqua e di viveri. A meno che non fosse un ottimo conoscitore della nave e
del modo di utilizzare le riserve idrico-alimentari
delle navicelle di salvataggio.
“Oh, Santo Cielo" pensò,
"questo non ci voleva proprio." Per fortuna la ragione e l'ottimismo
non l'abbandonarono. Nell'intimo pensava che certo sarebbe stata la solita
stupidissima cosa che avrebbe fatto poi sganasciare dalle risale
gli amici alla base al suo ritorno.
Eppure… le navicelle… poteva essere…
Uscì dalla stiva e si avvicinò al terminale. Batte la richiesta di controllo
dello stato delle scialuppe e non fu molto meravigliato dal constatare che
tutte erano in perfetta efficienza. L'apertura anche non forzata dello
scomparto dei viveri sarebbe stata rilevata. Al computer non poteva sfuggir
nulla. A meno che l'intruso non fosse tanto abile da manomettere la macchina.
Scosse il capo quasi a voler allontanare quei pensieri molto pericolosi. Sapeva
che tutto era possibile. Così infine ammise a se stesso che c'era una sola cosa
da fare: andare a controllare di persona.
Già!
E magari trovare un clandestino armato disposto a tutto.
Maledizione!
Lui non aveva alcun genere d'arma. Cosa diavolo doveva fare?
L'idea
la ebbe subito. Era un tantino complicata ma
difficilmente la situazione gli sarebbe sfuggita di mano. Ovviamente sopra di
lui le navicelle erano tutte aperte. Senza esitare inserì la procedura di
preallarme, simulò l'ingresso nelle scialuppe poi le chiuse. Il computer parve
perplesso. Oh, fu una sua impressione, ma chiese
conferma all'ordine. E una volta ottenutala si limitò a obbedire con la
velocità di nanosecondi. Ammesso che ci fosse stato un clandestino, era in
trappola. Ordinò immediatamente il cessato allarme, inserì la procedura di
esercitazione, ma lasciò i portelli saldamente chiusi. Infine con una certa
titubanza salì nel settore scialuppe. L'ampio
corridoio che si apriva davanti all'ingresso era assolutamente vuoto, senza un
possibile nascondiglio. Molto lentamente Joe si
affacciò agli oblò delle cinque navette. Col cuore in gola osservò l'interno
ben illuminato e con le cuccette ben in vista. Le porte dei minuscoli bagni
erano aperte. Passò e ripassò tre volte davanti agli oblò finche non fu
assolutamente sicuro che tutto fosse a posto. Allora si decise a spalancare i
portelli.
Sudava
leggermente quando finì l'esplorazione. Nulla. Nulla e
nessuno. In quel posto lui era l'unico essere vivente. Eppure i colpi li aveva
sentiti. Chiari. Mille idee cominciarono a vorticargli nella mente, ma con uno
sforzo non indifferente s'impose di tenere a freno la fantasia, di limitarsi a
un logico ragionamento. E più ci pensava più gli pareva improbabile l'ipotesi
del clandestino. Chiunque fosse entrato di soppiatto nell'astronave avrebbe
dovuto passar inosservato troppi controlli, far troppo
affidamento sul caso o sulle combinazioni favorevoli. E certo non si sarebbe
messo a battere dei colpi per indicare la propria presenza.
Respirò
a fondo. A parte il battito del cuore un tantino più accelerato del normale, si
sentiva a posto. Non aveva paura, ma sulle sue spalle c'era una
enorme responsabilità. E non gli era permesso commettere errori d'alcun
genere. Istintivamente sollevò il capo. Non restava che…
A
pochi metri da lui c'era solo lo spazio profondo e ostile. E, come a conferma
di quel pensiero, ancora due colpi leggeri e veloci. Eppure ben distinguibili.
A quel punto la spiegazione era una sola. Quei rumori non potevano che
provenire da fuori.
E
lui non seppe se sentirsi sollevato o atterrito.
Tornò
al centro controllo evitando i terminali più vicini. Aveva bisogno di tutti gli
schermi disponibili. Accese i soliti due e mise in funzione la telecamera 3
facendola ruotare verso la parte posteriore dell'astronave.
Subito
si accorse che non sarebbe stato in grado di mostrargli la zona interessata, per cui accese la 1 e la 4. Il cielo nero era interrotto da
antenne e protuberanze di luccicante metallo che parevano emergere
dall'astronave come virgulti. La 1 si bloccò quasi subito a causa del supporto piegato mentre la 4 compì tutto l'arco di circonferenza
ch'era in grado di descrivere. Allora Joe si spallò
mettendo a dura prova la robustezza dello schienale e scosse il capo mentre quella che poteva essere una spiegazione al
fenomeno gli balenava nella mente. Senza esitazione tornò a chiedere al
computer i danni al condotto di scarico rifiuti e con
un sorrisino verificò che non si sbagliava. Il portello esterno di chiusura era
saltato. Questo poteva spiegare tutto. Una volta divelto
il portello per inerzia era rimasto nella scia dell'astronave e ogni tanto
l'urtava magari per effetto di una propria rotazione. Non bisognava essere un
esperto astronavigatore per accettare un'idea simile.
Tranquillizzato spense tutto. Quella notte aveva fatto dello straordinario, era
tempo di tornare a dormire.
Per tutto il restante periodo di
sonno sognò solo bidoni di spazzatura.
Il
mattino seguente dimenticò di riparare la telecamera. O forse è più esatto dire
che non ci pensò neanche. Dopo tutto il trambusto della trascorsa notte aveva bisogno
di più riposo, di più tranquillità. Fece le solite verifiche, calcolò il tempo
residuo al raggiungimento di Dea e si prese la libertà di far ruotare
leggermente l'astronave in modo che dalla sua cupola trasparente potesse vedere
il bianco pianeta.
Era
sicuro che prima o poi gli avrebbe dedicato una poesia. Finì come al solito a contemplare le poche stelle che il chiarore di
Dea non riusciva ancora a cancellare e a sognare altri cento viaggi come quello
alla ricerca di lontani e fantastici mondi. Fu afferralo da un'idea improvvisa.
A Terra si scommetteva che presto si sarebbe scoperto un dodicesimo pianeta del
Sistema Solare, poi un tredicesimo, un quattordicesimo e così via. Infatti persino Dea mostrava le solite perturbazioni nella
sua orbita che, per ogni scienziato, significavano una cosa sola: un altro
corpo celeste sconosciuto nelle vicinanze. A bordo c'erano ottimi strumenti
d'osservazione e le sue conoscenze astronomiche erano molto profonde, come pure
le sue capacità matematiche. Poteva allora impelagarsi in qualche ricerca
perditempo senza correre il rischio di spacciare per un nuovo pianeta una
vecchia roccia. L'idea gli piacque, ma, com'era suo solito, non ne fu
elettrizzato e l'entusiasmo del primo momento scemò trasformandosi in autocompiacimento.
Chiuse gli occhi e, ridacchiando, si chiese quale nome avrebbe dato al suo
pianeta.
Be', c'era sempre quello della sua attrice preferita. Ma
chissà cosa ne avrebbe ricevuto in cambio. Ancora ridacchiando riaprì gli
occhi.
Il
sorriso gli si gelò sulle labbra. Come il sangue nelle vene.
Il
cuore si fermò. Per un lunghissimo istante. Al di là della spessa parete in
cristallo trasparente ipertemperato, proprio vicino
al bordo della cupola era sbucato un braccio. La mano aveva gli speciali guanti
d'uscita con le dita ben definite, il resto era ricoperto dalla consueta tuta
bronzea con lo stemma del suo paese all'altezza del gomito.
E
si muoveva quasi volesse salutarlo.
Ancora
una volta, grazie al suo straordinario autocontrollo, riuscì a mantenere la
calma. Si alzò lentamente e si avvicinò al bordo della cupola con gli occhi che
non riuscivano a staccarsi dal braccio. Quando però fu molto vicino questo
scivolò all'indietro sparendo dalla vista. Joe portò
le mani agli occhi e se li stropicciò. Fu un gesto istintivo, ma che indicava
tutta la sua sorpresa. Allucinazioni? Mal di spazio? Sogni a occhi aperti?
Certo, tutto poteva essere. Tutto forse causato dalla sua mente sempre persa a
fantasticare e dai colpi uditi dal di fuori. Ma c'era
anche l'altra ipotesi. Che fosse reale. Tremendamente reale. In ogni caso non
ne poteva scartarne nessuna. Si precipitò nella piccola stanza medica, infilò
gli appositi apparecchi e si stese sul lettino facendo eseguire al computer il
controllo generale che aveva saltato da troppo tempo. Subito gli apparecchi
rivelarono un eccesso d'adrenalina nel sangue e una pulsazione irregolare del
cuore. Più nulla.
Decise
allora di ricorrere ai test psichici. Fu tutto vano. Secondo le ultracollaudate prove lui era assolutamente normale con un
livello d'incertezza appena al di sopra del minimo, come ovviamente doveva
essere. Ciò quasi gli dispiacque. Perché al 99%
significava che quel braccio l'aveva visto davvero.
Anche
se ciò non significava che esistesse. Lo spazio aveva avuto i suoi morti sin
dall'inizio dell'era, quindi aveva anche i suoi bravi fantasmi. Tante storie
circolavano su di loro, tanti giuravano d'averli visti. Eppure…
Tornò
al computer centrale. Proprio mentre un paio di colpi si fecero udire in un
posto diverso da quello del giorno precedente. Doveva far qualcosa. Per la
prima volta dall'inizio del viaggio controllò che il videoregistratore fosse
acceso e dettò ogni cosa. La sua esperienza, aggiunta alla quasi perfetta
preparazione gli impedì d'avanzare ipotesi che, a mente fredda, sarebbero
potute sembrare ridicole o intralciare la strada giusta da seguire. Per cui si
limitò a dare una descrizione il più possibile esatta e obiettiva degli
avvenimenti.
Infine
accese le telecamere. E attese. Con gli occhi incollati agli schermi.
Il
tempo passava senza che nulla d'insolito fosse rilevato. S'era anche preparato
qualcosa da mangiare, ma dimenticò tutto nel piccolo forno a microonde.
Distrattamente scartò una gomma da masticare che subito gettò via con un gesto
nervoso.
Fu
come un campanello d'allarme. Era molto raro che s'innervosisse, doveva
controllarsi. Gli occhi gli facevano male. Certo qualche goccia di collirio
avrebbe potuto lenire il bruciore. Li sentiva arrossati e sul punto di
lacrimare.
"Per
così poco?" si chiese perplesso. Il suo sguardo corse all'orologio che,
indifferente a tutto, continuava a scandire il tempo, e si bloccò. Era rimasto
quasi sei ore seduto con gli occhi spalancati a
fissare gli schermi. Sei ore che gli erano parse sei minuti. Era ovvio che
dovessero dolergli.
Per
la terza volta in quella giornata entrò nella cabina medica. Era molto
meticoloso nella cura del proprio corpo poiché sapeva
bene che nessuno avrebbe potuto aiutarlo lì, lontanissimo dalla Terra e
assolutamente solo. Solo?! Il ricordo del braccio tornò vivido più che mai
nella sua mente. Fece un bagno tiepido nell'apposita vasca con idromassaggio e
cercò d'approfittare di quello stato di totale rilassatezza fisica per pensare.
Le cineprese non avevano rilevato nulla intorno all'astronave, ma questo non
poteva, ne doveva, sorprenderlo. Il loro campo era limitato alle zone con
strumentazione esterna. Restavano quindi vastissime parti dello scafo che
poteva osservare solo con un'uscita. E lui non era pronto. poiché
non aveva la minima idea di quello che avrebbe trovato.
Sospirò mentre l'idromassaggio terminava. Forse rifiutava
una realtà ritenendola impossibile. Eppure non potevano esserci più molti
dubbi. Là fuori doveva esserci per forza qualcosa.
La
reazione a quella convinzione per lui fu normale. Ma alla base l'avrebbero
ritenuta per lo meno sconcertante. La sua mente accettò il fatto e lo
accantonò. Secondo il suo carattere. Tornò così alla sua routine quotidiana
prestando tutta la sua attenzione al tempo che passava. Ancora tre giorni e
sarebbe giunto. Dea occupava gran parte dello schermo principale e cominciava a
mostrare qualcosa in più del solito chiarore abbacinante. Tre giorni ancora,
poi sarebbe sceso sul suo suolo gelato per prenderne possesso a nome di qualcuno molto lontano e che forse mai l'avrebbe
vista tanto vicina quanto lui.
Eseguito
il terzo controllo sulla funzionalità delle apparecchiature tornò alla cupola.
Lo fece con il cuore in gola aspettandosi chissà quale tremenda visione, ma fu
deluso. Il cielo era ormai grigio chiaro per la vicinanza del pianeta. Il sole
lontanissimo riusciva a trasmettere luce soltanto per le caratteristiche rifrattive del pianeta. Il volto di Dea pareva fissarlo con
i crateri ghiacciati e le grandi montagne. C'era persino una lunga crepa che
ricordava vagamente un sorriso ironico a mezza bocca.
Così
sentì nascere qualcosa dentro. Chiuse gli occhi quasi a voler leggere in sé e
scorse la poesia che si andava formando nella sua mente. Bella,
straordinariamente dolce, per uno spettacolo straordinariamente affascinante.
Riaprì gli occhi cercando carta e penna prima che l'ispirazione fuggisse via con la stessa velocità con la quale era giunta.
Fu
allora che lo vide. Sopra di lui, fluttuante nel vuoto assoluto.
Ingoiò
un grumo di saliva mentre un urlo strozzato gli
sfuggiva dalle labbra illividite. Oltre la cupola trasparente c'era un
individuo, forse un uomo. Era nella tuta spaziale regolamentare, identica a
quella del suo paese, compreso il bronzeo casco dal vetro opacizzato. E agitava
entrambe le mani come a richiamare la sua attenzione.
–
Chi sei? – Chiese per un'impossibile risposta. – Come mai sei qui?
Balzò
giù dal lettino. Un'improvvisa frenesia si era impadronita di lui. Non poteva
essere vero. Era il primo uomo a solcare quella lontanissima zona dello spazio.
Il primo e l'unico. Doveva fare qualcosa. Si precipitò nella camera stagna
sopra le cabine di poppa e indossò una delle tre tute a disposizione. Le contò
due volte benché bastasse soltanto un colpo d'occhio per
verificare che ci fossero tutte. La sua mente pareva non far più parte del
corpo che si muoveva con la meticolosità propria dell'abitudine e
dell'esercizio continuo. Essa era fissa a quel… quel… come poteva definirlo? Quell'essere lì fuori.
Doveva
pur esserci una spiegazione. O almeno lui avrebbe dovuto trovarne una. A meno
che non fosse impazzito. O che le storie di fantasmi e allucinazioni fossero
tutte vere.
Il
fluire automatico dell'aria racchiusa nelle bombole gli diede il via. Era il
segnale che la tuta era a posto. Controllò che gli eiettori di azoto compresso
funzionassero. Verificò il livello d'ossigeno, poi schiacciò il pulsante di
O.K. La piccola stanza fu inondata da una tenue luce arancione e un manometro
mostrò il calo della pressione all'interno per effetto dell'aspirazione
dell'aria. Quando fu a zero la leva d'apertura ruotò automaticamente. Si udì un
rumore metallico piuttosto secco e un angolo di parete si delineò mostrandogli
una fetta di cielo.
Balzò
fuori dandosi una spinta un tantino eccessiva. Ma poco
importava. La cupola trasparente era piuttosto lontana. L'avrebbe raggiunta in
un tempo inferiore a quello voluto dal regolamento. Anzi. Pigiò l'acceleratore
dell'eiettore di destra e sentì la subitanea spinta verso sinistra a seguire la
curvatura dell'astronave. Deviò un paio di volte per evitare due grosse antenne
e finalmente fu in vista della meta. E vide galleggiare nello spazio l'intruso.
Si
fece coraggio. Evitò di chiedersi chi diavolo ci fosse
in quell'involucro bruno, come facesse a vivere
ancora. Con le modernissime tecniche di compressione l'aria delle bombole
poteva durare anche cinque ore, ma da quando aveva visto il braccio ne erano
passate almeno il doppio.
A
meno che l'intruso non avesse la possibilità di ricaricarle.
A
meno che all'interno della tuta non ci fosse un vero uomo.
A
meno che quella forma distinta non fosse che un'emanazione del proprio ego
subconscio e quindi solo un'immagine fantasma.
A
meno che non fosse un fenomeno simile a un miraggio.
A
meno che… Si accorse di poter andare avanti un bel pezzo con gli ‘a meno che'. Le pulsazioni del suo cuore aumentavano man mano che
si avvicinava, mentre un leggero sudore cominciava ad imperlargli la fronte.
Lui era un uomo coraggioso, aveva più volle dato prova di ciò in altre
missioni, ma, come tutti gli uomini che facevano della logica la base del
coraggio, temeva ciò che non riusciva a capire o spiegare.
All'improvviso
si accorse di star quasi per urtarlo. Invertì gli eiettori e frenò
precipitosamente. Deglutì più volte mentre il cuore
batteva freneticamente. L'impianto interno di ventilazione non faceva in tempo
ad asciugargli il sudore e piccole gocce gli scendevano lungo le guance non
rasate, solleticandolo.
"E
ora?" si chiese. Doveva afferrarlo?...
Prenderlo?... Scosse il capo deciso. Non voleva farlo… che trappola era mai
quella? Non si fidava… per nulla. Sentiva che c'era sotto qualcosa
di infido. Chiuse gli occhi, contò fino a dieci poi li riaprì. Tutto inutile.
L'altro era ancora lì, a portata di mano. Allora si decise. Trattenne il
respiro e allungando la sinistra lo toccò.
Poi
ritrasse la mano di scatto. Non accadde nulla. Si diede dell'imbecille. Cosa
diavolo poteva succedergli?! Non stava certo toccando
una mina vagante. Oh no?! Sabotaggio? Maledizione,
poteva essere…
Le
braccia continuavano ad agitarsi quasi l'altro non si fosse
accorto di lui, con un piccolo colpo riuscì a farlo ruotare su se
stesso. Cosa poteva esserci dietro quel vetro opacizzato se non un volto umano?
Cos'altro di terribile? Allora perché tremava?
Accese
la piccola lampada inserita nella parte superiore del casco.
E
la puntò sul vetro.
E
dilatò gli occhi.
E
si morse le labbra a sangue per non urlare.
Poiché
a fissarlo con un ghigno quasi satanico c'era lui stesso.
La
prima reazione fu di repulsione. Non riusciva a distogliere gli occhi dal suo
stesso volto che gli sorrideva, come a prendersi gioco di lui. Istintivamente
cercò di spingerlo via con entrambe le mani, ma, l'altro non pareva aver alcuna
intenzione d'abbandonarlo. Joe aveva il corpo scosso
da violenti brividi e quasi incapace di controllarsi. Così pensò agli eiettori,
pensò a essi come all'unico modo per allontanarsi da
quella cosa che pareva volerlo avvinghiare in un abbraccio mortale. In preda al
panico violentemente abbassò al massimo la leva di comando con gli eiettori
invertiti. L'effetto fu disastroso. Fece un balzo indietro con una forza tale
da mozzargli il fiato e urtò la gigantesca astronave. L'impatto fu durissimo.
Tanto da fargli perdere i sensi. Gli eiettori ormai senza controllo
continuarono a sprigionare tutta la loro potenza e, rimbalzando da un pannello
all'altro, demolì un'antenna, poi si allontanò. Puntando senza conoscenza verso
lo spazio infinito.
Per
una orribile, silenziosa morte.
La COLUMBUS continuava
indifferente la sua corsa. Mancavano due giorni standard al ràndez-vous
con Dea, ma a bordo non c'era più nessuno in grado di effettuare le manovre di
avvicinamento e di circumnavigazione del pianeta.
Alla
base terrestre avevano programmato l'effetto boomerang grazie al quale,
sfruttando l'attrazione gravitazionale, l'astronave avrebbe compiuto alcuni
giri intorno al pianeta per poi essere ricacciata indietro verso la Terra.
Ma
tutto ciò non sarebbe successo. E a Terra nessuno avrebbe mai saputo il perché.
Le
luci all'interno della sala comando continuavano a occhieggiare fornendo tutti
i dati necessari alla manovra. Era giunta l'ora della prima verifica
giornaliera. Se tutto fosse stato normale, Joe in
quel preciso istante si sarebbe dovuto trovare davanti allo schermo principale.
Che
improvvisamente si accese. Per trasmettere una registrazione programmata mesi
prima da Terra.
I
volti sorridenti della moglie e degli amici di Joe D'Ottavio erano una nota stonata nel dramma.
–
Ehi, Joe, scommetto che non l'aspettavi questa
sorpresa. - Un
mucchio di voci concitate seguì la frase. Alcune risatine, poi lo stesso che
aveva parlalo per primo continuò: – Zitti, zitti, fatemi parlare… insomma! Ecco
siamo tutti sicuri che non hai fatto i conti? Provaci. No? Te lo diciamo noi.
Diecimila? Sì, sono diecimila le tue ore di navigazione spaziale. Oggi il
Presidente ti conferirà la Legione
dello Spazio, la più grande onorificenza del mondo. Fantastico no? Noi lo
sapevamo e ti abbiamo voluto fare una sorpresa. Con un regalo specialissimo.
Maria, diglielo tu.
La
moglie dell'astronauta si schernì: – Oh, l'idea è stata vostra. Non posso
togliervi il gusto...
–
Su, non farti pregare.
–
No, diglielo tu. io... – Tornò a guardare verso lo
schermo – io voglio soltanto dirti che mi manchi molto. – La voce si fece
dolce. – E che non vedo l'ora di riaverti a casa.
–
D'accordo – continuò l'altro. – Joe, apri bene le
orecchie e preparati a fare un salto di gioia. Hai avuto un gran privilegio, ma
tu eri senza ombra di dubbio l'uomo più indicato per questa missione. Tra meno
di due giorni scenderai su Dea e pianterai la nostra bandiera su quella palla
di ghiaccio. Ebbene, noi tutti abbiamo pensato che non fosse giusto lasciare
solo la bandiera.
Qualcuno
ridacchiò nuovamente mentre altre voci si
sovrapponevano alla solita: – E dai, diglielo, non farlo stare sulle spine.
– E' lo scarico 3 o 4? Non lo ricordo bene...
– Mi piacerebbe vedere la faccia che farà…
–
Oh, insomma, mi fate parlare?! – Ottenuto il silenzio
continuò: – Dunque, dai un'occhiata al condotto di
scarico rifiuti 4. L'abbiamo
scelto perché non l'avresti usato in nessun caso. Dentro c'è una sorpresa per
te. Che non immagineresti mai. Per questo te lo dico subito. Reggiti. E'… è…
una specie di… pupazzo. In tutto e per tutto identico a te. Sì, credimi, lo
vedrai tu stesso, persino il viso oltre il vetro del casco è tuo. Be'… credo che in questo momento starai
scuotendo il capo con la bocca leggermente aperta. Magari chiedendoti a cosa
diavolo potrebbe servirti un bambolotto ad altezza umana. Semplice. Quando
scenderai. su Dea dovrai portarlo con te e lasciarlo
presso la bandiera, nell'atto di infiggerla nel suolo. Quando quel lontanissimo
pianetino sarà meta di qualche ricco turista ci sarà su di esso
qualcosa che ricordi l'autore di una tale impresa. Dell'uomo in questo momento
più solo e lontano dell'universo. Ci avevi pensato? E non è tutto. Il nostro
pupazzo è fornito di uno speciale meccanismo che gli farà agitare le braccia
per un bel pezzo. Sarà lui a salutarti quando lascerai
Dea per tornare fra noi miseri mortali. Bene, credo sia tutto. Abbiamo ancora
disponibili pochi secondi di trasmissione, ordini superiori…
ma vogliamo dirti tutti ancora una cosa. - Si girò verso gli altri ed esclamò: –
Pronti?
Poi
in coro: – TANTI AUGURI, JOE.
Seguì
l'inizio di un applauso che subito si spense con l'immagine.
Il
silenzio tornò padrone indiscusso dell'astronave, mentre alcune spie pulsavano
nella vana speranza d'attirare l'attenzione di qualcuno che non c'era più.
E
fuori, presso la cupola trasparente, un pupazzo continuava ad agitare le
braccia sorridendo nella scia della COLUMBUS che si allontanava per sempre
nello spazio profondo.