Repêchage
di
Grazia Giordani
Un
petalo di rosa le lambì una spalla, trascinando con sé
a terra tutta la sfatta corolla. Passeggiando in un giardino quasi
abbandonato, le parve un fatto di nessuna importanza. E invece, no. A
volte, nei meandri della vita, si nascondono segnali a noi stessi
ignoti, pieghe oscure, dense di passato.
La carezza
involontaria della rosa agonizzante, operò un rêpechage
di gesti d’amore passati che riteneva sepolti dall’oblio
del tempo. Proprio nella stessa stagione, un’identica primavera
ubriaca di profumi, Aurelio, il primo ragazzo ad accorgersi di lei,
le aveva accarezzato la spalla, con mano incerta, e poi il collo,
facendola fremere con sofferenza. La sofferenza dell’attesa di
un gesto più ardito, di una bacio sulle labbra. Quel bacio era
rimasto solo sognato, pensato, vissuto come un credito mai riscosso.
Forse il bacio più bello, anche per questo. Come le carezze
che – più avanti negli anni – aveva visto scorrere
sulla schiena setosa del suo micio. Come avrebbe voluto entrare sotto
quella morbida pelliccia, per sentire il tocco sinuoso di quelle mani
che la stavano ignorando.
Tra sogno e realtà, la sua vita
finì con l’acquistare qualche stravagante
concretezza.
Nubile, si dette tutta alla professione. Esordì
in giornali di provincia, per toccare il massimo dei traguardi nel
primo giornale milanese. Conobbe amori veri, fatti di carne, ma
sempre deludenti.
Scrisse romanzi. Pubblicò racconti in
riviste specializzate.
Una sera, seduta in prima fila ad
ascoltare Ivo Pogorelich che eseguiva, da virtuoso Ma mère
l’oye di Ravel, a quattro mani con un’esile biondina,
cominciò ad invidiare la giovane pianista che godeva della
vicinanza di quel bellissimo re del pianoforte. E pensò che le
sue mani si sostituissero a quelle della giovane croata, elettrizzate
dal contatto col maestro.
Tornata a casa, prese a frugare tra
vecchi suoi racconti scartati, quelli dell’adolescenza, mai
dati alle stampe.
Ecco, ritrovò Aurelio e la storia del
suo debito insoluto, la vicenda sensualissima di quel bacio solo
spasimato.
Era milanese, pensò.
Provo a
cercarlo.
Avrà famiglia, figli, nipoti.
Voglio solo
donargli il mio racconto.
Forse ne rideremo insieme.
Il
nome brillava, sornione, sulla pagina bianca dell’agenda
telefonica e, a fianco, invitante il numero.
Non c’era che
da digitarlo.
Rispose una voce di donna, spenta, senza
accento.
(Che sia la moglie? Metto giù la
cornetta….)
«Signora, scusi, sono un’amica
quasi d’infanzia, insomma, di lontana giovinezza, di Aurelio.
Abita qui? È in casa adesso? Vorrei parlargli di …»
-
Mi spiace. Mio marito è morto l’anno scorso.
Un
fulmineo, terribile malore, lo colse mentre camminava in un giardino
semiabbandonato di questa squallida periferia.
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