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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La nostalgia delle sirene, di massimolegnani 23/12/2018
 
La nostalgia delle sirene

di massimolegnani



Cammino nel primo buio di città, che vero buio non è mai, tra una folla in fervore natalizio, la folla, non io, che devo solo fare una commissione che col Natale non c’entra nulla e ho scelto l’ora peggiore per farla.

Passi affrettati a togliermi d’impiccio e un umore nero che mi serpeggia dentro, quando una sirena improvvisamente squarcia i canti d’atmosfera diffusi da ogni dove per la via: un’ambulanza si destreggia nel traffico e presto ne resta intrappolata, nelle auto musica palla o chiacchiere distratte, bambini che strepitano, genitori che litigano e nessuno che si sposta. Adulti, anziani e piccoli si tappano le orecchie infastiditi dal persistere del sibilo come fosse colpa della lettiga l’essere lì bloccata. Io le orecchie le dilato al bel suono del soccorso e provo un furore da highlander, potessi ammonticchierei le macchine ai lati della strada per aprire un varco come quell’altro le acque del Mar Rosso. Poi per fortuna l’ambulanza non so come riprende la sua corsa e la sirena si fa sempre più lontana. La gente torna a muoversi stupidamente trafelata, tutto riprende a scorrere e a correre, solo io resto lì sul marciapiede scosso da un tremito che non è di freddo. È che mi emoziono al suono bitonale e a quello acuto, allo sfolgorare dei lampeggianti blu, alle tante manifestazioni dell’urgenza, sono un cane di Pavlov che scodinzola a quel sibilo che mi riporta a quando da bambino sognavo di salirci sull’ambulanza e a tutti gli anni in cui poi lì sopra ci sono salito veramente.

Abitavo in corso Sempione, vicino all’Ospedale, e ogni volta che sentivo l’ululato di una sirena correvo alla finestra per non perdermi il passaggio. Guardavo l’ambulanza, immaginavo dentro la persona sofferente e mi esaltavo al pensiero che di lì a poco papà, che era chirurgo, le avrebbe risolto ogni male e malattia. Forse fu allora che, per la magia di quella macchina speciale che raccattava in giro feriti e moribondi e di corsa li portava a riparare in quell’altro luogo miracoloso dove per me la riparazione, la guarigione, erano l’unica ipotesi possibile, decisi di diventare medico.

E vent’anni dopo ho cominciato a far trasporti verso una qualunque meta, Torino, Genova, Alessandria, Milano, ovunque ci fosse qualche speranza di salvezza in più. Viaggi veloci quando erano neonati dal respiro flebile, e febbrilmente lenti sul pavè di città quando era una testa in cocci che reggevo tra le mani, viaggi solitari con le mani dentro l’incubatrice a ventilare e a fare terapia gridando all’autista di sbrigarsi o viaggi assieme alla disperazione delle madri, i gesti misurati a non sommarle angoscia e le parole calibrate che non suonassero di beffa se vedevano la vita del figlio appesa a un filo, viaggi bestemmiando gli imprevisti e i guasti, la corrente che scompare, l’ossigeno che si esaurisce e allora ti inventavi elettricista a ripristinare i contatti e non so quale mestiere a sostituire la bombola con una chiave inglese di fortuna, e viaggi pregando tutti i santi che a volte ti smarrivi e ti scoprivi senza più risorse, viaggi in piena notte con le strade vuote e in un battibaleno sei a destinazione e viaggi in piena festa che ti monta un odio viscerale per tutta quella gente che fa baldoria per le strade o vuol tornare presto a casa e in ogni caso se ne fotte d’intralciaciarti, viaggi in ambulanze supertecnologiche con il rianimatore con cui dividere l’affanno, e viaggi su un furgone, il mio primo appena laureato, adibito per l’occasione ad ambulanza, la bambina su una barella in tela e manici di legno adagiata sul pianale, io inginocchiato al pavimento, una mano alta a reggere una flebo e l’altra a carezzare la bambina spaventata, sembrava tempo di guerra ed era l’inizio degli ottanta.

Non mi sono mai abituato alla trepidazione di quei viaggi, non ho mai raggiunto quel distacco dagli eventi che forse ti fa agire a mente più lucida, ma che certo rischia di trasformare l’emozione in disincanto e i bambini in merce da spostare da un magazzino all’altro. Non mi erano mai estranei quei bambini, li avevo visti nascere e subito declinare o li avevo curati per giorni in reparto senza ottenere un miglioramento oppure li avevo accolti in pronto soccorso, gravi da subito, allora erano cure concitate per stabilizzarli prima del trasferimento.

L’ultima sirena è stata per un bambino che me l’ha chiesta risvegliandosi da un torpore preoccupante, non era necessaria, poco più di un gioco per giocare insieme a lui, una musica per me che segnava un lieto fine e che mi è rimasta dentro.


 
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