La
nostalgia delle sirene
di
massimolegnani
Cammino
nel primo buio di città, che vero buio non è mai, tra
una folla in fervore natalizio, la folla, non io, che devo solo fare
una commissione che col Natale non c’entra nulla e ho scelto
l’ora peggiore per farla.
Passi
affrettati a togliermi d’impiccio e un umore nero che mi
serpeggia dentro, quando una sirena improvvisamente squarcia i canti
d’atmosfera diffusi da ogni dove per la via: un’ambulanza
si destreggia nel traffico e presto ne resta intrappolata, nelle auto
musica palla o chiacchiere distratte, bambini che strepitano,
genitori che litigano e nessuno che si sposta. Adulti, anziani e
piccoli si tappano le orecchie infastiditi dal persistere del sibilo
come fosse colpa della lettiga l’essere lì bloccata. Io
le orecchie le dilato al bel suono del soccorso e provo un furore da
highlander, potessi ammonticchierei le macchine ai lati della strada
per aprire un varco come quell’altro le acque del Mar Rosso.
Poi per fortuna l’ambulanza non so come riprende la sua corsa e
la sirena si fa sempre più lontana. La gente torna a muoversi
stupidamente trafelata, tutto riprende a scorrere e a correre, solo
io resto lì sul marciapiede scosso da un tremito che non è
di freddo. È che mi emoziono al suono bitonale e a quello
acuto, allo sfolgorare dei lampeggianti blu, alle tante
manifestazioni dell’urgenza, sono un cane di Pavlov che
scodinzola a quel sibilo che mi riporta a quando da bambino sognavo
di salirci sull’ambulanza e a tutti gli anni in cui poi lì
sopra ci sono salito veramente.
Abitavo
in corso Sempione, vicino all’Ospedale, e ogni volta che
sentivo l’ululato di una sirena correvo alla finestra per non
perdermi il passaggio. Guardavo l’ambulanza, immaginavo dentro
la persona sofferente e mi esaltavo al pensiero che di lì a
poco papà, che era chirurgo, le avrebbe risolto ogni male e
malattia. Forse fu allora che, per la magia di quella macchina
speciale che raccattava in giro feriti e moribondi e di corsa li
portava a riparare in quell’altro luogo miracoloso dove
per me la riparazione, la guarigione, erano l’unica
ipotesi possibile, decisi di diventare medico.
E
vent’anni dopo ho cominciato a far trasporti verso una
qualunque meta, Torino, Genova, Alessandria, Milano, ovunque ci fosse
qualche speranza di salvezza in più. Viaggi veloci quando
erano neonati dal respiro flebile, e febbrilmente lenti sul pavè
di città quando era una testa in cocci che reggevo tra le
mani, viaggi solitari con le mani dentro l’incubatrice a
ventilare e a fare terapia gridando all’autista di sbrigarsi o
viaggi assieme alla disperazione delle madri, i gesti misurati a non
sommarle angoscia e le parole calibrate che non suonassero di beffa
se vedevano la vita del figlio appesa a un filo, viaggi bestemmiando
gli imprevisti e i guasti, la corrente che scompare, l’ossigeno
che si esaurisce e allora ti inventavi elettricista a ripristinare i
contatti e non so quale mestiere a sostituire la bombola con una
chiave inglese di fortuna, e viaggi pregando tutti i santi che a
volte ti smarrivi e ti scoprivi senza più risorse, viaggi in
piena notte con le strade vuote e in un battibaleno sei a
destinazione e viaggi in piena festa che ti monta un odio viscerale
per tutta quella gente che fa baldoria per le strade o vuol tornare
presto a casa e in ogni caso se ne fotte d’intralciaciarti,
viaggi in ambulanze supertecnologiche con il rianimatore con cui
dividere l’affanno, e viaggi su un furgone, il mio primo appena
laureato, adibito per l’occasione ad ambulanza, la bambina su
una barella in tela e manici di legno adagiata sul pianale, io
inginocchiato al pavimento, una mano alta a reggere una flebo e
l’altra a carezzare la bambina spaventata, sembrava tempo di
guerra ed era l’inizio degli ottanta.
Non
mi sono mai abituato alla trepidazione di quei viaggi, non ho mai
raggiunto quel distacco dagli eventi che forse ti fa agire a mente
più lucida, ma che certo rischia di trasformare l’emozione
in disincanto e i bambini in merce da spostare da un magazzino
all’altro. Non mi erano mai estranei quei bambini, li avevo
visti nascere e subito declinare o li avevo curati per giorni in
reparto senza ottenere un miglioramento oppure li avevo accolti in
pronto soccorso, gravi da subito, allora erano cure concitate per
stabilizzarli prima del trasferimento.
L’ultima
sirena è stata per un bambino che me l’ha chiesta
risvegliandosi da un torpore preoccupante, non era necessaria, poco
più di un gioco per giocare insieme a lui, una musica per me
che segnava un lieto fine e che mi è rimasta dentro.
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