UN PARADISO
PERDUTO
Un sogno antico si stava realizzando.
Da tre giorni percorrevamo stupefatti le strade de L'Avana e il suo
romantico lungomare. Notti caldissime raccoglievano ricordi e lontani pensieri.
L'Associazione aveva inviato me e
Marco in missione a Cuba, per consegnare un importante carico di medicinali ai
principali ospedali della capitale. Avevamo accettato con entusiasmo,
affrontando dodici interminabili ore di aereo, che ci avrebbero condotto
all'altro capo del mondo, in un'avventura nell'ignoto a lungo desiderata.
Marco era giovane e non aveva legami. Io da tempo avevo dato un taglio
netto a quel che restava dei miei. Un matrimonio sbagliato, fortunatamente
senza figli. L'amore per Cuba e la solidarietà nei confronti d'un popolo oppresso
da uno spietato embargo, ci univano. Vecchie idee in comune, dal vago sapore
d'altri tempi, avevano fatto il resto. Nelle discussioni politiche Marco si
accalorava sempre parlando di Cuba. “Non
la potete paragonare alla Russia o alla Cina - diceva
– il comunismo dei Caraibi è un'altra cosa. Tutti
hanno quello che serve, tutti sono uguali”.
Sostanzialmente la pensavo come lui. Ero un poco più scettico, dato
che i sogni della mia generazione si erano infranti sul muro di dure realtà.
Marco aveva venticinque anni, contro i miei trentotto e molte delle sue
illusioni erano ancora intatte. Era uno studente universitario e poteva
permettersi di innamorarsi delle proprie idee.
Era il suo tempo. Il mio era passato da molto. Non parlavo più di
“lotta proletaria”, non mi capitava quasi mai di pronunciare la parola
“compagno”. Facevo il giornalista in un foglio di sinistra e solo questo era rimasto a dar
continuità alle mie idee giovanili.
Nei momenti di libertà amavo scrivere storie d'amore e vita
quotidiana, racconti di viaggi e favole per ragazzi, che qualche rivista, di
tanto in tanto, pubblicava.
I sermoni politici e i pezzi di fuoco contro il capitalismo non erano
più cosa per me. Mi ero tranquillizzato e Marco spesso mi diceva, scuotendo la
testa, che stavo diventando sempre più borghese.
Fu così che partimmo, in un giorno di maggio, con il nostro carico di
medicinali e sogni. La voglia di assaporare un mondo lontano e diverso dalle
solite civiltà occidentali era tanta e covava in noi come un desiderio inespresso.
La Cuba di Che Guevara e del socialismo reale ci
attendeva.
L'isla grande del Caribe,
con i suoi ritmi magici, le ballerine di salsa
e merengue,
i colori e il calore tropicale….
Tutto questo era
adesso nelle nostre mani.
Fin dall'aereo fantasticavamo di viaggi alla ricerca delle memorie
storiche e di notti insonni condite di rum e danze. Il mito delle donne cubane,
inutile dirlo, era almeno pari a quello delle ceneri del Che a Santa Clara.
Appena sbarcati fu subito un problema la sistemazione del carico di medicinali.
Cercavamo di farci capire, in uno spagnolo stentato, da poliziotti assonnati e
inservienti che attendevano solamente l'ora del riposo. Ci rimandarono al giorno dopo, quando qualcuno avrebbe potuto decidere sulla sistemazione
definitiva. Nell'attesa il carico venne parcheggiato
nel reparto spedizioni dell'aeroporto. Partimmo alla volta della casa che ci
avrebbe ospitato, a bordo di un così detto taxi
particular. In pratica si trattava di un'auto
privata, che veniva utilizzata dal proprietario per il
trasporto illegale di stranieri. L'autista ci disse che era un modo come un
altro per campare e fare qualche dollaro. Il nostro albergo era un'altra casa
privata, che l'Associazione aveva prenotato grazie all'intervento di amici,
usuali frequentatori di Cuba. Anche loro erano illegali. “Bisogna arrangiarsi…-
confessò il simpatico Luis, cubano dagli occhi furbi
e dalla pelle bianca - la famiglia è numerosa”. “Comprendo – risposi io –
l'embargo…questi sporchi capitalisti americani…”. Luis
mi guardò sorridendo: “Magari fosse solo l'embargo, amico. Guardati attorno e
poi dimmi cosa ne pensi. Aspetta solo qualche giorno”.
Intanto ammiravamo il paesaggio, completamente diverso dai nostri
soliti orizzonti. Palme altissime dal fusto affusolato, banani giganti dai
frutti enormi e maturi, piante dai fiori rossi e gialli e soprattutto colori
intensi e decisi, che accompagnavano i nostri passi. Il sole brillava altissimo
e inclemente, sui nostri pensieri di europei abituati alle mezze misure e alle
cose indecise. Il cielo era assolutamente azzurro, mai offuscato da nubi. E poi
la colonnina di mercurio segnava trenta gradi all'ombra, una temperatura da noi
solitamente registrata ad agosto. La primavera caraibica
ci accoglieva tra braccia confortanti e tutto ciò in fondo non ci dispiaceva.
Avevamo un compito da eseguire e lo avremmo fatto, ma eravamo a Cuba anche per
qualche giorno di riposo, da trascorrere sulle spiagge caldissime dell'Est
Avana.
Sistemammo i nostri bagagli nella casa che avevamo affittato, situata
nel quartiere di Nuova Vedado, elegante e borghese.
Le case, villette con giardino molto simili alle nostre abitazioni degli anni
cinquanta, erano un ricordo dei tempi di Batista.
Invece nella parte antica della città spiccavano fatiscenti palazzi
stile coloniale, su d'un lungomare composto da
scogliere frastagliate dalle onde.
L'Avana Vecchia, in più parti, era ridotta a un ammasso di macerie. El nino, il
violento tornado che aveva colpito i Caraibi, aveva
seminato distruzione e morte. Si tentava di ricostruire, ma non era facile. Le
facciate multicolori dei palazzi coloniali erano in più parti corrose dal
salmastro.
L'aspetto cadente della città, per contrasto, contribuiva a darle un
alone di mistero. Credo che se ogni cosa fosse stata
al suo posto lo spettacolo non sarebbe stato così affascinante.
Bambini sporchi e denutriti ci giocavano intorno, qualcuno si tuffava
nelle acque del lungomare. Cartelli rivoluzionari esponevano idee antiche agli
occhi del mondo.
Tu exemplo
vive, tus ideas perduran, diceva un'iscrizione in mezzo a
palme e vegetazione lussureggiante. Il volto di Che Guevara
accanto, sorridente e severo, faceva da monito al tempo che passava. E noi ci
credevamo ancora a quelle parole. Eravamo appena arrivati e le leggevamo
entusiasti, ricordando il tempo passato e le assemblee studentesche. Le frasi
che mandavamo a memoria erano i sogni della mia gioventù e mi facevano tornare
ai tempi del collettivo politico comunista. Si chiamava “Servire il popolo”?
Non ricordo bene, ma il nome era veramente divertente. Il simbolo invece conteneva una delle
tante “falci e martello” che vennero presentate alle elezioni politiche di quei
tempi. Era quasi impossibile districarsi in quella jungla di partiti comunisti,
prodotti dalla sinistra extra parlamentare.
Per Marco erano i sogni attuali, di un giovane che credeva in cose che
gli avevano raccontato. E io mi sentivo uno dei colpevoli, perché ero tra
quelli che gli aveva parlato del Che.
“Leggi questi libri – gli avevo detto – possono insegnarti molto…”. Parlavo
del “Diario in Bolivia”, ma anche de “La storia mi assolverà”, scritto da un
giovanissimo avvocato di nome Fidel Castro. L'Associazione di Amicizia Italia-Cuba
era per me solamente un modo per continuare a mantenere intatti i sogni
giovanili, mentre per Marco, che era ancora un ragazzo, rappresentava il
rifugio dei
suoi sogni attuali.
Io mi ero messo da parte in politica, poco a poco. Vedevo che le cose
in cui credevo non avevano più corso legale da nessuna parte.
Non solo, notavo che quelle che io ritenevo teorie formidabili,
accarezzate per lunghi anni di lotta e passione, adesso riuscivano solo a fare
dei danni. Analizzando bene le realtà che conoscevo, potevo dire con disprezzo
che il mio comunismo non si era realizzato in alcun luogo del mondo. Tutto era stato solo un
tentativo e niente più. Ma le mie idee, le nostre idee di un tempo, di una
generazione intera, erano veramente idee realizzabili?
Marco mi diceva sempre che c'era Cuba e per lei era importante
lottare. Quello era il vero comunismo. Io facevo finta di crederci, o meglio,
avevo una gran voglia di pensare che ciò che il mio giovane amico andava
dicendo fosse la verità. Altrimenti avrei lasciato anche questo ultimo appiglio
romantico della mia vita politica, così come avevo lasciato i gruppi di un tempo.
Tre giorni a L'Avana e la voglia di mollare
tutto era divenuta fortissima. Bastava parlare con la gente per capire. Era
sufficiente guardarsi attorno, per apprezzare che il filo conduttore della vita
era quello della continua ricerca di qualcosa che non
c'era.
E la mancanza più grande era la libertà.
“E questo sarebbe il comunismo cubano?” mi chiedevo.
“Paolo, sei sempre il solito disfattista. Non guardare le cose con
occhi da europeo. Ricordi il Brasile? Qui è diverso….” rispondeva
Marco.
Dovevamo fare un campionato mondiale della povertà e confrontare chi fosse maggiormente disgraziato. Cuba avrebbe vinto, questo
era lo spirito dell'affermazione. Dovevamo essere grati a Fidel,
perché poteva andare molto peggio. Ma la società comunista non era la migliore
delle società possibili?
“Non si deve vivere per avere, ma a ciascuno viene
dato secondo i suoi bisogni”. Lo aveva detto qualcuno?
Quando mi venivano alla mente certe affermazioni mi appariva davanti
il sorriso d'una ragazzina, che viveva in un albergue.
Era rimasta senza casa, a causa del tornado di un paio di anni
addietro. Avevo visitato il suo povero rifugio, dopo averla conosciuta sulla
spiaggia dell'Est Avana, in una bellissima giornata di sole e pensieri. Le favelas brasiliane non avevano niente di
più e niente di meno. E
mi avrebbe fatto sorridere il manifesto di Fidel,
quando diceva che qui tutti avevano una casa e che i bambini non morivano di
fame. Mi avrebbe fatto sorridere, se solo non avessi avuto una gran voglia di
piangere. Piangere per quella dolcissima ragazza e per il suo bambino che
cresceva nella polvere, piangere per sua madre che lottava per dar loro un
futuro e qualcosa da mangiare, piangere per le mie idee perdute in faccia alla
realtà.
Erano case quelle? Sua madre si vergognava a farmi entrare in quell'unica stanza di legno e terra, priva di bagno e
servizi. Le docce che non funzionavano, una cucina ogni tre appartamenti. Un
ghetto era quell' albergue
e niente più. Un campo recintato, dove abitavano persone in condizioni simili a
bestie.
Non avevano da mangiare. Non sapevano di che vestirsi.
“A Cuba nessuno muore di fame”.
“A Cuba c'è l'essenziale per tutti”.
“Se non ci fosse l'embargo…”.
Mi ritornavano a mente i vecchi luoghi comuni delle riunioni.
Non era vero, non era vero niente.
Isabel, questo era il nome
della ragazza, mi disse che con la famosa libreta le davano appena un pugno
di riso e un po' di fagioli neri.
Il piatto tradizionale cubano, consumato quotidianamente, soprattutto
per impossibilità a mangiare altro. La carne era un lusso e veniva
conservata per venderla ai turisti. Il latte c'era solo per i bambini sino a
sette anni. Dopo riso e fagioli andavano benissimo. Questo era il comunismo di Fidel.
Questa era la Cuba dei nostri sogni.
Sul lungomare avanero camminavo sotto
braccio alla mia ragazzina sorridente, che ormai era divenuta compagna di quei
giorni sull'isola grande. Marco aveva conosciuto una sua amica e assieme
passavamo da un locale all'altro, alternando balli alla luce della luna a
lunghe giornate di mare.
Il carico di medicinali era giunto a destinazione.
Avevamo fatto personalmente il giro delle cliniche, perché c'era il
rischio, fidandosi di qualcuno, che tutto sparisse per essere rivenduto al
mercato nero. In un posto dove mancava anche l'essenziale per vivere era il
minimo che potesse accadere. Tutti a Cuba, soprattutto nella capitale, vivevano
di furti perpetrati ai danni dello stato. Il vecchio detto che diceva: “chi ruba allo stato è il peggior criminale”, era stato
trasformato in: “rubare allo stato non è reato”, perché era lo stato il primo
farabutto. Gli stipendi non superavano l'equivalente di quindici dollari al mese. Il peso cubano, moneta legalmente in vigore, in
realtà non valeva più niente. I cubani solevano dire che era come il Granma, il
giornale del regime. Entrambi servivano solamente come carta igienica.
Sopravvivere in
una realtà economica ormai costruita su misura per i turisti, che pagavano in
dollari, era impossibile.
Il lungomare pullulava di jineteras, ragazzine giovanissime che tenevano compagnia
agli stranieri per pochi dollari. Avere un bel corpo era come possedere un
capitale e permetteva di mantenere la famiglia. La polizia di Fidel sorvegliava e spesso arrestava. Puniva chi era vittima
di un sistema sbagliato.
Il nostro viaggio doveva durare quindici giorni.
Volarono in un rapido susseguirsi di eventi. Eravamo tristi e allegri
al tempo stesso. I problemi di quella gente erano diventati i nostri problemi.
Non eravamo capaci di fare i soliti turisti europei, che sfruttavano la
situazione, non era il nostro stile. Ci saremmo vergognati di noi stessi e del
nostro passato.
Però l'allegria di quel popolo ci contagiava. I loro milioni di
problemi diventavano niente di fronte a una bottiglia di rum, oppure ballando
una frenetica salsa alla luce della
luna, o un rapido merengue
sulla riva del mare, al tramonto.
Sapevano vivere di quel poco che avevano.
Sapevano cogliere l'attimo e assaporarlo a fondo.
Poi c'era Isabel, che si era innamorata di
me e attendeva con timore il giorno della mia annunciata partenza. Era
giovanissima, aveva appena diciotto anni, ma sapeva comprendere le cose come
una donna adulta. Anch'io mi ero affezionato a lei. Mi pareva di conoscerla da
sempre.
Troppo tempo eravamo stati assieme. Marco me lo aveva detto.
“Liberatene, o finisce male…” e lui aveva fatto così con l'amica.
Io, passionale come sempre, non gli avevo dato ascolto.
“So che te ne andrai, caro il mio italiano, so che per te sono stata
solo un'avventura. Ma per me non è stato uguale. Ho sognato di scappare via,
per provare a vivere una vita normale”.
Mi diceva Isabel davanti al cielo nero della
notte, su di un Malecòn caldissimo e disperato,
percorso dai venti del Messico e da jineteras allegre
per dovere.
Notti d'amore e notti di sogni infranti. Vedevo il volto di Fidel alla televisione e mi catturava il suo sguardo. Isabel faceva smorfie di disgusto, non voleva che lo
ascoltassi.
“Ma ha un fascino enorme…” mi giustificavo io.
Lei scuoteva la testa e mi attendeva in camera.
Arrivò il giorno della partenza.
I nostri padroni di casa erano dispiaciuti. Si erano affezionati a
noi. Il tassista, che ci faceva viaggiare per le strade avanere,
aveva perduto due ottimi clienti, ma non era solo per quello che ci salutò con
calore. Rimanevano molti amici e una fetta di cuore sul lungomare di quella
città misteriosa. Marco lasciava i suoi sogni, io quel poco che avevo perduto
da tempo. Restavano i cocci e Fidel aveva
polverizzato anche quelli. Restava Isabel con i suoi
dolcissimi occhi castani.
Il vento caldo dei tropici spazzava via ricordi, tristezze, sensazioni
antiche. Il suo bambino lontano piangeva tra le braccia della nonna. Lei mi
salutava con la mano tesa e piangeva per me. Non ricordavo neppure se una cosa
simile fosse mai accaduta.
Un tempo avevo avuto una moglie, che era stata solamente capace di
scappare via lontano, nel gelo d'una notte d'inverno.
Non so per dove, non so con chi.
“Paolo, io non sono una bambina come hai sempre creduto. Io ti ho
voluto bene veramente. E tu domani sarai di nuovo nel tuo mondo e non ti vedrò
più. Dimmi almeno che mi scriverai…” mi disse Isabel.
Le feci una carezza sul volto e sorrisi. Era un sorriso amaro, perché
una lacrima
cadeva dai miei occhi. Era difficile anche parlare, ma dovevo fare in fretta.
Marco mi attendeva. L'aereo stava per partire. Avrei voluto dire tante cose.
Avrei voluto dirle che ero venuto a Cuba per accarezzare i miei sogni di
ragazzo, per convincermi che esisteva una piccola parte di mondo dove il
comunismo aveva realizzato qualcosa d'importante e che era giusto credere e
lottare ancora. Avrei voluto dirle che invece ero riuscito soltanto a credere,
ancora una volta, nell'amore. E il merito era stato suo, soltanto suo. Ma il nostro
rapporto non avrebbe funzionato in Italia, non avrebbe potuto funzionare.
Dovevo staccare la spina a quel bellissimo sogno. Invece non fui capace di
pronunciare neanche una parola.
Le detti un bacio, la strinsi forte al petto e scappai sul mio aereo.
Non sarei più tornato a Cuba, questo è certo.
Appena sistemato
nel posto che mi era stato assegnato, aprii il portafoglio ed estrassi l'ultimo
ricordo della mia militanza politica: la tessera dell'Associazione di Amicizia Italia-Cuba.
La strappai in mille pezzi e la gettai tra i rifiuti.
Tra le pieghe dei documenti, appena un poco
sgualcita, apparve anche la foto di Isabel.
Quella no. Quella l'avrei conservata.
Glossario dei termini cubani
Malecòn: è il lungomare de L'Avana
Isla grande: è il nome
dato a Cuba, la più grande delle Antille
Salsa e merengue: balli tipici della tradizione popolare
cubana
Taxi particular: auto privata utilizzata
come taxi illegale
Batista: è
il dittatore scacciato dalla rivoluzione, il nome completo è Fulgenzio Batista
“Tu exemplo vive, tus
ideas perduran”: “Il tuo
esempio vive, le tue idee sono qui con noi”. E' una frase che troneggia su
molti cartelli propagandistici del regime.
Albergue: le abitazioni che il governo dà ai
così detti “casi sociali” ed ai senza tetto. Non hanno niente di più e niente
di meno delle “favelas” brasiliane. Ma guai a dirlo a Fidel…
Libreta: la tessera di razionamento alimentare
che ha ogni cubano. In teoria si potrebbe acquistare solo quello che è in essa previsto. Facendolo si morirebbe tranquillamente di
fame. Ovvio che il popolo si arrangia come può.