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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Quell'uomo e La Gazza, di massimolegnani 02/07/2019
 
Quell’uomo

di massimolegnani



Quell’uomo mi ha incuriosito.

Mi capita, una o due volte al mese, di vederlo passare sotto la finestra del mio studio mentre affronta la salita dai ciottoli sconnessi che porta al castello. Non so come si chiami né da dove venga, sicuramente non abita nel borgo, siamo talmente pochi che ci conosciamo tutti. Probabilmente arriva da una qualche casa dei paraggi e vuol dire che si sobbarca ogni volta un bel cammino.

Ha un’eleganza sobria, d’inverno un loden verde e un cappello di feltro scuro che gli nasconde il volto, posso notare solo il pizzetto curato, nei mesi caldi una giacca sportiva senza cravatta e un fresco panama in testa. Ai piedi, in qualunque stagione, scarpe inglesi che con la loro suola in cuoio risultano poco pratiche sui sassi sdrucciolevoli della via, e infatti gli vien fuori una camminata piena di cautela che lo invecchia.

Sembra un turista solitario interessato ai tesori del castello.

Ma al castello lui non arriva mai.

Si siede sulla panchina rivolta a valle, vicino alla grande quercia e non lontana dalla cancellata d’ingresso, come voglia rifiatare pochi istanti.

Poi ci resta delle ore.

Ogni tanto mi affaccio per vedere se sia ancora lì. C’è.

Predilige venire di pomeriggio, qualche ora prima del tramonto, per cui dalla mia finestra vedo di spalle la sua sagoma scura nel controluce d’occidente. Sta seduto quasi immobile, nelle ore muta magari la posizione di un braccio, l’inclinazione del capo ma poco altro.

A volte una gazza gli saltella intorno. Non so se sia sempre la stessa, ma la cosa straordinaria è che dopo qualche saltello la gazza si blocca ai piedi della panchina, per nulla intimorita dall’uomo. Credo che si blocchi per adeguarsi al suo immobilismo, sai come quando uno parla e l’altro tace fino a che anche il primo si zittisce per non essere importuno.

M’incuriosisce quest’uomo e la cosa più curiosa è che finora non ho mai colto l’istante in cui si alza e se ne va.

Sembrano, lui, la gazza e la panchina, intagliati in una lastra di metallo nero.



La Gazza

di massimolegnani



Ieri mi sono deciso, era da tempo che volevo conoscere quell’uomo.

Di ritorno dalla consueta passeggiata tra le vigne, anziché rientrare in casa, ho proseguito lungo la salita a ciottoli che porta al castello. Prima ancora di scorgere la panchina della quercia sapevo che lo avrei trovato lì.

Eccolo, infatti. Era seduto al centro di questa: le braccia distese lungo lo schienale, il corpo rilassato sulle stecche di legno, occupava da solo l’intera panchina. Mentre mi avvicinavo, unaa gazza che stava impettita ai suoi piedi si spostò prudentemente, con piccoli saltelli, sotto i rami bassi della quercia, ma non volò via come mi aspettavo.

L’uomo non parve accorgersi della mia presenza, in effetti gli ero arrivato alle spalle con poco rumore e lui doveva essere assorto in qualche suo pensiero. Dovetti schiarirmi la voce e accennare un “permette?” per ottenere la sua attenzione. Mi guardò inespressivo e scostò il braccio sinistro spostandosi un poco a destra per farmi spazio, ma non disse una parola. Controllò con lo sguardo tra le foglie che la gazza fosse ancora lì, poi riprese a fissare l’orizzonte.

Mi sedetti e feci qualche osservazione banale sul tempo, lì in cima al poggio tirava un’aria piuttosto fredda, e sul panorama di campi, colline e vigne, imbastardito da sgradevoli capannoni industriali. L’uomo al mio fianco rispondeva distrattamente, più per educazione che per interesse, anzi era evidente che sebbene venisse lì spesso non era affatto attratto dal paesaggio circostante.

Nonostante i miei sforzi, la conversazione non decollava. Dopo un tentativo più diretto, la vedo spesso qui dalle mie finestre, a cui lui aveva risposto con un sospiro senza nemmeno voltarsi verso di me, mi adeguai a quel suo stare lento, quasi assente, e tacqui.

Speravo di trovare nel silenzio una nuova modalità di contatto con quell’uomo, ma il silenzio rimase tale, anzi i nostri erano due silenzi separati.

Ormai la mia curiosità andava scemando, avevo immaginato chissà quale mistero dietro il suo stare assorto per ore alla panchina, invece era semplicemente una persona abulica, per lui essere qui o in un qualunque altrove era la medesima noia. Così pensavo, quando a un tratto l’uomo parlò. Ma non a me.

Gaia, su, Gaia non essere timida, torna qui.

La voce era pacata, il volto sereno, e quando dal folto della quercia la gazza con un breve volo andò a posarsi sul suo ginocchio, l’uomo sorrise. Cavò dalla tasca un pezzetto di pane e gliel’offrì, sminuzzato, sul palmo aperto. L’uccello becchettò a lungo, poi, terminato il pasto, spiccò il volo. La gazza volteggiava sopra di noi gorgheggiando e compiendo evoluzioni allegre. Io la seguivo, meravigliato che non si allontanasse più che tanto da noi, il suo volo sembrava una danza, oserei dire un ringraziamento, nell’unico modo con cui poteva manifestarlo. Quindi planò con eleganza tra i piedi dell’uomo e lì rimase, come un cane accucciato tra i piedi del suo padrone.

Finalmente l’uomo si voltò verso di me con un sorriso sornione: l’ho incontrata la prima volta che sono venuto qui e ci siamo subito intesi. E da allora ogni volta sembra che sappia che sto per tornare. La trovo già qui che mi aspetta.

Con poco tatto commentai: chissà se è sempre lo stesso esemplare, magari c’è stato un passaparola tra le gazze e si alternano nello scroccare il suo cibo.

L’uomo mi guardò con un’aria di compatimento come non fossi in grado di capire.

Ma questa è la Gazza!, disse calcando la voce sulla G, come avesse usato una maiuscola che doveva spiegare tutto.

Non risposi e attesi che aggiungesse qualcosa ma lui stette in silenzio. Si diede un colpetto sulla coscia destra e la gazza sbattendo le ali vi saltò su. Ogni tanto lui la sfiorava con la mano e lei gli becchettava delicatamente le dita senza pizzicare. Era un dialogo muto e intenso. Si sbottonò il loden e tenne le falde aperte in un invito. L’animale vi si tuffò in mezzo e lui richiuse il cappotto a regalargli il tepore della lana cotta.

Lei crede nella reincarnazione?, mi domandò a bruciapelo.

Bè, francamente no.

Nemmeno io. Ma questo animaletto ha i modi delicati e l’eleganza di una persona che mi era molto cara. Sapeva accogliermi col sorriso qualunque malumore avessi e riusciva sempre a smorzare la mia inquietudine. La Gazza mi dà la stessa pace, per questo l’ho chiamata Gaia. Credessi nella reincarnazione l’avrei chiamata direttamente col suo nome.

Mi guardò, non come se cercasse la mia approvazione di cui non aveva bisogno, ma come se verificasse se riuscivo a districarmi tra logica, affetti e minima follia. Forse la mia espressione imbarazzata lo deluse perché mi fece uno stanco, quanto educato, gesto di saluto a mo’ di congedo.

Tornai verso casa frastornato, non è facile entrare nello spazio stretto dove si rifugiano le persone forse candide o forse un poco folli. Ma se non dentro almeno mi sono affacciato a quello spazio ed è stata una vista salutare.




 
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