Un
ritratto in quattro tempi
di
massimolegnani
L’aveva
vista, pochi tavolini più in là, sorbire un tè e
addentare con grazia golosa pasticcini alla crema. L’amico gli
parlava ma Amedeo non lo ascoltava più, era completamente
immerso nei gesti accurati della giovane borghese, gesti che in
un’altra donna avrebbe bollato come leziosi, il nettarsi le
labbra con un tovagliolino candido, l’accenno di un sorriso
educato alle parole dell’amica, la mano portata al collo in una
minima apprensione. In lei invece notava una tale simmetria tra
lineamenti e gesti, una così perfetta corrispondenza tra la
mimica contenuta e la volubilità espressiva del viso (bastava
un minimo corrugare la fronte per modificare radicalmente lo scenario
di quel volto) che Amedeo non aveva resistito a lungo. Osservava la
donna e già la vedeva prendere forma sulla tela. Così
si era alzato di scatto e, ignorando lo sguardo esterrefatto
dell’amico, si era diretto al suo tavolino:
Le
mandorle dei suoi occhi, l’avorio del collo…esigono un
ritratto. Lei dovrebbe posare per me.
Mentre
la giovane signora con lo stupore di un sopracciglio squadrava gli
abiti sgualciti e le mani sporche di vernice, Amedeo con un tozzo di
matita aveva scarabocchiato un indirizzo sul tovagliolino di pizzo.
Poi, fatto un goffo inchino, se n’era uscito dal locale con
passo malfermo, anche se per una volta non aveva bevuto.
*
* * * * * * * * *
La
donna lasciò passare parecchi giorni prima di decidersi, forse
per una residua remora morale o perché la cosa non la
incuriosiva più che tanto. Ma una volta deciso agì
senza incertezze. Affrontò le vie maleodoranti del Marais con
una camminata impettita che la proteggeva dall’assalto della
miseria e salì i quattro piani di scale di un edificio
fatiscente ignorando la sporcizia e lo sbattere violento delle
porte.
Quando
Amedeo aprì la guardò a lungo come faticasse a mettere
a fuoco un ricordo. Era primo pomeriggio e lui, alzatosi da poco, si
trovava su quel crinale incerto tra i postumi dell’ubriacatura
della notte precedente e il primo contatto quotidiano con il
vino.
Come ti
chiami?- le chiese
brusco ancora sulla porta, come avesse di fronte una di quelle
prostitute con cui era abituato a lavorare.
Agnese,
rispose lei con voce
chiara, e aggiunse Sono
qui per il ritratto.
L’uomo
emise un grugnito e la fece entrare.
La
mansarda era nel disordine più totale, il letto sfatto, piatti
con residui di cibo stantio, ovunque tele abbozzate ma poche quelle
già concluse, un gatto dormiva sull’unica sedia.
Nell’aria ristagnavano odori, anice e acquaragia su tutti.
Agnese costituiva un’immagine stridente in quell’ambiente,
ma vi entrò con naturalezza. Era più impacciato lui,
nonostante l’aria scorbutica e il modo cattivo con cui cacciò
il gatto dalla sedia.
La
donna si sedette al posto del micio e attese che l’uomo
iniziasse il ritratto.
Amedeo
non si era ancora avvicinato al cavalletto, passeggiava irrequieto
per la stanza, ora spostando una tenda per attenuare la luce troppo
violenta che penetrava da un finestrone obliquo, ora tentando di
pulire i pennelli con uno straccio immondo.
Così
non va, disse alla
fine.
Così
come?
Vestita
di tutto punto, imbellettata, chiusa.
In
questo stesso modo mi aveva vista quel giorno.
Sì,
ma qui è diverso.
In
che senso?
Là
è stata una folgorazione, qui dovrei dare forma e senso
all’intuizione.
E
allora?
È
troppo coperta.
Lei
deve ritrarre il viso e quello è sgombro.
Nel
quadro compariranno solo il volto e il collo, ma io devo conoscere
anche il resto.
Perché
mai?
Fermarmi
al volto deve essere una mia libera scelta, non il limite stabilito
dai pudori di una ricca borghese.
Se
sono qui significa che non ho preconcetti. Ma di qui a spogliarmi di
fronte a lei. Nemmeno mio marito…
Agnese
ribatteva colpo su colpo mantenendo uno sguardo limpido. Ogni tanto
increspava un sopracciglio o accennava a spalancare gli occhi, ma
sempre con misura e più per manifestare il suo tentativo di
comprensione che per esprimere un cruccio. Amedeo, al contrario,
sembrava una bestia alla catena. Borbottava tra sé,
gesticolava agitando un pennello per aria, misurava la stanza a passi
inquieti. Si fermò di colpo solo di fronte al suo sorriso
radioso:
La
fottuta buona educazione! Odio i sorrisi borghesi fatti con cortesia
ipocrita, che poi se uno si fida di quel sorriso viene fregato.
Non
avevo quella intenzione, rispose lei tornando seria.
Basta!
Non ne facciamo niente. Sono stato un idiota a crederci.
Lei
si arrende sempre così presto?
Vattene.
Agnese
rimase seduta, come non avesse udito quell’ultima parola quasi
urlata.
Lasciò
passare qualche istante nel silenzio, poi intercettò il suo
sguardo:
Che
cosa le premeva di me?
Ritrovare
nel corpo i tratti del volto, la corrispondenza o la negazione di
quanto leggo nello sguardo.
Che
cosa vi legge?
La
mutevolezza del mistero. Fluttua dalla meraviglia alla
consapevolezza, senza che io sappia per che cosa si meravigliano i
tuoi occhi, di che cosa si fanno consapevoli. È questo il bel
mistero, ma lasciamo stare, non capisci nemmeno di cosa sto parlando
e forse non lo capisco nemmeno io. A dirlo diventa tutto così
assurdo. L’arte non deve essere spiegata, ancor meno le sue
intuizioni.
La
donna protese il collo in avanti come per un’improvvisa fame
d’aria. Era il suo modo di riflettere.
Sto
cercando di seguirla. Temo di essere stata troppo razionale. La sua
richiesta è legittima. So però che non sopporterei il
suo sguardo su di me.
Amedeo
era ammutolito, percepiva lo sforzo della donna per entrare in un
ruolo a cui non era abituata, ma a cui non voleva rinunciare.
Vi
fu un silenzio lungo, ricco di suggestione.
Le
parole di Agnese si fecero lente, soppesate ad una ad una:
Non
è un compromesso che le propongo, mi creda, è una via,
l’unica via che sento giusta per entrambi.
Di
nuovo una pausa, come a creare un terreno comune. Poi la giovane
parlò in un soffio tiepido:
Vorrei
che lei si mettesse una benda sugli occhi e mi percepisse in altro
modo. La memoria poi l’aiuterà a dipingermi.
L’uomo
ubbidì all’istante. Usò lo straccio dei pennelli
per bendarsi, e nemmeno per un istante pensò di barare. Ed era
certo che neanche lei lo avrebbe ingannato.
Poteva
sembrare una scena grottesca, un pittore privato della vista di
fronte a una modella nuda che attende fiduciosa di essere percepita
al di là della vista, del tatto, del contatto. Ma non vi era
nulla di artificioso o di ridicolo nel modo in cui Amedeo annusava
l’aria cercando l’odore autentico di lei sotto il profumo
di mughetto e sfiorava con un pollice le sue forme senza arrivare a
toccarle; e nemmeno nel modo in cui Agnese si lasciava invadere senza
imbarazzo dai sensi dell’uomo, lo sguardo limpido e i seni
tesi, quasi fossero le punte a pretendere il contatto con quel
dito.
L’uomo
aspettò a togliersi la benda che cessasse il fruscio della
seta che tornava a coprire la pelle. Si guardarono come reduci da un
viaggio in luoghi che non conoscevano, ma non si confidarono
l’emozione provata. Solo un silenzio solidale, rischiarato
questa volta dal sorriso di Amedeo.
Quando
Agnese fu uscita, l’uomo si mise al cavalletto.
Dipinse
un volto, gli occhi che sembravano due mandorle tostate e il collo
smisurato, di un colore ambrato.
*
* * * * * * * * * * *
Aveva
appeso la tela a un chiodo, sulla parete di fronte al letto. La
guardava prima di crollare nel solito sonno agitato, rischiarata da
quel po’ di luna che filtrava dal lucernaio, e la cercava a
occhi ancora pesti quando si svegliava, prima cosa reale nel
subbuglio della sua mente caotica.
Era
capace di stare ore a fissare il ritratto, le mani intrecciate dietro
la nuca, lo sguardo incantato sull’ocra e il nero che
prevalevano sul resto. Non aveva mai dipinto così bene, ne era
convinto. Nel volto ridotto a poche linee dure ed essenziali Amedeo
rivedeva con facilità il viso reale della donna, ma lei
avrebbe capito? Si sarebbe accorta di quanto lui l’aveva vista
bella? Il timore che Agnese non sarebbe riuscita a specchiarsi in
quelle guance prosciugate, a riconoscersi nella bocca stretta e
violacea, negli occhi sottili, nell’iperbole del collo, lo
assaliva a ondate. E allora lo coglieva una specie di paralisi, una
voglia di far nulla, impensabile dipingere di nuovo prima che lei
tornasse a vedere il quadro. Non gli era mai importato il giudizio
delle proprie modelle, ma questa volta era diverso, lei era una donna
di gran classe o almeno così a lui sembrava, forse appena
benestante, in ogni caso enorme la distanza tra di loro. Così,
aiutandosi col vino restava giorni interi a letto a ripensare al loro
incontro e al suo ritorno che tardava. E ondeggiava pericolosamente
tra entusiasmo per le proprie capacità espressive e sconforto
per non essere apprezzato.
Quando
capì che lei non sarebbe più tornata, forse dimentica
di un pomeriggio di follia o più probabilmente disinteressata
al risultato di quello che aveva considerato un gioco stravagante, il
quadro gli divenne insopportabile. Ancora lo guardava, al risveglio e
prima di dormire, ma ora gli occhi erano astiosi e dalla bocca spesso
uscivano parole di rancore.
Il
quadro, forse davvero il suo migliore, in una notte di furore finì
nella stufa con la promessa di mai più dipingere. Ma le
promesse degli artisti, si sa, durano il tempo di una sbornia.
*************
E
dovette dipingere di fretta e di furia quando lei bussò alla
sua porta.
Sono
venuta per il quadro.
Non
t’aspettavo più.
Dov’è?-
chiese Agnese guardandosi intorno.
Roba
da non crederci, rispose
Amedeo indicando la stufa con una risata aspra.
Lei
non capì, mosse le poche tele appoggiate a una parete e fu
presa da uno sconforto rabbioso:
Non
l’ha fatto! Tante parole roboanti e poi non è stato
capace di ritrarmi. Dovevo aspettarmelo.
Amedeo
non ci provò nemmeno a spiegarle come erano andate le cose.
Diede una manata a far sloggiare il gatto acciambellato sulla sedia:
siediti
qua, dietro di me, e guarda pure quello che faccio. Ma non parlare e
non interrompere in alcun modo il mio lavoro.
Le
diede le spalle e da quel momento si dimenticò di lei.
Dipingeva
con tratti sicuri, veloci. Non seguiva il ricordo della donna ma
“ricopiava” fedelmente il quadro che prima di essere
distrutto gli si era impresso nella memoria come una colata di piombo
nello stampo.
Agnese
osservava muta, non per obbedienza ma per stupore, il procedere
rapido del lavoro del maestro. Era lei la figura di donna che
prendeva forma sulla tela, si riconosceva senza alcuna incertezza
nonostante le palesi distorsioni che l’artista stava apportando
al suo volto. Era sua quella bocca così rimpicciolita, erano
suoi quegli occhi deformati a un taglio orientale, così
diversi dal reale eppure identici. E le tornarono in mente le prime
parole che lui le aveva rivolto al caffè, le
mandorle dei suoi occhi. L’aveva
dipinta allora, non adesso, e dal primo momento il suo modo di
vederla era stata un’interpretazione personale della realtà,
in cui lei si riconosceva.
Amedeo
era alle ultime pennellate. Agnese si alzò e lo abbracciò
da dietro appoggiando una guancia alla sua spalla. Lui fissò
la figura dipinta e sembrò rivolgersi ad essa quando disse,
fermati qui stanotte.
Agnese
annuì in modo quasi impercettibile.
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