ll
cavadenti
di
Grazia Giordani
Ormai
si è perso il gusto delle sagre di paese, quelle in cui si
dava “la mancia” per la fiera ai bambini e ai ragazzi,
proporzionata all’età dei riceventi e alle tasche dei
genitori o parenti che l’elargivano.
Nelle
famiglie si preparava un pranzo speciale con tortellini, tagliatelle
grondanti ragù, polli, anatre ed altri volatili sfrigolanti in
casseruola, dolci della tradizione. Momenti di convivialità,
di festa, di giochi, di scherzi. A proposito di scherzi, ricordo quel
mattacchione di mio cugino Enrico che girava con un tubo di
dentifricio e – chiotto chiotto – ne lasciava abbondanti
striature sulle giacche buone dei contadini vestiti a festa (di cui
avrei voluto proprio vedere la faccia quando si fossero spogliati la
sera). Era sempre lui – Enrico – quello che alle danze
popolari della fiera, dove i ballerini venivano chiusi dentro un
quadrato di corda a pagamento (una cosa di una finezza unica, come
potete ben immaginare!) tirava gli elastici del reggiseno delle
malcapitate sue partner di danza, come fossero fionde, procurando
gridolini dalle suddette, più divertite che arrabbiate…
Bene,
in questo clima di provinciali divertimenti – a Codigoro, paese
di mia madre, quando la mitica Hena era poco più che bambina –
veniva un ragazzetto con un orso bruno legato a un palo che faceva
ballare in mezzo alla folla, accompagnato da un cavadenti,
un tizio, munito di poderose tenaglie, che faceva accomodare i
malcapitati clienti davanti a lui, su scomodi sedili, e in fianco
aveva due suonatori di tromba e uno di tamburo.
«A
cosa servivano i suonatori, mamma?» – chiesi io, da
piccola, incuriosita dallo strano racconto.
«Suonavano
all’impazzata – rispose mia madre – per confondere
gli urli e i lamenti dei disgraziati a cui il cavadenti stava
massacrando la bocca …»
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