QUANDO VINSE ORIETTA BERTI
Ho
pensato di scriverti ascoltando alla radio una canzone di Orietta Berti che ti
piaceva: “Fin che la barca va.”
Sono
seduto sulla sedia, è pomeriggio
inoltrato e posso scegliere se lavorare o stare qui, con le mani in mano.
Ho
faticato troppo quest'anno ed è per questo che decido di non far niente.
Mi
affaccio alla finestra e una leggera brezza, senza che me ne
accorga mi conduce lontano nel tempo.
Ritorno.
Ritorno
indietro.
Ritorno
nella strada
dove noi abbiamo vissuto e che ora è
popolata di immobilità; resta un vento
caldo a sollevare i manifesti che
annunciano l'arrivo di un complesso musicale.
Tu
che rientravi trafelato quasi mai prestavi attenzione a quelle lucide e
incomprensibili pubblicità.
Un
colpo pesante urtava contro la porta di legno.
Dall'interno mia madre si affrettava ad aprirti
muovendo in modo nervoso il chiavistello.
Prima c'erano le avvisaglie, come non percepire il portone di ferro che
si apriva sul cortile e poi la porta di legno che conduceva sul minuscolo
pianerottolo. Due leggeri cigolii venivano quasi sempre da me percepiti come un
gatto che attende
il padrone per il cibo. Le suole delle tue rattoppate scarpe stridevano
leggermente sul marciapiede.
Prima
di entrare però appoggiavi la tua borsa (con i chiodi, le pinze, il martello)
nella boschiera, un cunicolo colmo di legna.
Talvolta
aggiungevi anche la bicicletta, gialla con delle strisce nere e pizzichi di
ruggine che la abbellivano .
La
chiave esagonale chiudeva rumorosamente il tutto.
Venivi
da una giornata di duro lavoro dove tanti rumori avevano accompagnato il tuo
faticare.
Il
battito dei chiodi si inframmezzava con le prime macchine che andavano
occupando le strade.
Le
voci del capomastro si affiancavano all'armatura delle case.
Andavi
orgoglioso del tuo ultimo
lavoro. Infatti il sabato premevi nell'accompagnarmi fuori.
Insieme
attraversavamo le strade del centro: tra un andirivieni di cunette e dossi, ci
dirigevamo nelle vie principali per poi imboccare una viuzza che si affacciava
su una grande
piazza .
Io
mi preoccupavo di un
gelato, sbirciavo con la coda dell'occhio il giornalaio aperto per poi comprare una bustina di
figurine di calcio.
Tu
cercavi di farmi vedere
il campanile del Duomo che si ergeva possente e maestoso. Scuri
mattoni erano stati pazientemente levigati mentre la
cima si mostrava nel suo splendore.
Tu,semplice carpentiere, andavi fiero di questo lavoro, di
questo tuo piccolo contributo al restauro e alla conservazione di un monumento
così importante.
A
volte ti toglievi il basco e rimanevi lì a rimirarlo in religioso silenzio, tu
così restio alla consuetudini di chiesa.
La
domenica pomeriggio si andava a giocare in uno strano prato poco distante.
Era
un minuscolo campetto in parte spelacchiato in parte ricolmo di erbetta
mischiata alla gramigna e alle ortiche.
All'inizio
mi osservavi calciare.
Poi
partecipavi improvvisandoti portiere. Alla fine mi provocavi. Dovevamo lanciare
la palla in alto .
Eri
bravo.
Ero
bravo.
Ero
diventato bravo.
Ti
voglio ricordare così.
Nell'accarezzare
il cielo quando non si era fatto ancora scuro lanciando una palla sempre più in
alto.