Un’aquila
a Natale
di
Aurelio Caliri
C’era
una volta un bambino che si chiamava Federico ed era un tipo molto
dormiglione. Quella mattina, inspiegabilmente, si svegliò
all’alba e mentre si vestiva si chiedeva il perché di
tale levataccia. Era la vigilia di Natale e sentiva come un richiamo,
come se qualcosa di misterioso lo spingesse a scuotersi, ad agire.
Uscì sulla terrazzina della mansarda che dava sui tetti e
rimase sorpreso dallo splendore strano del sole che s’affacciava
all’orizzonte e irradiava con sfumature giallastre la sua luce
sulle case. Ma c’era qualcos’altro di cui non si
capacitava: non avvertiva il benché minimo senso di freddo,
nonostante la stagione invernale ormai inoltrata; l’aria poi
sembrava immobile, come incantata e, soprattutto, c’era un
silenzio quasi allarmante: nessun rumore di macchine, di treni, di
persone, di animali. La vita si era fermata.
Il
bambino, pur affascinato dalla novità, fu pervaso da un senso
di inquietudine, ma poi, al pensiero che il padre e la madre
dormivano nella camera accanto, si sentì confortato e cercò
subito di analizzare la situazione e capire. Ecco, era come se
qualcosa d’ignoto incombesse sulla natura, come se un evento
soprannaturale stesse per manifestarsi. Si guardò intorno per
valutare meglio il fenomeno e, d’un tratto, giunse al suo
orecchio un frullare distinto di ali che s’avvicinava, quindi
il sole per un attimo fu oscurato da un uccello enorme che planò
dinanzi a lui e tranquillamente si posò sul tetto, a un paio
di metri di distanza.
Era
un’aquila maestosa, le sue penne brillavano al sole e i suoi
grandi occhi, che non avevano nulla della ferocia dei rapaci,
guardavano fissi il bambino. Questi rimase immobile dalla meraviglia,
come ipnotizzato, ma sulla paura istintiva ebbe la meglio la
curiosità, il desiderio di conoscere quella nuova realtà.
Lo sguardo dell’animale aveva un che di umano, sembrava volesse
comunicare un messaggio,
volesse
parlare, e infatti inaspettatamente l’aquila parlò.
Disse:
“Vuoi
venire con me? Vuoi trascorrere in un modo speciale questa vigilia?
Vedrai, sarà bellissimo: sarà il mio regalo di
Natale!”.
Il
bambino deglutì, l’emozione gli impediva di articolare
le parole, ma riuscì infine a dominarsi e rispose:
“Ma
dove mi porti? Vengono con me anche i miei genitori?”.
“No,
mi dispiace”, replicò l’aquila, “ma non ti
preoccupare: vedrai che ti raggiungeranno nel posto in cui andiamo!”.
Il
bambino era indeciso sul da farsi: l’uccello misterioso,
l’avventura inaspettata esercitavano su di lui un’attrattiva
fortissima e nello stesso tempo aveva timore di lasciare la sua casa.
Chiese:
“Ma
è sicuro che i miei genitori mi raggiungeranno? E poi, in che
modo vengo con te?”.
L’animale
si accostò zampettando sulle tegole fino al margine del
muretto che delimitava il tetto e gli disse:
“ Sali
e tieniti stretto. Per il resto ti assicuro che non avrai alcun
problema”.
Il
bambino accantonò ogni perplessità e, issatosi
agilmente sul parapetto, con un balzo si mise a cavalcioni del
pennuto e fece appena in tempo ad aggrapparsi al suo collo vigoroso
perché subito si librò in volo distendendo le ali
immense e muovendole ritmicamente.
Che
spettacolo la terra vista dall’alto che scorreva a perdita
d’occhio! Il bambino era stordito dall’aria e dalla luce
che lo investivano con impeto, ma non provava alcuna apprensione,
anzi si sentiva sicuro. L’aquila col suo sguardo dolce e quasi
umano, con i suoi modi gentili, gli aveva comunicato quella
sicurezza, insieme a un grande senso di libertà che lo colmava
di gioia.
L’uccello
atterrò dolcemente vicino a una casa che si trovava sul
limitare di un bosco e parlò ancora:
“Scendi
ed entra: ti stanno aspettando!”.
“Ma
chi mi aspetta?”, chiese il bambino, “e tu, non vieni con
me?”
“No,
non posso, vado dai miei aquilotti su in montagna: anche per noi è
Natale! Ma verrò dopo. Tu intanto vai …vedrai …”.
Dette
queste parole si alzò in volo e in breve scomparve al di là
degli immensi alberi secolari.
Il
bambino s’avviò titubante verso l’ingresso
socchiuso e saliti diversi scalini e attraversata una specie di
anticamera si trovò in una vasta cucina fuligginosa e semibuia
dove c’era un grande fermento. Il forno era stato appena acceso
perché la fiamma era ancora alta e dei ramoscelli secchi
scoppiettavano allegramente. Una signora sui quarant’anni vi
accudiva con un rastrello di ferro e quando lui si avvicinò
lei si voltò e lo salutò:
“Ciao!
Ti stavamo aspettando. Tra poco ti farò una bella focaccia!”.
Aveva
un sorriso tenero, struggente, ed era così affettuosa che si
sentì riscaldare dentro. Intanto, guardandosi intorno, trasalì
dalla sorpresa: in un angolo stavano seduti i suoi nonni, Turi e
Nina, i genitori di Maria, sua madre, che lo guardavano sorridendo.
Si avvicinò e li abbracciò. Chiese:
“Ma
voi che fate qua?”
“Siamo
venuti per vederti: è Natale, no?”.
Che
strano! Erano tanti anni che non li incontrava e, mentre cercava di
capire come mai si trovassero là, gli si avvicinò un
bambino della sua età e al vederlo si sentì ancora
pervadere dalla meraviglia. Gli somigliava moltissimo, era come avere
davanti un altro se stesso: stessi lineamenti, stessi occhi, stessa
statura. Era suo fratello? fratello gemello? Ma l’unico suo
fratello, Mirko, era già grande, biondo, con gli occhi
azzurri. Nemmeno allora ebbe il tempo di riflettere perché il
bambino, dopo aver dato un bacio alla madre Bettina, che badava al
forno, lo prese per un braccio e affettuosamente gli disse:
“Vieni,
ti faccio vedere qualcosa!”.
Lo
portò nella parte opposta della cucina e in una gabbia vide i
propri scoiattolini che saltavano da una estremità all’altra
senza un attimo di sosta, come impazziti dal piacere di rivederlo. Ma
che succedeva? Come mai si trovavano in quella cucina? Come se non
bastasse, vicino c’era un’altra gabbia più grande
e dentro vide Ciccia, la sua coniglietta bianca, soffice, bellissima.
Ebbe un tuffo al cuore. Aprì la gabbia, la prese, la baciò,
se la strinse forte al petto. Ma cosa significava tutto ciò?
Non vedeva Ciccia da molto tempo: che ci faceva in qual posto?
L’abbaiare
di un cane lo distolse ancora una volta dalla sua riflessione.
“Viola,
zitta!”, le intimò il bambino che sembrava suo fratello
gemello.
Ma
allora era Viola, la cagnetta di suo padre, quando questi era
piccolo, che
uscita da sotto il forno gli si era avvicinata e gli
faceva festa abbaiando e scodinzolando. Come poteva essere
possibile?
Non
ci capiva più niente. Era un miracolo di Natale? Forse! Ma
qualunque cosa fosse, non gli importava, sapeva solo che traboccava
di felicità, come forse mai era successo. Un solo pensiero
appannava quel momento: i suoi genitori quando sarebbero arrivati? e
l’aquila? Sentiva la sua mancanza e avrebbe voluto rivederla.
Trascorse
un tempo indefinito tra giochi e scherzi insieme all’altro
bambino ed ecco che la signora dal sorriso tenero e struggente sfornò
il pane e le focacce. C’era in quella cucina d’altri
tempi un profumo invitante, inebriante, anch’esso d’altri
tempi. Arrivarono intanto i fratelli e le sorelle del suo piccolo
compagno, preceduti da strepiti e risate, ed entrò anche un
uomo corpulento, affabile, Vito, che doveva essere il padrone di
casa, il marito della Signora. In piedi, attorno a un grande tavolo
sgangherato,
mangiarono con gusto, quindi, accostate le sedie, tutti insieme
giocarono prima a carte, poi a tombola. Il bambino pensava che mai
aveva trascorso momenti così appaganti, ma che tutto sarebbe
stato perfetto se ci fossero stati anche i suoi genitori.
Improvvisamente,
non sapeva come, si era fatta sera e suonarono le campane che
annunciavano la messa di mezzanotte. Non si trovavano sul limitare di
un bosco? Lo chiese al compagno, il quale, invece di rispondere,
prendendolo per mano gli disse:
“Andiamo!”.
Uscirono.
Il bosco era scomparso, c’era invece davanti alla casa un
piazzetta e la chiesa antica che la sovrastava, la Matrice, che lui
conosceva.
Entrarono.
C’era molta gente. La messa era cominciata e tutti cantavano
“Adeste fideles”. Che canto fantastico, sublime! Si
sedettero su una panca e proprio in quel momento scoccò la
mezzanotte e, caduto un drappo rosso sull’altare maggiore,
apparve il Bambinello di cera, disteso su di un giaciglio di paglia,
sorridente e benedicente, mentre l’organo intonava con forza
“Tu scendi dalle stelle” e accompagnava il canto dei
fedeli.
Si
udì un frullare di ali. Era l’aquila? Avrebbe voluto
ringraziarla. No, era una colomba che attraversava la navata
centrale. Il bambino si girò verso il compagno come per
partecipargli l’ennesima sorpresa, ma era scomparso. Al suo
posto invece si era come materializzato suo padre che sedeva accanto
a sua madre, ed entrambi
gli
sorridevano, complici. Pensò: ma allora il compagno che gli
somigliava tanto e suo padre, Aurelio, erano la stessa persona, in
due momenti diversi della vita?. Mentre rifletteva su questo mistero
ed era invaso dalla felicità per aver ritrovato i genitori, le
campane cominciarono a suonare in segno di giubilo, a lungo,
insistenti. Tanto insistenti che il bambino si svegliò.
Attraverso
l’imposta socchiusa della finestra della sua cameretta su in
mansarda la luce filtrava luminosa, mentre le campane della
Cattedrale suonavano a distesa.
Che
bello: era Natale!
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