A vedere il colore del mare
Teneva
le mani nella tasca della giacchetta e la testa bassa, e intanto provava a
figurarsi quel posto dove la terra finisce e l'acqua
non finisce mai.
Il
cielo era azzurro, quel giorno, un azzurro come quello che usava lui e il
professore diceva: “Insomma, Tozzi, non sei mica più alle elementari, rifare.” Lui non capiva perché l'azzurro andava bene alle
elementari e non andava più bene in prima media, ma non diceva niente e
rifaceva. Uguale. Tanto al professore non importava e andava a dire “bravo” a
Mattia, che sul foglio faceva il cielo con il bianco, il rosa e di azzurro
poco, pochissimo; e il mare con il verde, il bianco e solo un po' di blu, e il
professore diceva “bravo, Mattia” e l'ora era finita.
Una
volta aveva chiesto a Mattia perché faceva il mare verde, se era blu.
“Ma
dai! Non hai mai visto il mare?”
“No,
– voleva rispondere lui – ma so dove Vittorio della
cascina grande ha nascosto la roncola e qualche volta la prendo e faccio il
pirata di Mompracem”.
Però
non aveva detto niente. Dietrofront e zitto, per non vedere il sorrisetto di quello là. Per non sentirlo andare in giro a
dire che il Sandrino non aveva mai visto il mare.
Per
sicurezza, alla sera, aveva chiesto alla mamma di che
colore era il mare. Lei non si era girata nemmeno, lavava i due piatti e le
quattro posate e aveva risposto, in fretta: “Blu, di che colore vuoi che sia?
Metti il pigiama.”
Lui
era stato zitto. Era un gran maestro nello stare zitto. Alla fine, però, gli
era venuto un dubbio e aveva domandato ancora: “Ma tu l'hai visto il mare,
mamma?”
La
spugna dei piatti si era fermata, poi aveva ripreso ad andare su e giù: “Sì che
l'ho visto, che domande fai? Vai a letto, adesso, ti ho messo la boule, ché stasera fa ancora freddo”.
Fine
del discorso marinaro.
Il
problema rimaneva, però. Di che colore era il mare?
Due
giorni prima la professoressa di geografia era entrata con un'asta ancora più
lunga di lei. Aveva cavalcato fino in fondo all'aula, con gli occhi in fuori e
l'asta sotto il braccio, che a lui sembrava l'Orlanda Furiosa e quasi gli scappò da ridere. Poi si era messa a battere la punta sulla
carta geografica e a mugolare: “Cosa c'è qui, eh? Cosa c'è?”. Erano tutti
attorcigliati per guardare dietro cosa c'era e vedevano la solita carta
dell'Italia, con il mare un po' azzurro e un po' blu (verde, dunque, non ce
n'era nemmeno lì).
Per
fortuna Angelo alzò la mano e tutti seppero che là, sulla carta, c'era la Lombardia (sai che novità),
che è la nostra regione e qui c'è tutto, ma proprio tutto, gridava la
professoressa Rocca, i monti, le colline, i fiumi, i laghi, la pianura, tutto!
“Non
c'è il mare, professoressa.” La voce che aveva parlato era proprio la sua, era
uscita prima che il suo cervello gli facesse cambiare idea. “Non c'è il mare.” aggiunse piano.
“Eh,
già, già, – bofonchiò lei, e lo guardò un po' sorpresa – il mare non c'è, ma
non fa niente, bambini, c'è tutto il resto! E il mare è vicino, guardate, ci si
arriva in un attimo!”.
Si
girò e tornò di nuovo alla carta e batteva l'asta di su
e di giù e cominciò a spiegare, e a saltare, Alpi Orobie
(giù), Alpi Retiche (su), lago di Garda (saltino a destra), e di Como (a
sinistra). Lui, Sandrino Tozzi, non l'ascoltava.
Guardava la carta e misurava. Era difficile, così, a occhio, ma se la Rocca aveva detto che in un
attimo ci si arrivava, al mare, capace che fosse vero.
A
mezzogiorno, a casa la mamma non c'era: al giovedì
andava a servizio dalla vedova Biancardi. Niente
pranzo, dunque, solo la pastasciutta fredda con un piatto sopra per via delle
mosche. Si era seduto e aveva visto quel rettangolino
di cartone: c'era una ragazza sopra, con una camicetta bianca e una fila di bottoncini che non finiva più; una mano stava davanti perché
il sole era forte, si capiva da come strizzava gli occhi, intanto che rideva.
La ragazza era la mamma, che adesso non rideva più così, ma lui l'aveva
riconosciuta dalla camicetta, perché la metteva ancora, anche se i bottoncini non erano più tutti uguali e nemmeno i capelli.
Dietro la mamma, il mare, guarda un po'. Un bel mare grigio chiaro e grigio
scuro.
Era
sempre da capo: di che colore era, davvero, il mare?
Quel
venerdì si era svegliato presto. La mamma l'aveva guardato un momento, ma non
gli aveva chiesto niente. Ad ogni buon conto, le aveva detto:
“Ho
compito in classe, devo ripassare”.
“Sta'
attento, e non copiare, mi raccomando” aveva risposto lei.
“Oggi
poi vado a studiare da Giuseppe” aveva aggiunto subito Sandrino.
Lei
annuì:
“Fa'
il bravo, eh?” e chiuse piano la porta.
Lui
aspettò, per essere sicuro che fosse almeno uscita dal
vicolo. Andò a tirar fuori da dietro il letto la
sporta, si sedette per terra e controllò i soldi delle mance, il pane burro e
zucchero, e il libro. Uscì in ritardo, con il sacchetto ficcato dentro la
cartella, perché la signora Teresa era sempre in cortile a quell'ora,
a tirar giù l'acqua dalla pompa, e se vedeva qualcosa di strano era peggio di Sherlock Holmes. Fuori dal vicolo, girò a sinistra e via di corsa a scuola.
Portone chiuso. Gli toccò chiamare il bidello e incontrare il Preside, che girava nel
corridoio. Quando lo vide, alzò gli occhi al cielo e non si fermò nemmeno a
fargli la paternale. Uno scappellotto e gli disse sospirando:
“Vai,
vai, Tozzi, dì che ti ho mandato dentro io”.
Meno
male che la professoressa della prima ora, e anche le altre, lo lasciarono in
pace tutta mattina.
All'uscita,
Giuseppe lo raggiunse:
“E
allora?”
“Allora
vado.”
“Ma
dove?”
“Non
te lo dico. Così se ti torturano non puoi dire niente lo stesso. Mi tieni la
cartella?”
“Ti
ho già detto di sì. Da' qua.”
Gli
prese la cartella, e a lui rimase in mano solo il sacchetto. Fecero un pezzo di
strada insieme, ma all'angolo Giuseppe alzò un braccio in un saluto veloce, e
lo lasciò andare verso la stazione.
Bravi,
che era figlio del capostazione, aveva incrociato le dita e sputato e giurato
che a Piacenza c'era un treno che lo portava dritto a Livorno.
“Sperém.” pensò.
Arrivò
che tre persone se ne stavano davanti alla biglietteria, a sbuffare perché era
tardi. Chissà se era tardi anche per lui, e alzò lo sguardo all'orologio là per
aria e se ne stette a naso in su a guardare i minuti
che passavano troppo in fretta, gli sembrava.
“Ohè! Allora?” si sentì dire. Abbassò il naso, e gli occhi, allungò i soldi e
chiese: “Andata Livorno”, perché per il ritorno i soldi non li aveva, e amen.
Ci fu un momento di silenzio, e lui si mise a guardare la punta delle scarpe.
Aspettava che quell'uomo venisse fuori
da tutto quel vetro e lo prendesse per il collo e lo portasse dal papà
di Bravi e magari da un vigile, e poi
chissà.
“Tieni,
toh!”
Prese
veloce il cartoncino bianco e se lo ficcò ben in fondo alla tasca dei
pantaloni: così piccolo com'era, ci mancava solo di perderlo, adesso. Uscì
dalla fila e andò piano sul binario.
Seduto
sulla panchetta di granito, aveva le orecchie che fischiavano, dallo sforzo di
star lì, a sentire quando sarebbe arrivato il suo
treno e a ricordare le istruzioni di Bravi, che sul treno c'era già andato un
sacco di volte. Aveva così paura di sbagliare che stava quasi per tornare
indietro. Che, quasi, non si ricordava più nemmeno del mare. Forse, se in quel
momento non fosse arrivato il locale 20423, l'avrebbe anche fatto, di girare la
schiena e andarsene.
Invece
prese la sua sporta, e si inerpicò, e cercò un angolino
dove sedersi, si mise le mani in tasca e cominciò a guardar fuori. “Quando vedi
il ponte di ferro – gli aveva detto Bravi, – allora sei arrivato e scendi e
prendi l'altro, che quello ti porta dritto al mare”. Vedeva passare i campi, e
pensò a Mattia, che stava di certo studiando, il secchione, e nemmeno lo
sapeva, che cosa stava combinando lui. Chissà se valeva di più sapere la
lezione di geografia o andare in giro a esplorare il mondo?
Arrivò
il ponte in ferro, un rumore tremendo, e tutta quell'acqua sotto che gli fece impressione, perché un conto
era la Rocca
che spiegava del Po, “il fiume più luuungo d'Italia”,
un conto era vederselo passare lì sotto, lungo, sì, e larghissimo, che sembrava
non finire più. Ma finì, e lui si preparò a scendere e a “cambiare”. Aspettò un
bel po', lì a Piacenza, così tanto che gli passò quasi la paura, e quando
arrivò il Livorno ci saltò su senza neanche pensarci troppo.
Ormai,
pensò, posso andare dove voglio. Si sedette in un angolo, braccia conserte, e
si addormentò.
Si
svegliò che c'era già buio. Provò a guardare dal finestrino, ma niente. Un
signore, di fianco a lui, leggeva il giornale. Sbirciò per vedergli l'orologio,
tanto per sapere se era lontano o vicino. Niente da fare. Mentre cominciava a
sentire lo stomaco che si stringeva, il treno dette uno scossone, e cominciò a
frenare. Il cartello di Livorno gli passò davanti agli occhi.
Il
mare.
Saltò
su come una molla e si mise vicino allo sportello. Scese, uscì dalla stazione e
si trovò in un posto tale e quale una città qualunque, solo che la gente
parlava in modo balordo. Di mare, nemmeno l'ombra. Allora, prese a camminare.
Piano
piano, senza accorgersene subito, tra uno spintone e
l'altro, cominciò a sentire l'odore. Cercò di seguirlo, e così capitò in quella
strada, senza più nessuno che lo spingeva. Teneva le mani nella tasca della
giacchetta e la testa bassa, e provava a figurarsi quel posto dove la terra finisce e l'acqua non finisce mai.
E
l'odore sempre più forte, e quel rumore, adesso, che era il mare. Di sicuro.
Dietro, lontano, c'erano le parole della gente, e davanti, più lontano ancora,
c'era il rumore che chiedeva silenzio: schhhh, schhhh. In mezzo, il suo naso che annusava, annusava, e si
riempiva di quell'odore. Ma gli occhi, il colore del
mare non lo vedevano ancora, ed era buio. Cominciava ad avere freddo, anche. Lì
non era come nei mari del Sud. Meglio trovare un posto. Dormire un po'. Il
colore del mare si poteva vedere domani, col chiaro era anche meglio.
La
mattina dopo, ancora con gli occhi chiusi, stava pensando che era sabato, che doveva svegliarsi e andare a scuola. Sentì
una mano che lo scuoteva e certo non era la mamma, quella. Aprì gli occhi e
vide un tizio chinato sulla sua panchina, divisa e cappello, che continuava a
scuoterlo e chiedeva, serio:
“Tozzi Alessandro?”.
Si
svegliò per bene e fece un cenno con la testa, sì, sì, sono io. “Vieni con me.” ordinò il tizio, sbuffando un po'
e dandogli uno strattone. Si tirò su a sedere, si aggiustò la giacchetta, e poi
si alzò in piedi a guardare il carabiniere. Quello gli fece cenno di andare
avanti, e gli diede una spinta. Lui camminò per due, tre passi, poi si girò e
disse:
“Io
volevo vedere il
colore del mare.” E se ne stette lì, fermo.
Il
carabiniere lo guardò storto, sbuffò di nuovo, alzò gli occhi al cielo e gli
indicò una stradetta, tra due case, che lui la sera
prima non aveva nemmeno notato. Cominciò a camminare piano, col carabiniere
dietro. Quando furono sulla sabbia, l'uomo si mise a scuotere i piedi, a
borbottare e a dire parolacce; infine si fermò. Sandrino lo guardò
interrogativo.
“Vai,
vai… t'aspetto qui.”
Così,
Sandrino Tozzi, classe 1955, undici anni, quasi
dodici, si trovò per la prima volta di fronte al mare.
Si
aspettava qualcosa di meraviglioso, di perfetto. Non lo era. Era molto di più.
Si tolse i mocassini, e i calzini, e fece qualche passo dentro a quell'acqua marroncina, piena di
schiuma bianca, fredda. Respirò quell'odore salso, e
guardò più in là, dove l'acqua diventava blu, e poi verde. Bene. Glielo avrebbe
detto, a Mattia, che aveva ragione.
Respirò
ancora e gli girava quasi la testa. Si
voltò e tornò dal carabiniere.
“Mia
mamma come sta?”
“Sta
bene, sta bene. Va', ora…”
“Mi
arrestate?”
“Eh,
ti arrestiamo… Magari sì, con quello che hai combinato, povera donna. Cammina,
va', giovanotto, che ti si riporta a casa.”
Bene.
Non importava. Tutta quell'acqua era verde come
diceva Mattia, sua mamma avrebbe pianto, e forse lo
avrebbe pestato e di sicuro niente figurine dei calciatori, per un po', e ora
magari lo arrestavano.
Lui,
però, aveva visto il colore del mare.