All’ombra
dell’acacia
di
Mariangela De Togni
Angelina,
era una bambina bionda, dai grandi occhi azzurri. Viveva con la
nonna, da quando aveva perduto la mamma, e la casa, e tutto ciò
che possedevano. Il papà era stato ucciso durante la guerra.
Era Capitano degli alpini. Com’era bello, nella sua divisa e il
cappello con la piuma. Poi, in un tremendo bombardamento, i tre
fratelli, maggiori di lei, rimasero sotto le macerie. La mamma,
allora si salvò, perché era uscita per andare a
visitare una anziana signora. Ma dopo quel dolore, Marianna, così
si chiamava la mamma di Angelina, non si riprese più. Rimase
pallida, pareva senza vita. Il suo bel viso era senza sorriso. E un
giorno, un giorno in cui anche il tempo era triste di pioggia, la
mamma morì. “Consumata dal dolore”, diceva la
gente. Angelina rimase sola, con la nonna.
Vivevano
in una casupola, ora, quasi sulla riva del mare di Levante,
poveramente, ma colma di allegria. La nonna era una donna forte e
piena di fede. Come l’acacia ch’era vicino al torrente,
pareva forte la sua fede.
Ad
Angelina piaceva tanto passare sul sentiero stretto che portava alla
chiesa, colmo di pratoline e miosotis e campanule e minuscoli fiori
gialli e rosa, fermandosi sotto l’ombra frondosa di una vecchia
acacia. Le piaceva il colore perlaceo delle sue foglie, dopo la
pioggia, illuminate dal sole. L’affascinava il suo profumo, e
quegli spicchi di cielo, che si intravedevano, guardando all’insù.
L’orizzonte poi, aveva un fascio di ginestre che si affacciava
proprio sul mare.
Era
una bambina vivace e sempre allegra. Quel giorno, era domenica, si
stava recando, a piedi nudi, saltellando spensierata e felice, verso
il richiamo della campana della chiesa. Però, prima di
giungere sul sagrato, si ricomponeva tutta come una madonnina. Che
avrebbe detto, altrimenti, la nonna? Già era un grande
privilegio, poter arrivare da sola, per un viottolo che ella non
faceva, per non sporcare le scarpe della festa.
A
quella Messa Grande, andavano tutte le famiglie e, da ultima, facendo
finta di attardarsi per chissà quali cose ancora da fare, la
nonna, che senza apparire, seguiva con gli occhi la fanciulla.
Sapeva, quanto piacessero ad Angelina, quelle corse da monella, quei
suoi incantamenti, nel sapore festivo di tutte le cose.
Un
giorno, era domenica anche allora, sotto la pianta che considerava
“sua”, vide una signora; guardò con dolcezza gli
occhi azzurri di Angelina e le domandò un sorso d’acqua.
“Ho camminato tanto, disse, e sono stanca. Vorrei anch’io,
poter andare alla Messa Grande”. Angelina, un poco si stupì,
di quel domandare una cosa che tutti conoscevano, la fontanella era
proprio lì, a due passi. E aveva un’acqua così
fresca e buona! “ Sì, signora, disse invece, gliela
porto subito”.
Corse
alla fontana e riempì la ciotola che c’era sempre, per
chi ne avesse bisogno. Ritornò con l’acqua che un poco
si versava, lasciando dietro di sé come la traccia di un
sentiero, tanta era l’emozione e l’importanza nel
compiere un gesto che il vecchio Parroco diceva essere evangelico:
“Se darete anche solo un bicchiere d’acqua fresca per
amore mio”… Ma quando arrivò, non vide più
nessuno. Rifletté che, forse, era già entrata in
chiesa. E non ci pensò più, fino a quando una sera
fredda d’inverno, era il mese di dicembre, quasi vicino a
Natale, ritornando da scuola, discutendo tra se e se su come fare il
tema che la maestra aveva dato come compito, e poco prima di entrare
dal cancello,vide una macchina ferma proprio davanti alla casa.
Incuriosita, entrò in punta di piedi. Stava salendo le scale
quando si senti chiamare dalla nonna: “Angelina, vieni a
salutare”. Entrando nella cucina, che faceva anche da sala e
che profumava di limone fresco, salutò con un inchino la
signora e quale non fu il suo stupore, nel riconoscere in lei, la
vecchia signora dell’acqua. Ma era proprio lei? O, forse
soltanto le assomigliava?
“La
mia mamma, raccontava, intanto, la forestiera, è morta di uno
strano male, tanti anni fa. Aveva una grave malattia che le portava
sempre una grande sete. A niente sono valsi i medici e le cure più
costose. Neppure i soggiorni al mare. Andammo, anche, come lei aveva
desiderato, al santuario mariano di Lourdes. Morì là,
infatti, serenamente.” Il silenzio, riempì lo spazio
che separava il giorno dal crepuscolo. Poi, rivolgendosi ad
Angelina, le domandò qualcosa della scuola, e se rammentasse
il giorno che vennero, con Gabriella, sua figlia, a raccogliere i
lamponi. La figlia, diceva, era ora, sposata lontana, in Inghilterra.
Dopo
quell’avvenimento, tutto seguì di corsa, come se le cose
avessero una gran fretta di passare.
Angelina
, intanto, cresceva, col cuore buono e generoso. La scuola stava per
terminare e le vacanze arrivavano sempre come una bracciata di
libertà. Quante cose avrebbe potuto fare! Raccogliere fiori e
farli essiccare per poi venderli alle signore. Oppure raccogliere le
bacche per farne delle marmellate. Tutte cose, queste, che aveva
imparato dalla santa di sua nonna. Ma, soprattutto, le piaceva
disegnare e scrivere. In quelle cose, la sua mente e la sua anima si
libravano, allora, in spazi larghi, pieni di meraviglia e di sogni.
Una
sera, mentre aiutava per la cena, all’improvviso la nonna le
domandò: “Angelina, che cosa ti piacerebbe fare, da
grande?” “Oh, vivere con te, nonna, aiutarti.”
“Vedremo!” le rispose pensierosa la donna. E tutto parve
finire lì. Ma il cuore della fanciulla rimase turbato.
Talvolta si scopriva dentro tanta paura. Mai, prima d’allora,
le era stato domandato, una cosa del genere. E cosa mai avrebbe
potuto fare , Angelina, se non vivere con la nonna e poterle essere
d’aiuto sempre?
Il
tempo passava, sulle cose, con le pennellate di colore proprie di
ogni stagione. Angelina divenne una graziosa signorina, e la nonna si
beava di tanta gentile bellezza, della finezza dei suoi modi e spesso
ripeteva: “Quanto assomigli alla tua povera mamma!”.
Ora
non correva più a piedi scalzi sui prati, prima della Grande
Messa. Ora camminava tutta assorta accanto alla nonna. Aveva imparato
a ricamare, a cucire, a confezionare cappelli di paglia per l’estate,
e quei piccoli gingilli con i fiori secchi, che ai villeggianti
piacevano tanto. Le rimaneva, segreto, il bisogno di scrivere e di
disegnare. Ma lo faceva quando nessuno poteva vedere, un po’ di
nascosto.
Era
la sera del 10 agosto. Aveva ricordato la poesia di Giovanni Pascoli
e guardando in cielo, le parve anche, di scorgere la scia luminosa di
una stella cadente. Quel giorno, la nonna, non si era sentita tanto
bene. Ma, non sembrava una cosa grave. Si disse che il giorno dopo,
sarebbero andate da Sr. Rosaria, amica della nonna, a domandare
qualche consiglio. Infatti, il mattino dopo la nonna si alzò,
come sempre faceva, di buon mattino, per non perdere la Messa.
Andarono assieme e dopo, scesero il sentiero che portava al
Monastero di S. Chiara. Quale non fu la gioia di Sr. Rosaria nel
rivedere la nonna e Angelina. Si guardarono con uno sguardo intenso e
penetrante. Quante cose si dissero le due anziane donne! Poi,
passarono nella Cappella del Convento. Era l’ora Terza.(Com’era
bello quel canto!) E Angelina si trovò a meditare sul bel
salmo: “Mio rifugio e mia salvezza è il Signore, di chi
avrò timore?” Ripiegò nel cuore con cura, quelle
parole.
La
funzione terminò e la nonna si accostò all’orecchio
di Angelina per sussurrarle: “Aspettarmi qui, un momento, devo
dire una cosa ancora, a Sr. Rosaria”. E Angelina, pronta,
ricordò alla nonna di parlare anche del suo malessere. Si
sorrisero, mentre accennava di sì, con il capo. Rimase sola,
nel silenzio profumato d’incenso dell’antica Cappella.
Angelina,
conosceva a memoria i riflessi cupi degli archi a tutto sesto che
servivano la parte esterna del Monastero. Così come aveva
imparato le sfumature e il riverbero che la luce timida nel nascere
del giorno si stagliava sulle finestre tardo gotiche della chiesa.
Tenue
il canto del lilla duettava al rosa antico nello spegnersi
malinconico dell’estate. Settembre manteneva il suo sapore
unico, poiché nessuna stagione dona così tanti colori
al mare, che pare acquietarsi, quasi addormentarsi in un lento
sciabordio.
Quella
mattina l’aria era densa e luminosa e le voci mescolavano
idiomi e profumi. Un solfeggio antico, nello scorrere dei pensieri
che conservavano un mondo intatto di poesia, vivendo di riflesso
parole e promesse. Angelina, sola, si attardava ad ascoltare il
silenzio delle pietre. Condensava l’Amore e il senso estivo
delle siepi di mare e il sale che al tocco si sbriciola in polvere.
Non
s’avvide dello sguardo triste della nonna, nell’entusiasmo
caldo che sapeva bastare al cuore. L’immagine e il suono che a
stento conteneva i suoi profili e la sua voce, si perdevano dentro
l’inchiostro ritorto dei capelli dell’autunno, come
canestri di bambagia.
Il
pensiero spioveva in preghiera, da un tempo di resina e sale. In una
luce smorta per mano di una stagione solitaria. Le mani plasmavano
poesia. Qualche passo ancora e si sarebbero trovate sulla soglia di
casa.
Era
rimasto poco dell’elegante Signora di tanti anni prima, poco
era rimasto in quella donna un po’ curva e silenziosa, oggi,
che sembrava conoscere a memoria solo la strada che portava al
convento.
Era
come se raccontasse nei passi stanchi la sua solitudine, nascosta tra
le pieghe dell’anima, come se la vita avesse spremuto dai suoi
occhi l’ultima luce, lasciando spazio a un lutto profondo e
irrinunciabile. Si volse a guardare Angelina, temendo che la sua
tristezza fosse palese anche agli occhi della fanciulla. E’
sempre difficile stabilire la stagione, per manifestare una
rassegnazione.
Intanto,
compiaciuto alle stravaganze che la luce si divertiva a indossare,
acciambellato su una vecchia sedia, Gervasio, sembrava dormire, ben
sapendo di apparire, nel mantello, un felino di rara bellezza. Con
quel taglio a mandorla di sovrana indifferenza. Si metteva diritto
sulle zampe e, inarcando la schiena, scuoteva l’inerzia della
sua natura. Poi, per salutare, si sperticava in uno sbadiglio. Non si
poteva, allora, negare una carezza, a quel suo manto lucido, anonimo
e misterioso.
Angelina
rimaneva sempre incantata da quel gatto vecchio, eppure ancora
attento a ciò che lo circondava. Le sue fusa erano la musica
più tenera che potesse ascoltare.
Mentre
ancora assaporava il pensiero di tenerezza che suscitava in lei, il
gatto abbandonò la sua postazione. Lei lo raccolse fra le
braccia e cominciò a parlargli prima che i suoi occhi verdi si
aprissero alla penombra e ai profumi della casa.
Nulla
era scritto nell’aria mite di quell’inizio d’autunno.
Ma da lontano, come sospinte da un refolo leggero, giunsero in
risposta al pensiero che le faceva nodo alla gola, le parole che, la
nonna, aveva sempre temuto: Angelina era malata. Sr. Rosaria, glielo
aveva fatto capire, quella mattina. Anche se, apparentemente, nulla
lo faceva presagire. “Il cuore” le disse in un sussurro
l’anziana suora. “Come la sua mamma”.
La
donna tentò una sortita di cuore per non affogare dentro la
tentazione di una promessa, ma l’ambra risaliva la china di un
nero a righe verticali e il denso intuire del suo profumo le fece
accettare il dolore dalle mani di Dio.
Angelina
fu portata nel camposanto che era vicino all’acacia, in una
giornata piena di sole. Pareva che anche la natura si fosse
inghirlandata a festa, per accoglierla. “Un fiore bianco,
disse il Parroco, giace ora, sotto l’ombra di quella immensa e
bella acacia, che lei amava tanto”.
Mentre
l’anziana donna nel suo vestito nero si allontanava da quel
luogo dove sapeva che anche lei un giorno non lontano, avrebbe
riposato, un’allodola, levò il suo canto, nascosta
chissà dove. E mentre il calmo sciabordare dell’acqua
mossa appena dalla brezza, rompeva l’indugio della quiete,
sembrava snodarsi nell’aria e sotto le volte del pontile, le
note fluide di un flauto in un semplice adagio.
Qualcosa
mancava per sempre, affidata all’azzurro del cielo lasciando
traccia del suo sguardo, ma solo per una gioia minuta di profonda
luce.
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