Tornavento
e la Malpensa
di
massimolegnani
C’è
questa piazzetta di platani bianchi e ciottoli ben messi che fa da
balconata sul Ticino e i suoi canali. In lontananza la sagoma
maestosa del Monterosa e la corona candida delle Alpi. Ha un nome
suggestivo questo luogo, Tornavento, che fa pensare a folate
d’aria di ritorno che improvvise scompigliano ogni cosa e poi
si quietano.
Ci
venivo a volte da studente, in quella mia età stupida in cui
preferivo il motore ai pedali, il vino alle parole, la notte al
giorno. Era un luogo strano, meta e limite del nostro andare, si
arrivava fino a lì come a un minimo finisterre, che
oltre il fiume si stendeva il buio, si percepiva un’altra terra
e si annusava il futuro incerto.
La
Malpensa, lì vicino, era uno scalo secondario, pochi gli aerei
che si levavano di notte. Noi stravaccati sulle seggiole seguivamo
con lo sguardo intorpidito quei lumini rossi che punteggiavano il
buio e poi sparivano, non diversi dai nostri pensieri intermittenti,
accennati e subito scordati. Correva voce che la Malpensa sarebbe
diventata un aeroporto faraonico. Questo posto sparirà,
ci dicevamo come ci importasse qualcosa del bello e
dell’incontaminato tutto attorno a Tornavento. In realtà
di quel posto conoscevamo unicamente l’osteria dove ci piaceva
contarcela e dare forma all’inquietudine, aiutati in questo da
pane, salame e una bottiglia.
Ora
ci passo spesso, in pieno giorno, pedalando sull’alzaia del
Naviglio Grande o sullo sterrato che costeggia il Villoresi. È
diventato per me un punto di sosta e di sguardi curiosi intorno,
fatti con decine d’anni di ritardo. Finalmente noto la vecchia
chiesa priva di pretese, i platani che nel frattempo si sono fatti
imponenti, vedo un bar dove prima c’era l’osteria, una
fontanella dove dissetarmi che un tempo non ci avevo mai bevuto. Solo
vino sciocco, allora. E vedo gli aerei, tanti, che arrivano e partono
da quello che è effettivamente diventato l’aeroporto
principale di Milano.
Malpensa
e Tornavento hanno trovato un equilibrio di convivenza o forse l’ho
trovato io per loro, accettando di questi due luoghi contrastanti la
necessità del presente e la bellezza del passato. Più
delle piste per gli aerei, che non vedo ma so poco lontano, ho
simpatia per la strada di terra battuta qui nella boscaglia dove un
tempo i cavalli trasportavano i barconi di ritorno verso il lago in
un tratto in cui era impossibile trainarli dall’alzaia.
Guardo
sotto di me il Naviglio e mi sembra ancora di vederli quei barconi
scivolare placidi sull’acqua a rifornire Milano di marmo e
grano.
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