Jan
Janácek
di
Grazia Giordani
Erano
diventati un’ossessione quei versi che le martellavano dentro
come un réfrain irrinunciabile. Tempo addietro, aveva letto un
racconto di E. Allan Poe – uno degli scrittori da lei
maggiormente amati – in cui il protagonista ripeteva, in
maniera malata, la stessa parola, fino ad annullarne il significato.
Ora le stava accadendo lo stesso fenomeno con quei versi (Uomini che
sopra oscuri ponti camminano/dinanzi a santi dai fiochi lumini./Nubi
che sopra il cielo grigio passano/dinanzi alle chiese/dai campanili
che imbrunano./Uno che al parapetto squadrato si appoggia/e guarda
l’acqua serale/le mani su vecchie pietre.)
In quell’aprile
strano, trafitto da nubi italiane frequenti e minacciose, Praga li
aveva accolti in uno sfavillare di sole acceso, più
mediterraneo che mai.
L’appuntamento con la guida era al
Ponte Carlo. Dall’albergo, a quel luogo di tenebrosa bellezza,
sarebbero dovuti arrivare in taxi, tanto ormai, nella capitale
vltavina sono in parecchi a conoscere la lingua di Dante che
pronunciano regalandole una slava durezza.
Jan Janácek li
aspettava appoggiato al parapetto.
Di media statura, si muoveva
in maniera legnosa, con il gestire di una marionetta triste.
L’azzurro metallico dei suoi occhi brillava dentro una raggiera
di piccole increspature, segni precoci di un tempo per lui non ancora
passato. La bocca era una linea netta, quasi una ferita rimarginata
senza sanguinare, da cui usciva una voce aspra, vetrosa, inadatta a
pronunciare l’italiano che – svisato così negli
accenti e nelle doppie – prendeva una allure straniera, che
sarebbe stata buffa e persino divertente, se non fosse stata
pronunciata da un uomo tanto serioso.
Dopo l’autopresentazione
un po’ goffa e tirata, recitò – ritenendoli più
che mai adatti a quella fermata sul ponte – i versi che
martellavano dentro a lei (diamole ora un nome di fantasia che
potrebbe essere Anna, se così vi piace), prima in lingua ceca
e poi tradotti in italiano.
«Chi è l’autore?»
- chiese Anna che riteneva quasi miracolosa la coincidenza fra il suo
ossessivo ritornello interiore e la citazione della guida.
«Kafka»
- Rispose, laconico Jan.. Li ha scritti in una lettera del 9.11.1903
a Oskar Pollak.
Nessuno degli altri partecipanti al viaggio
organizzato chiese nuove precisazioni. Più che altro
sembravano interessati ai souvenir, venduti su quel ponte carico di
storia e di arcana bellezza, tutti presi dallo scattare foto ricordo
ai piedi delle statue patinate da un’inesorabile Storia.
La
breve crociera sulla Moldava, attraversando la chiusa, scompigliò
i riccioli delle anziane signore che – pavide – si
riparavano con gli inutili parapioggia, come se il sole praghese
potesse offendere una pelle già abbronzata dalla loro vita di
campagnole.
Questo sottolineò la guida, lasciano Anna
nella più completa indifferenza, come se viaggiasse per conto
suo e fosse lì soltanto per caso. Spesso, nella vita, era
toccata da questa casualità, un po’ come se fosse una
diversa che viveva guardando il mondo altrui, senza appartenervi del
tutto, invidiando forse un poco la semplicità del suo
prossimo, accanto a lei.
***
Ora, in un flash
improvviso, tornata in patria, ripensava a quel Viaggio – sì,
proprio scritto con la lettera maiuscola – e in una strana
dissolvenza, aveva l’illusoria visione di Jan Janácek
che entrava in una statua sul ponte, perdendo, per incanto, la sua
umanità.
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