Il
pirata del Buon Gesù e il miraggio del lago
di
massimolegnani
Pochi
giorni or sono, saltabeccando da un blog all’altro come un
passerotto in cerca di briciole, sono capitato da Max il poeta
(https://paginequotidiane.wordpress.com)
dove ho trovato parole e immagini che mi hanno subito conquistato.
Max raccontava di una valletta appartata, ramificazione della Val
d’Ossola, e di un laghetto alpino tra i più belli. Ho
guardato le fotografie e subito ho deciso che quella sarebbe stata la
mia prossima gita, scompaginando i programmi precedenti.
Qualcuno
sostiene che i laghi sono diventati la mia idea fissa a un livello
maniacale, come un collezionista mezzo rimbambito che non parli
d’altro che di francobolli rari, ah il “Gronchirosa”
come mi piacerebbe possederlo. Il fatto è che i laghi non
sono evanescenti come i mari che, senza confini, si continuano uno
nell’altro e tu non ci puoi girare attorno, i laghi hanno un
perimetro tangibile e una dimensione umana, adatta ai miei piedi, i
bacini più piccoli, o ai pedali, quelli più grandi.
Così,
dopo aver studiato cartine e meteo, giovedì scorso sono
partito alla volta del Lago d’Antrona, 250 chilometri circa tra
andata e ritorno, in due, massimo tre giorni, avrei completato il
giro. Giornata stupenda, l’aria del primo mattino ancora
frizzante, il sole basso a scaldarmi le spalle, ho iniziato con una
pedalata tranquilla, era la mia prima uscita “lunga” dopo
la rovinosa caduta di fine luglio e volevo distribuire bene le mie
forze. Stavo ritrovando l’emozione del viaggio, mi sentivo
bene, tutto era perfetto. Ma è durato poco.
Lungo
il rettilineo del BuonGesù, a pochi chilometri da casa,
un’auto nello svoltare a sinistra dalla carreggiata opposta non
mi dà la precedenza e mi centra in pieno. Volo per qualche
metro e atterro di schiena sul marciapiede urtando violentemente il
fianco sul cordolo. Mentre io, sbalordito per quanto è
successo, resto disteso per capire se ho qualcosa di rotto, il
signore che mi ha fatto questo bel regalo se la svigna. Gli auguro
che il dubbio di avermi provocato seri danni e il rimorso per non
essersi fermato gli popolino di incubi le notti insonni di qui
all’eternità. Ma non sarà così, i pirati
hanno la pellaccia dura e la coscienza tenuta sotto chiave.
Quindi,
gita finita? A dir la verità, no. Dopo essere stato soccorso e
medicato da un infermiere che passava di lì, provo a
rimettermi in sella. La cosa più ragionevole sarebbe
tornarmene lemme lemme a casa, ma non voglio darla vinta alla sfiga.
Così, senza forzare e cercando una posizione che non mi
provochi dolore, proseguo nella direzione stabilita come se niente
fosse successo. Un venticello gentile mi spinge alle spalle e il
pensiero del lago che mi attende, intenso come un miraggio nel
deserto, mi rende agevole la pedalata. Macino chilometri con
inaspettata facilità e mi accorgo di andare addirittura più
veloce del solito, sono avvolto da una strana euforia, mi sento
invincibile e, se non fosse per il dolore al fianco, la caduta sembra
un pallido ricordo.
Solo
quasi in prossimità dell’imbocco della Valle Antrona mi
rendo conto che sto viaggiando a frequenze cardiache spropositate,
come se non fossi in pianura ma sui tornanti dello Stelvio. La prima
idea è che il cardiofrequenzimetro si sia guastato nella
caduta, ma è un’ipotesi che non regge, gli altri dati
che mi fornisce l’apparecchio sono attendibili. Mi fermo e
attendo che il battito torni normale, ma come riprendo a pedalare
ecco che la frequenza sale vertiginosamente. Ripenso alla caduta, al
dolore al fianco e mi assale il dubbio che la tachicardia sia il
segno di un’emorragia interna che va aggravandosi di ora in
ora. È evidente che con questo timore non posso affrontare la
salita. Il miraggio del lago sfuma all’orizzonte e mestamente
mi avvio verso Domodossola e il suo ospedale.
Il
resto è cronaca: la sollecitudine del personale, l’inevitabile
cazziatone in coro di medici e infermiere (quindi lei dopo la
caduta ha pedalato per 100 chilometri, cos’è, matto??),
gli esami a cui vengo sottoposto in rapida successione, prelievo,
ecg, radiografie di torace e bacino, eco dell’addome, l’attesa
dei risultati disteso sulla barella con la convinzione di finire
direttamente in sala operatoria. Invece gli esami sono tutti normali,
l’emorragia è esclusa come pure problemi cardiaci. Che
cosa sia successo è un mistero. L’ipotesi più
probabile è che lo stress per la caduta e forse anche un urto
diretto sul surrene abbiano provocato un’abnorme e prolungata
liberazione di adrenalina che spiegherebbe la tachicardia e la
insensibilità al dolore e alla fatica. Comunque sia, vengo
trattenuto qualche ora e a sera sono dimesso.
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