Area riservata

Ricerca  
 
Siti amici  
 
Cookies Policy  
 
Diritti d'autore  
 
Biografia  
 
Canti celtici  
 
Il cerchio infinito  
 
News  
 
Bell'Italia  
 
Poesie  
 
Racconti  
 
Scritti di altri autori  
 
Editoriali  
 
Recensioni  
 
Letteratura  
 
Freschi di stampa  
 
Intervista all'autore  
 
Libri e interviste  
 
Il mondo dell'editoria  
 
Fotografie  
 
 
  Poesie  Narrativa  Poesie in vernacolo  Narrativa in vernacolo  I maestri della poesia  Poesie di Natale  Racconti di Natale 

  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La mia famiglia patriarcale, di Sergio Menghi 31/07/2021
 
La mia famiglia patriarcale

di Sergio Menghi



Voglio subito premettere che io disconoscevo il significato di questo aggettivo, patriarcale, fino a quando lo trovai scritto in una nota di referenza fattasi in occasione della mia assunzione al lavoro dall'allora proprietario del fondo dove mio nonno aveva lavorato con la sua famiglia per oltre quaranta anni.

Mio nonno io non lo vedevo proprio come un patriarca, questo aggettivo lo coniugavo piuttosto alla figura del patriarca di Venezia che poi divenne Papa Giovanni XXIII. Però, a ben guardare, i tratti salienti del Papa appena accennato, bontà, poesia, allegria erano comuni con quelli di mio nonno, specialmente con i nipoti, forse in modo particolare con me che ero il primo arrivato in famiglia.

È il caso di precisare che altri nipoti c'erano prima di me, ma nati da figlie che, sposate, si erano poi trasferite nell'hinterland romano a seguito di quel processo di spopolamento delle campagne ed al conseguente trasferimento in grandi città come Roma che, restando relativamente vicina al mio paese di origine, permetteva di mantenere facili relazioni con il nucleo centrale.

Tale nucleo si costituì intorno ai primi del novecento con l'assegnazione in conduzione a mezzadria di un fondo di circa 17 ettari in località Mergnano San Savino nel Comune di Camerino. Era composto da tre figli maschi, requisito fondamentale per condurre manualmente un fondo di quelle dimensioni, e da una femmina, rispettivamente in ordine di età: Nazzareno, Ulderico, Gino e Anna.

Era una famiglia orfana di padre, prematuramente scomparso, non so se avessero tutti contratto matrimonio quando avviarono questa attività, nonno però raccontava che la più piccolina, Anna, mal si adattava a quella vita piuttosto dura e quindi decisero di farla educare in un collegio nel capoluogo di provincia che dista una cinquantina di km. Quel distacco, come tutti i distacchi, non deve essere stato piacevole, ma lo spirito di sacrificio non è mai mancato nella nostra famiglia ed alla fine non sono mai venuti meno i risultati.

Nel caso specifico la zia Anna, Annina perché piccola di statura, conseguì il diploma magistrale, insegnò a Macerata conquistando una notevole stima ed una rispettata posizione sociale, ma soprattutto è stata la mia mentore per farmi ingranare negli studi, instaurando un rapporto epistolare, quasi settimanale per abituarmi alla scrittura ed ai modi gentili, come si conviene in una società civile. Diceva sempre che avrei dovuto essere di esempio per gli altri nipoti. Nei pochi incontri che abbiamo avuto mi trattava come un principe, mi accompagnava nei migliori negozi, mi presentava come il suo primo nipote e mi acquistava regali, per lo più articoli di abbigliamento.

Il passaggio alle scuole medie è stato duro per me che venivo dalla campagna e mi ero formato un carattere un po' poco comunicativo, tanto diverso da quello vivace e preparato dei ragazzi di città; lei mi procurò una supplente, sua ex allieva, in grado di comprendere la mia cultura e di permettermi di aver maggior profitto dalle lezioni che mi impartiva. Lei scelse anche l'indirizzo da seguire nelle scuole superiori.

Mio nonno era molto contento della premura mostrata da questa sua sorella che per molto tempo e per motivi contingenti era rimasta lontana dalla cultura rurale; non mancava di ricordare che il suo successo era in parte dovuto anche al sostegno economico dato dai fratelli nel periodo della vita collegiale. Dopo sposata i contatti erano stati più frequenti perché il marito possedeva una bella automobile, credo Fiat 509, amava la vita di campagna ed il modello di famiglia agricola, la zia Annina, invece, era di indole riservata e distaccata nonostante le mode esuberanti che cominciavano a proliferarsi con l'avvento del fascismo.

Ebbe due figlie entrambi professoresse, entrambi sposate con persone di primo piano nel tessuto sociale maceratese, ed un nipote. Quando morì al suo funerale ci andammo io e mio padre accompagnati da un amico che possedeva una Fiat 500 chiamata topolino. Ora riposa nel deposito di famiglia presso Urbisaglia, ridente cittadina che prende il nome dal latino: 'urbis salviae', città della salvia. Mi sono molto dilungato sulla zia Annina perché la credo, infrangendo la regola che vede nel maschio più anziano il capo della famiglia patriarcale, non l'unica ma una importante componente della mia formazione iniziale che ancora mi accompagna nei miei giorni.

Adesso mi corre l'obbligo di descrivere i ricordi degli altri componenti. Lo zio Nazzareno sicuramente ricoprì la carica di capo per il tempo in cui rimase nel podere. Era intelligente, astuto, di facile comunicativa, affidabile. Per tutte queste qualità sarebbe stato sprecato nel lavoro massacrante dei campi ed infatti svolse per molto tempo il lavoro di fattore, in pratica un amministratore dei fondi rustici di diversi proprietari che gli riconobbero stima e fama in larga parte del territorio, anche a livello provinciale.

Era sempre in movimento, forse i primi tempi, avrà usato quel calesse trainato da cavalli che avevo trovato nella rimessa e con il quale giocavo, poi fu il primo che portò nella casa rurale una fiammante moto Guzzi 500 che risvegliò le menti dei figli e nipoti maschi presenti e già grandicelli per sperimentare le irrefrenabili emozioni. C'era Pietro, figlio, unico maschio, ma ultimo di tre sorelle più grandi: 'Maria, Chiara detta Chiarina poi abbreviata in Rinuccia, Laura detta Laurina' che avevano lasciato la casa convolando a felici nozze.

Mio padre Pacifico, primogenito di Ulderico, esperto di motori, il più grande dei figli maschi, forse con l'ironia della classica volpe che si consolava maldicendo se non riusciva a raggiungere il suo scopo, raccontava che lo zio Nazzareno, detto Neno fece il primo viaggio in moto da Sambucheto, vicino Macerata, a casa tenendo ingranata la sola prima marcia, non sapendo come si facesse a cambiare; di conseguenza all'arrivo' il motore era rovente ed emanava fumi da ogni parte. Già tanto, aggiungo, che lo zio sapesse tenere l'equilibrio perché di bici non se ne vedevano molte ed io, per poter imparare, dovetti tirar giù dalla soffitta una vecchia Bianchi e ripararla. Tutti temevano che mi rompessi l'osso del collo. Tuttavia la moto piaceva anche a zio Venanzio e alle altre figlie di mio nonno Ulderico che erano ancora in casa, in particolare alla zia Anna, di carattere vivo, sportivo e forse anche un po' spericolato, mentre la più piccola Nilde mostrava interesse per altre cose più femminili: l'estetica, il ballo, la musica.

Per completare il quadro delle figlie più grandi di nonno Ulderico e nonna Fermina anche loro, all'epoca dei fatti, convolate a nozze, cito, con i rispettivi consorti: Ersilia e Paolo, Marina e Lino, trasferitesi rispettivamente nei pressi di Montecelio e Roma. Anche su questi nuclei familiari dovrei dire molto per quanto concerne il sostegno datomi in occasione del mio lungo peregrinare prima di trovare una definitiva sistemazione a Roma con la mia famiglia.

Questo lo dico per ribadire la forza di integrazione che conteneva la famiglia patriarcale che va ben oltre la semplice definizione che vede in essa un modello retrograde ed arcaico dove le libertà e la crescita individuale era fortemente compromessa. Secondo me erano le precarie condizioni economiche e sociali del periodo postbellico a creare quelle situazioni di arretratezza e la famiglia patriarcale ha contribuito a superarle nel migliore dei modi; come pure a fronte dell' accresciuto benessere individuale dei nostri giorni non ha fatto sempre seguito la ricchezza dei valori contenuti nella famiglia.

Da quanto fino ad ora detto emerge che la famiglia patriarcale, proprio per la sua natura ampia, cioè composta da numerosi componenti, tenuti uniti da uno scopo, in prevalenza quello della coltivazione di un fondo non di proprietà, con un contratto di mezzadria dove il compenso era l'abitazione per i componenti della famiglia e la metà dei frutti del fondo, era molto esposta ai mutamenti ambientali e sociali peraltro in rapida evoluzione. Già il semplice fatto che non nascessero maschi era elemento perturbante e causa di scissioni all'interno del nucleo familiare allargato che la componeva.

L'avvento della meccanizzazione, poi, determinò il crollo definitivo della mezzadria ed il passaggio alla conduzione diretta, con una breve parentesi nelle zone montane dove si sviluppò, con il favore di una politica momentanea, la piccola proprietà contadina che consentì alle famiglie agricole, ma sempre meno patriarcali, di sopravvivere, non senza crescenti difficoltà, fino alla definitiva scomparsa dei componenti più anziani. Le nuove generazioni avviarono attività nel terziario, artigianali e commerciali, favorite dal boom economico degli anni '60, oppure, e questo è il mio caso, terminati gli studi e conseguito il diploma, migrarono nei centri urbani più grandi che richiedevano personale.

Tornando a parlare della mia famiglia direi che il primo dei tre fratelli a dover decidere per la divisione fu Gino che, guarda caso, aveva tre figlie femmine: Maria, Ines e Amelia e che io, purtroppo, non ho nemmeno conosciuto. Poi seguì Nazzareno che con la sua prevalente attività di fattore aveva avuto l'opportunità di acquisire un palazzo nel centro di Camerino ed un piccolo terreno nelle immediate vicinanze, dove trasferì la sua famiglia per il tempo necessario al figlio Pietro di trovare una nuova occupazione in attività commerciali. Io ricordo, in particolare, che mio nonno mi portò insieme a lui al capezzale di suo fratello agonizzante, forse volendomi far comprendere come deve essere affrontata la vita nei momenti più difficili. Dico pure che non mancai di giocare un po' con la cugina Gabriella di quattro anni.

Mio nonno ora era divenuto lui il capo della famiglia patriarcale ed insieme alla nonna Fermina, ai due figli maschi e relative consorti, mia madre e zia Lina, le ultime due figlie ancora da sposare, zia Anna e zia Nilde, io e mio cugino Raoul, mia sorella Anna e mia cugina Maria Rosita siamo rimasti nella casa colonica di Mergnano San Savino fino al 1956. Questo periodo non é alieno di ricordi, proverò a descrivere i più significativi. Tra questi, c'era il matrimonio delle due zie Anna e Nilde e, come d'uso, il primo pensiero di mia nonna era quello di provvedere al corredo nuziale che veniva prevalentemente preparato e lavorato in casa.

Si iniziava con la semina del lino e della canapa in primavera in prossimità del campo denominato 'i rotelli' che aveva le necessarie qualità per far crescere ed essiccare bene al sole le coltivazioni. Di queste piante si scartava l'inflorescenza, o forse si usavano come mangime per il pollame, non si conoscevano gli effetti analgesici dei semi di canapa e non era proibita la coltivazione, mentre i semi di lino venivano usati per impacchi come antidolorifico, oggi sono largamente usati nell'alimentazione biologica. Alla raccolta si confezionavano dei grossi fasci che venivano portati a macerare nell'acqua del fiume Palente, che scorre al confine con il campo allora denominato 'li piani', oggi interamente coperto da impianti sportivi.

La macerazione durava qualche mese, quindi ad Agosto dopo l'essiccazione al sole, si estraeva la fibra con un attrezzo chiamato 'ciaola' dal suono che emettevano le fibre, come se ciacolassero, cioè discutessero mentre erano battute. Le fibre, annodate in mazzi, venivano poi lavorate nei mesi invernali con la filatura e la torcitura, sempre con attrezzi fatti in casa, 'la conocchia e lu birillu' e con l'abilità di esperte mani femminili. Il filo veniva attorcigliato in matasse e poi, con un altro attrezzo, 'lu filarellu' si ottenevano dei rocchetti che entravano nella 'spoletta' del telaio e costituivano la trama, mentre l'ordito era fatto da fili di cotone acquistati in grossi pacchi alla fiera del 25 Agosto a Castelraimondo.

Con questi fili ed altrettanti attrezzi veniva montata la trama del telaio. Mia madre e mia nonna erano le persone più adatte a tessere la tela e, nei mesi invernali fino all'inizio della primavera si alternavano, anche per lunga parte delle ore notturne, in questo lavoro, riscaldandosi con catini di brace. Talvolta io andavo a far compagnia a mia madre che mi faceva sedere al suo fianco e mi dava qualche spiegazione, pregandomi di non avvicinarmi tanto per evitare che mi colpisse con gli energici movimenti delle braccia.

Venivano prodotti metri e metri di tessuto grezzo che poi, nei mesi primaverili, dovevano essere sbiancati a base di lavaggi con la 'liscivia', un composto di sapone e cenere in cui si bolliva il tessuto grezzo. Il lavaggio ed i risciacqui venivano fatti ancora presso il fiume Palente, nei pressi di un vecchio Mulino dove le acque erano poco profonde e si espandevano in larghe pozze cosparse di grosse pietre sulle quali venivano battuti i teli.

Poi c'era l'esposizione al Sole caldo di fine giugno che conferiva al tessuto un bianco immacolato e spiccava da lontano sui prati ancora verdeggianti. Qualche volta poteva accadere che mamma oca o mamma papera, portando a passeggio la loro nidiata di giovani anatroccoli, attratti dalla freschezza e dal candore di quei teli, andassero a depositare le loro impronte, ma accadeva di rado perché mia nonna, che li accudiva, sapeva dare i giusti comandi e loro li rispettavano.

Quei teli sarebbero poi diventati lenzuola ricamate ed altri indumenti del corredo nuziale. Io ho ancora la fortuna di dormire su alcuni di questi teli che, specialmente nei mesi caldi, danno una sensazione di freschezza incomparabile con quelli commerciali.

Un ultimo ricordo prima di chiudere lo vorrei riservare all'abbigliamento femminile che è stato da sempre una passione, ma anche una preoccupazione per la giusta scelta in occasione delle feste ricorrenti, tenendo conto dei cambiamenti della moda e delle sensazioni che il personaggio femminile voleva procurare nelle persone che avrebbe incontrato.

Ebbene il crogiolo in cui si fondevano e si realizzavano i sogni era il laboratorio artigianale delle signorine Maria e Lucia, detta Luscetta, quest’ultima, leggermente claudicante, era destinata dalla sorella ai compiti prettamente esecutivi, infilare l'ago, imbastire, scucire, adempiere alle faccende domestiche, mentre Maria si riservava i compiti di consulenza alle clienti, aveva argomenti convincenti per ciascun tipo di persona. Era difficile che le clienti uscissero insoddisfatte, anche perché nel paese non vi era concorrenza. Quando il lavoro era fatto partecipava in pompa magna, insieme alla sorella, alle funzioni religiose, che erano il luogo principale d'incontro, ed al termine, sulla scalinata della chiesetta gremita di persone, si congratulava con ciascuna delle sue clienti enfatizzando l'ottima figura dell'abito da loro confezionato.

Io venivo spesso portato dalle mie zie o da mia madre e mia nonna a questi incontri e avevo il tempo di memorizzare tutto, ed ero anche divertito come si evince da questi particolari che sono una piccola parte, e più scavo più affiorano.

Così, nel piccolo borgo del mio paese rurale brillavano due stelline: le sorelle Maria e Lucia, che facevano già parte di quel più ampio universo del mondo della moda, a cui potrei aggiungere le sorelle Cianni che, a Camerino, confezionavano camicie su misura ed anch'io ho avuto il pregio di indossare, per finire citando, solo a titolo di massima gloria, le sorelle Fendi delle quali, tra l'altro, opera qui a Roma l'omonima fondazione, a rendere d'imperitura memoria quel mondo galattico.


 
©2006 ArteInsieme, « 014036740 »