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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  I disperati di forte Alamo, di massimolegnani 15/10/2021
 
I disperati di forte Alamo

di massimolegnani



Erano in cinque a spartirsi i rami bassi delle querce che ogni pomeriggio cavalcavano scorticandosi le cosce per inseguire gli indiani o radunare le mandrie sperse. Ognuno di loro aveva il proprio ramo, sempre quello, a cui aveva dato un nome di poca fantasia, Fulmine, Turbine, Lampo, Briciola. Antonio che aveva una cultura da Enciclopedia dei Ragazzi, aveva battezzato il suo: Potomac.

Potomac? Ma cos’è? Chiesero in coro gli altri, lui scrollò le spalle con sufficienza, un fiume americano che ha conservato l’antico nome indiano.

A Camillo Antonio stava proprio antipatico, ne sapeva e ne faceva sempre una più degli altri, e quell’una gliela faceva pesare come piombo. Insomma Antonio era un capo nato e ogni giorno Camillo sperava di potergli scaricare addosso i sei colpi della sua colt.

Un pomeriggio Antonio si presentò con in testa un buffo berretto di pelliccia con una lunga coda ad anelli, disse di averlo rubato a suo fratello maggiore. Oggi io sono Davy Crocket e voi i miei amici texani. Dobbiamo difendere Forte Alamo dall’attacco dei Messicani. Di Davy Crocket qualcosa sapevano, almeno il nome, ma i Messicani? Avevano sempre diviso il mondo dei giochi in indiani e cowboy, che c’entravano i Messicani? Nessuno dei quattro però osò contestare la decisione del loro capo che, ormai calato nella parte, dichiarò: nonostante il nostro eroismo, prima di domani saremo tutti morti.

Così per settimane giocarono alla battaglia di Alamo e ogni giorno dovevano morire e restare stesi a terra, possibilmente immobili, mentre Antonio si prendeva l’intera scena, morendo per ultimo, naturalmente da eroe.

La cosa che più mandava in bestia Camillo era quel copione già scritto da cui non si poteva sgarrare: iniziavano a giocare e Davy Crocket subito ricordava agli altri che loro sarebbero stati sconfitti e uccisi. E così accadeva ogni volta, con buona pace della fantasia dei vecchi giochi dove fino all’ultimo non si sapeva chi avrebbe vinto e i cinque si chiedevano vinceremo noi o gli indiani?

Mezzo secolo per dimenticarsi di Antonio e dei giochi dell’infanzia e Camillo in effetti se ne era scordato da tanto tempo. Ma questo gioco gli tornò indietro come un boomerang nel modo più incredibile, sotto forma di incubo ripetuto quasi ogni notte nel momento più delicato della sua vita.

Sognava, Camillo, la battaglia, lo scenario era un fort Alamo rivisitato tra gli alberi dell’infanzia, i volti erano quelli degli amici di allora che però si alternavano come maschere a volti più recenti. Tutti, prima o poi, venivano colpiti da proiettili invisibili, chi in pancia, chi alla gola, Camillo in pieno petto.

Ferite che dovevano essere mortali, eppure nessuno moriva. Lui si guardava intorno e vedeva gli amici stesi per terra che uno dopo l’altro si rialzavano e riprendevano a combattere. Lui stesso sparava all’impazzata contro nemici senza volto (erano questi i “Messicani”?).

La nota fondamentale dell’incubo, quella su cui la sua psiche insisteva ossessivamente, era che non c’era alcun sollievo nella sopravvivenza, era solo un rinvio della morte. Ed era una constatazione così assoluta e disperata che ogni volta a quel punto Camillo si svegliava di soprassalto, angosciato.

In testa gli rimbombava l’antica frase, domani saremo tutti morti.



 
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