I
disperati di forte Alamo
di
massimolegnani
Erano
in cinque a spartirsi i rami bassi delle querce che ogni pomeriggio
cavalcavano scorticandosi le cosce per inseguire gli indiani o
radunare le mandrie sperse. Ognuno di loro aveva il proprio ramo,
sempre quello, a cui aveva dato un nome di poca fantasia, Fulmine,
Turbine, Lampo, Briciola. Antonio che aveva una cultura da
Enciclopedia dei Ragazzi, aveva battezzato il suo: Potomac.
Potomac?
Ma cos’è? Chiesero in coro gli altri, lui scrollò
le spalle con sufficienza, un fiume americano che ha conservato
l’antico nome indiano.
A
Camillo Antonio stava proprio antipatico, ne sapeva e ne faceva
sempre una più degli altri, e quell’una gliela faceva
pesare come piombo. Insomma Antonio era un capo nato e ogni giorno
Camillo sperava di potergli scaricare addosso i sei colpi della sua
colt.
Un
pomeriggio Antonio si presentò con in testa un buffo berretto
di pelliccia con una lunga coda ad anelli, disse di averlo rubato a
suo fratello maggiore. Oggi io sono Davy Crocket e voi i miei
amici texani. Dobbiamo difendere Forte Alamo dall’attacco dei
Messicani. Di Davy Crocket qualcosa sapevano, almeno il nome, ma
i Messicani? Avevano sempre diviso il mondo dei giochi in indiani e
cowboy, che c’entravano i Messicani? Nessuno dei quattro però
osò contestare la decisione del loro capo che, ormai calato
nella parte, dichiarò: nonostante il nostro eroismo, prima
di domani saremo tutti morti.
Così
per settimane giocarono alla battaglia di Alamo e ogni giorno
dovevano morire e restare stesi a terra, possibilmente immobili,
mentre Antonio si prendeva l’intera scena, morendo per ultimo,
naturalmente da eroe.
La
cosa che più mandava in bestia Camillo era quel copione già
scritto da cui non si poteva sgarrare: iniziavano a giocare e Davy
Crocket subito ricordava agli altri che loro sarebbero stati
sconfitti e uccisi. E così accadeva ogni volta, con
buona pace della fantasia dei vecchi giochi dove fino all’ultimo
non si sapeva chi avrebbe vinto e i cinque si chiedevano vinceremo
noi o gli indiani?
Mezzo
secolo per dimenticarsi di Antonio e dei giochi dell’infanzia e
Camillo in effetti se ne era scordato da tanto tempo. Ma questo gioco
gli tornò indietro come un boomerang nel modo più
incredibile, sotto forma di incubo ripetuto quasi ogni notte nel
momento più delicato della sua vita.
Sognava,
Camillo, la battaglia, lo scenario era un fort Alamo rivisitato tra
gli alberi dell’infanzia, i volti erano quelli degli amici di
allora che però si alternavano come maschere a volti più
recenti. Tutti, prima o poi, venivano colpiti da proiettili
invisibili, chi in pancia, chi alla gola, Camillo in pieno petto.
Ferite
che dovevano essere mortali, eppure nessuno moriva. Lui si guardava
intorno e vedeva gli amici stesi per terra che uno dopo l’altro
si rialzavano e riprendevano a combattere. Lui stesso sparava
all’impazzata contro nemici senza volto (erano questi i
“Messicani”?).
La
nota fondamentale dell’incubo, quella su cui la sua psiche
insisteva ossessivamente, era che non c’era alcun sollievo
nella sopravvivenza, era solo un rinvio della morte. Ed era una
constatazione così assoluta e disperata che ogni volta a quel
punto Camillo si svegliava di soprassalto, angosciato.
In
testa gli rimbombava l’antica frase, domani saremo tutti
morti.
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