La libraia del Forte
di Carlo Bordoni
La signora Tina aveva un'antica libreria dove viveva sola e rinserrata
nelle sue manie e nella sua malattia. Soffriva di dolori articolari. Aveva
letto tantissimo, ma spesso confondeva gli autori. Ne aveva conosciuti molti.
Tutta la sua vita si svolgeva dentro il negozio, da cui non usciva quasi mai
(dormiva nel retrobottega). Sognava di vivere una vita movimentata. Era seguita
da una nipote, che le portava da mangiare e l'aiutava nei lavori domestici. E
poi veniva a farle visita il Balli, che passava lunghe
ore in libreria, senza comprare nulla, sfogliando, leggiucchiando i titoli
messi alla rinfusa, pieni di polvere; solo lei sapeva dove erano e andava a
colpo sicuro quando le chiedevano un titolo. Forse aveva avuto anche un marito,
il cui ricordo si era spento negli anni. C'era tanta confusione a quei tempi,
subito dopo la guerra; non ci si capiva più niente. Come se un'immensa euforia
avesse contagiato tutto il mondo. Tutto il mondo a lei conosciuto,
naturalmente. Che era quel negozietto sulla strada principale, le due stanze
sul retro, e la gente che l'andava a trovare.
La cosa strana che avevo osservato, e che veniva spontaneo di pensare
a chiunque entrasse nel suo bugigattolo (quasi di sbieco, perché i banconi, sui
due lati, lasciavano solo lo spazio di uno stretto corridoio), era che la Tina si separava mal volentieri da ogni suo libro. Ora,
questo è il colmo per ogni commerciante, una contraddizione in termini. Si
comportava più da bibliotecario, attento alla conservazione del suo prezioso
tesoro, che da libraio, ovvero di un mercante che si dovrebbe
preoccupare di vendere i libri al meglio, nelle più adatte condizioni per
invogliare il lettore, anche il più occasionale, e spingerlo a portarsi a casa
quel mucchio di fogli di carta tenuti assieme dalla colla o dal filo di refe.
Ogni libro smerciato, per un libraio che meriti il suo nome, è un sospiro di
sollievo, un peso morto in meno nel magazzino, un briciolo di malumore che se ne va. Non solo per quei quattro
soldi che mette nel cassetto. Per carità! Non è una questione veniale, c'è da
scommetterci che non ci pensa neppure, quando incarta il volumetto
con tanta cura e lo porge con un sorriso di gratitudine all'ignaro acquirente.
Quel sorriso vuol dire “E uno di meno!” o qualcosa del genere. Un libro di meno
nel negozio vuol dire almeno due cose importanti, essenziali: intanto
ringiovanire, perché la libreria si svecchia. Escono i libri pieni di polvere,
che avevano preso l'odore degli scaffali e
dell'umidità dei muri, del sudore delle estati troppo afose e delle ore passate
a respirare i vapori, il fumo delle sigarette e delle antiche scoregge
silenziose dei perditempo, che si aggirano per ore tra gli scaffali senza
comprare niente. Il libraio ringiovanisce perché la libreria si rinnova. Esce
un libro vecchio e ne entrano tre nuovi (sempre di più, è un gioco al
massacro). Se non ci fosse un ricambio, anche minino, il sistema crollerebbe
per collasso. Invece, la vendita di un volume significa il rinnovarsi di un
ciclo naturale, la possibilità del risveglio primaverile, la base della
fertilità: il libro nuovo arriva e si porta dietro il profumo della stampa, sa
di buono, è un piacere toccarlo, soppesarlo e sfogliarne delicatamente le
pagine, osservarne la copertina lucida, ancora priva di gravose impronte
digitali, colorata e patinata da far venire il desiderio lussurioso di
possesso. E' la brama di possederlo, di farlo proprio.
L'altra ragione, non
meno importante, è quella della semina. Vendere un libro vuol dire trasmettere
un messaggio, piantare un virgulto, zappare un terreno arido, seminare qualcosa
che potrà diventare una pianta e dare dei frutti. Vendere libri non è come
vendere il pane, vestiti o altri oggetti di consumo. Ha una qualità in più, che
deriva dallo stesso contenuto del libro. Se resta sugli scaffali della libreria
non comunica nulla ed è una cosa inutile, priva di senso. Vive
solo se qualcuno decide di portarselo a casa e vedere se quei soldi che
ha pagato per comprarlo sono spesi bene. Anche se leggerà solo poche pagine,
anche se si stancherà della storia, se lo chiuderà irrimediabilmente senza
lasciare il segno e lo riporrà nella mensola più alta del soggiorno, dietro ad
altri libri più imponenti o sotto un cumulo di cianfrusaglie, avrà comunque
assolto il suo compito. Avrà mandato un messaggio, lasciato un indizio,
inculcato un bacillo, pur infinitesimale, che potrà produrre qualche effetto quando sarà posto in relazione ad altri stimoli, in
compagnia di altri ricordi, che si ritroveranno come vecchi amici che
dialogheranno, stringeranno alleanze e faranno combutta.
C'è un tornaconto,
in tutto questo, e il libraio scaltro lo sa bene: libro chiama libro. È
statisticamente quasi impossibile che una persona che abbia
comprato un libro, non torni, prima o poi, a comprarne un altro, magari
in una libreria diversa, in un'altra città, su una bancarella o nell'edicola di
una stazione. Ma il principio è salvo. Il piacere della lettura si è installato
in quella mente e, un giorno o l'altro, reclamerà di essere soddisfatto.
La vecchia Tina non aveva tutte queste malizie,
né pensieri contorti sulle strategie di mercato. Le bastava stare tra i suoi
libri, che ormai erano intrisi degli odori di casa. Si erano presi, nell'arco
di un lungo tempo, il profumo del minestrone, quando lei aveva lasciato aperta
la porta della cucina per dare un'occhiata al negozio. Quello del pesce fritto
della rosticceria di fronte, ma anche quello dei dolci e del caffè del bar
accanto. Tutti questi sapori si erano come incorporati nelle pagine, entrati
nelle porosità della carta uso mano, nelle molecole
dei cartonati, insediati stabilmente nelle coste sbiadite dal sole dei rilegati
a filo refe.
Un libro della Tina si riconosceva dall'odore, proprio per questa
particolare fragranza inconsueta che lo accompagnava. Incontravi qualcuno per
strada e, se mostravi il libro appena acquistato, non c'era bisogno di dare
altre spiegazioni. “Ah, l'hai preso dalla Tina! Si
sente…” Anche quando era ormai stabilmente accasato in uno scaffale privato,
stretto tra altri libri, faticava a nascondersi. Manteneva ostinatamente
l'impronta originale e tardava ad acclimatarsi, tanto che gli altri libri
sembrava quasi che lo guardassero in tralice e si tappassero il naso con una
smorfia di disgusto.
Anche per questo era
difficile sottrarre alla Tina uno dei suoi tesori.
Quando si chiedeva un titolo, la prima reazione era un “Non c'è mica!” bello secco, che avrebbe lasciato chiunque a corto di
argomenti, costringendolo a desistere. Allora bisognava cominciare una sorta di
corteggiamento, con varie fasi di avvicinamento a largo raggio, consistente in
una conversazione amichevole su alcuni temi topici, quali il tempo, il caldo o
il freddo, a seconda delle stagioni, e poi, via via, qualche scrittore che era passato di lì (perché la
Tina vantava una frequentazione di tutto rispetto degli intellettuali di grido)
e, infine, i libri. Si andava sempre a parlare di libri, con la
Tina, sia che si partisse dall'ultimo tedesco affogato in mare, e che la
corrente aveva buttato sugli scogli, sia che si disquisisse di abiti all'ultima
moda. Allora, timidamente, voltati verso gli scaffali ricolmi, traboccanti di
volumi messi di traverso, tanto da non riuscire neppure leggere i titoli sulla
costa, si tornava con un filo di voce a parlare di “quel” titolo, come di una
cosa tanto agognata, di cui si disperava ormai di trovare un esemplare. Sempre
fingendo interesse per altri volumoni, che si
traevano dalle scansie sovraccariche e poi si rimettevano a posto con cura, tra
un sbuffo di polvere e un effluvio di cavolfiore
d'annata, era prassi si continuasse la lamentazione con toni rinunciatari, e
allora la Tina, come presa da subitanea compassione, si alzava con lentezza dal
suo seggiolone vicino alla vetrina, faceva due passi dondolando sulle vecchie
anche, allungava la mano sotto il banco e, quasi senza guardare, tirava fuori
il sospirato titolo che non avremmo mai trovato da soli. “Eccolo qua,” sospirava con voce rassegnata, consapevole che il suo
gesto pietoso le sarebbe costato una perdita irrimediabile, definitiva. A
guardare quegli occhi tristi che ti davano il resto, veniva voglia di
restituire il maltolto o di proporre di prendere il libro in prestito, solo per
qualche giorno, giusto il tempo di leggerlo. E molti clienti devono aver avuto
la stessa sensazione, se i suoi affari sono sempre andati peggiorando, al punto
da dover chiudere.
Il fatto è che, con
quella politica rigidamente conservatrice, la libreria della
Tina era l'unica in cui si potessero trovare titoli fuori catalogo,
esemplari intonsi ed esauriti da tempo, rare copie di volumi ritirati
dall'editore, che per qualche strano e incomprensibile mistero, trovavano lì
dentro, in quel fondo oscuro e polveroso, una testimonianza d'esistenza
terrena.
L'altra grande
passione della Tina erano le penne. C'era una
vetrinetta chiusa a chiave, sul fondo del locale, dove erano ammassate decine
di penne stilografiche nei loro astucci aperti. Perché, a dire il vero, la sua
era più propriamente una cartoleria, o meglio una “cartolibreria”, come tendeva
a precisare.
Vendeva volentieri
quaderni e penne biro, fogli da disegno, matite e piccoli oggetti di
cancelleria. Il tutto in mezzo a quei libri soffocanti che finivano per
divenire lo sfondo del negozio, l'arredo o una comodità precaria per scrivere o
appoggiarsi. Ci si abbandonava su una pila di volumi enciclopedici per guardare
più su nello scaffale, o per sedersi un momento, se si era stanchi di stare in
piedi. Si usava un libro d'arte, fuori commercio da una dozzina d'anni, per
provare, su un fogliaccio, il funzionamento di una penna a sfera. Si
utilizzavano tascabili di diverso spessore per ottenere un perfetto ripiano
orizzontare, su cui posare un vassoio di caffè (d'inverno) o di gazzose
(d'estate).
Alle penne teneva
moltissimo. Conosceva tutte le marche ed era aggiornatissima in fatto di
tecniche e di prezzi. Erano stilografiche da collezione o da particolari
occasioni (comunione, diplomi, lauree) quelle che stavano ben chiuse nella vetrinetta,
dai prezzi inaccessibili, a differenza dei libri, che invece continuavano a
mostrare i prezzi vecchi, senza cartellini incollati sopra per adeguarli al
catalogo. Forse perché le penne non avevano un prezzo stampato sopra, o forse
solo perché i libri erano talmente tanti che le restava impossibile tenere il
passo con gli adeguamenti di listino.
Frugando un po',
sotto l'occhio vigile della Tina, si potevano trovare
prime edizioni a poche lire che sembrava un furto portare via, approfittando
dell'ingenuità della proprietaria. Qualcuno doveva averglielo detto e la Tina, che lo sapeva benissimo ma che non se ne curava, si
doveva esser sentita presa in giro. Così da un giorno all'altro, tra lo stupore
rammaricato di noi ragazzi (quei pochi che amavano i libri e si erano già fatti
una bibliotechina in casa), entrando dalla Tina con la solita falsa condiscendenza, si trovò lo
stesso disordine multicolore di titoli e di formati, ma rivoluzionato nei
prezzi. La vecchina aveva un sorrisetto
furbo sulle labbra che sembrava dire “Adesso vi ho fregato per bene!” e
mostrava i suoi volumi polverosi con le etichette dei prezzi aggiornati e,
talvolta, eccessivi. Moltiplicati di dieci o persino di cento volte. Perché non
si era basata sui cataloghi (troppo faticoso, anche per colpa della vista), ma
arbitrariamente, secondo il proprio giudizio, sulla qualità del volume o
sull'affetto che portava nei confronti di questo o quell'autore.
Così finì anche
quella risorsa di libri a buon mercato, diventati inaccessibili come le penne
stilografiche, e dalla Tina si andava solo per fare
conversazione, per sentire le ultime notizie sui grandi scrittori che aveva
conosciuto o semplicemente per passare una mezz'ora all'ombra, quando fuori
sulla strada faceva troppo caldo.