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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Facciamo finta che…, di Milvia Comastri 11/07/2007
 

Facciamo finta che…

                                               di Milvia Comastri

 

 

Socchiude gli occhi ed è subito sveglia. Ha un lieve mal di testa, ma sa già che il dolore le sta camminando veloce sotto i capelli, spedito come un uomo che stia facendo jogging per rinforzarsi e mantenersi in forma. A metà mattina il fastidio sarà intollerabile, se non gli impanierà fin da ora con un analgesico quelle gambe scattanti. Abbassa le palpebre sul buio della stanza. Ha fatto un sogno. Ha sognato che nella sua casella di posta elettronica erano arrivate decine di mail, e a mano a mano che le apriva frammenti di parole uscivano dallo schermo del computer, rotolavano sul parquet e si mischiavano a formarne altre: attesa, dubbio, perché, ieri, forse, incertezza; altre vocali e consonanti rimanevano sullo sfondo azzurrato dello schermo e veloci come girandole si univano per dar vita ad altre parole: sì, oggi, fai, domani, certezza, decidi. Strano sogno. Bizzarro anche che Caterina se lo ricordi così bene, netto, preciso, lucido. E' vero che un tempo le piaceva giocare con le parole, con i diversi significati che esse possono assumere. Come quando andava dicendo, diversi anni fa, che il suo matrimonio, doverosamente consumato, si era poi velocemente consumato nell'inedia dei giorni. Senza pianti né rim-pianti, amava aggiungere.

Bene, torniamo al sogno. Sa perché lo ha fatto. E' per quella mail di tre giorni fa, quella che ha per oggetto: facciamo finta che…

 

***

        

Nell'aia del casale di famiglia Diego cominciava a predisporre la scena. La vecchia sedia di paglia di suo nonno diventava un trono: bastava posarvi sopra il cuscino rosso con il drago ricamato dall' Amelia, sottratto dal salotto buono. La sala del trono era delimitata da quattro colonne imponenti, quattro tigli rigogliosi che in giugno esplodevano di fiori e profumo. La principessa, quando arrivava dalla casa vicina, non aveva bisogno quasi di nulla. La sua bellezza era già un blasone. Diego socchiudeva gli occhi, come se fosse abbagliato dall'oro dei capelli di Caterina, e in tono solenne pronunciava sempre la stessa frase: facciamo finta che tu eri la principessa e io ero il rospo, e le posava sulle spalle la vestaglia blu della nonna, cosi che la lucentezza del raso rivestiva la bambina di tutta la dignità dovuta al suo rango. Poi la prendeva per mano e la conduceva al trono. Il bambino si accucciava ai piedi di Caterina, ingobbito, e chiudeva gli occhi. Rimaneva in attesa, scordandosi quasi di respirare. Rimaneva in  attesa, muto. A volte il bacio gli arrivava sulla testa, a volte le mani della bambina gli sollevavano il volto, e il bacio si posava sulla sua fronte. Certe mattine, invece, i minuti passavano, e gli sembravano secoli e l'aria si riempiva poi del tintinnio di una risata, e del rumore dei sandaletti che battevano la polvere, fuggendo. Ma c'erano le volte, poche, pochissime, che le labbra di Caterina toccavano le sue e se era un giorno fortunatissimo indugiavano un poco. Allora Diego si alzava ritto in piedi, e spariva la maglietta con l'Ufo Robot scolorito e si volatilizzavano i pantaloncini rossi e lui si trovava ricoperto di un armatura bianca e lucente, pronto a uccidere per lei tutti i draghi cattivi del mondo. E il giorno dopo il gioco si ripeteva, e ancora, e ancora, fino a quando gli ultimi giorni dell'estate scivolavano nel tempo rosso dorato dell'autunno, e i bambini dovevano rientrare nelle rispettive città.

 

***

 

E' la maglietta con l'Ufo Robot che si sovrappone alle parole, mentre Caterina rilegge la mail e si massaggia lentamente le tempie. Se il tempo con Diego si fosse fermato a quelle estati, racchiuso in quella magica sfera di verbi all'imperfetto, solo della maglietta si ricorderebbe, e del profumo dell'erba che giungeva dai campi vicini, e delle rondini che volavano basse alla ricerca di cibo.

“Ma le persone cambiano” mormora fra sé, mentre afferra il foglio con la stampa della mail e si avvia verso la cucina. Lo posa sul tavolo. Dalla mensola prende il barattolo del caffé, toglie la moka dallo sgocciolatoio sopra il lavello. Ritorna al tavolo, legge la lettera per la centesima volta. E' lunga, riempie quasi due pagine.

Alcune parole sembrano quasi uscire dal foglio: torno in Italia vorrei vedertisono un'altra personaho capito che i draghi cattivi bisogna combatterli, e non entrare nelle loro congregheavevi ragione tu

Poi c'e il numero di telefono di un albergo di una città su al nord, e quello di un cellulare. Diego scrive anche che l'indirizzo di posta elettronica di Caterina l'ha scoperto per caso entrando in un sito di pacifisti.

 

***

 

Le loro estati insieme si erano bruscamente interrotte con la vendita della casa di campagna di Caterina. I suoi genitori avevano acquistato una villetta al mare, a una ventina di chilometri dalla città dove abitavano. Diego le era uscito del tutto dalla mente. Intanto il suo corpo si era andato arricchendo di morbide rotondità, e lei aveva imparato in fretta a leggere negli occhi degli uomini la misura della sua avvenenza. Erano stati anni divertenti, leggeri. Stupidi, li definisce ora Caterina. Stupidi futili e inutili. Enrico lo aveva conosciuto a una festa di compleanno. Era bello: solo questo le torna alla mente, ora, le pochissime volte che pensa a lui. Si erano sposati in un giorno molto freddo di gennaio, e un anno e mezzo dopo, in una mattina piovosa di metà giugno, si erano salutati per sempre sulle scale del tribunale. Una catena di giorni noiosi, quel matrimonio, con qualche notte ardente, che non era riuscita a cementare un'unione nata come un gioco fra due ragazzi superficiali e incoscienti.

 

Mentre la caffettiera si prepara a espandere profumo nella cucina, Caterina compone un numero di telefono. Sua madre le risponde dopo tre squilli.

“Come procedono le cose, lì? Nessun problema?”

“Tutto bene, tutto a posto, tesoro. risponde la madre “Tu piuttosto, allora, cosa hai deciso?”

Caterina tace, si guarda nello specchio che sormonta il tavolo dove è appoggiato il telefono, come se volesse capire se la risposta è scritta sul suo viso, nel colore azzurro cupo dei suoi occhi, nella fronte leggermente corrugata.

“Ho deciso di sì, mamma. Accetto di incontrarlo. Ed è sì anche per l'altra cosa. Glielo dirò. E non solo.” afferma decisa continuando a fissarsi.

“ Quindi aspettami verso le cinque. La vengo a prendere  a quell'ora.” aggiunge.

Ecco, è fatto, pensa mentre ripone il ricevitore e dalla cucina le arriva il borbottio della moka.

Versa il caffè nella tazza gialla, sbocconcella un biscotto, scioglie l'analgesico in un mezzo bicchier d'acqua: il tizio dello  jogging sta correndo sempre più veloce.

 

***

 

Si erano rivisti dopo tanti anni – ventisette, si erano detti, mentre prendevano una bibita al bar- nell'area arrivi di un aeroporto. Caterina era appena tornata dall'India, lui veniva da Parigi, dove lavorava da un po' di tempo in una multinazionale, e doveva proseguire per la sua città per trascorrere un mese di ferie.

Era stato Diego ad avvicinarsi.

“Principessa?” aveva sussurrato posandole una mano sul braccio.

Lei aveva alzato il viso, e aveva riconosciuto il sorriso, e anche gli occhi, anche se le erano sembrati di un nero meno brillante, stanco.

“Diego!” aveva esclamato, e si era sentita improvvisamente contenta, come se in quell'attimo tutto il peso dell'emozioni e del dolore con cui aveva convissuto negli ultimi due mesi si fosse alleggerito.

Era stato così che avevano ripreso in mano il filo rosso della favola. O almeno così lei aveva pensato, i primi tempi. Diego non aveva raggiunto la sua città, quel giorno. Avevano bevuto qualcosa al bar dell'aeroporto, interrompendosi l'una con l'altro con i ricordi di quelle estati. Poi Caterina aveva cominciato a raccontargli del suo viaggio, iniziato come un qualsiasi svago da turista, senza alcuna cognizione reale di quello che avrebbe trovato, se non per le descrizioni meramente folcloristiche degli amici che ci erano già stati. Ma a mano a mano che il viaggio proseguiva, e gli altri del gruppo fotografavano il Taj Mahal, il Forte Rosso, la Porta dell'India a Bombay, Caterina aveva preso a guardare altro. Le miserie che le avevano narrato come ovvie, in quel Paese, ma che lei non avrebbe mai supposto così terribili. I bambini con le palpebre chiuse dal pus, i bambini che lavoravano giorno e notte, i bambini che dormivano nelle strade, i bambini con la pelle segnata da qualche terribile malattia, i bambini che imploravano un bhaski per mangiare, i bambini che la guardavano muti, così fragili e piccoli, ma dignitosi. I bambini neonati, che sembravano non avere neppure la forza di piangere. I bambini. L'India era colma di bambini. Erano ovunque: sguazzavano in rigagnoli maleodoranti, zigzagavano nell'osceno smog delle città, cercavano per ore, chini nei depositi di rifiuti. Aveva scattato solo una prima foto. Poi si era vergognata, e aveva cominciato ad imprimere le immagini solo con la pellicola sensibile del cuore. E la notte stava sveglia, ripercorreva i suoi anni passati nella vacuità, a ridere, a prendere impegni senza valutarne le conseguenze, a vivere una effimera vita da “golden girl”, bella, ricca, priva di pensieri, o meglio priva di pensiero.

Aveva lasciato il gruppo. Aveva posticipato la data del rientro. Era rimasta in India due mesi, girando dal nord al sud, soffrendo, amando, cercando di capire.

Aveva raccontato questo, a Diego, con rabbia, sdegno, passione. Lui stava in silenzio, annuendo ogni tanto, prendendole la mano quando Caterina, sopraffatta dalle emozioni, rischiava di mettersi a piangere. La guardava, e riscopriva solo tutta la bellezza della sua principessa. L'aereo era partito senza di lui.

Avevano preso un taxi ed erano andati a casa di lei.

L'aveva tenuta abbracciata mentre la donna continuava a parlare accoccolata sul divano di pelle del soggiorno elegante, poi la mano di Diego era scivolata con naturalezza nella scollatura del golfino di Caterina e le parole si erano improvvisamente spente sotto le sue labbra.

In camera le aveva tolto i vestiti con una lentezza studiata e seducente. Le aveva sciolto i capelli, che erano ricaduti sulle spalle di Caterina come un manto dorato. L'aveva presa in braccio e l'aveva portata sul letto. Poi si era rannicchiato vicino a lei e con voce roca aveva pronunciato la vecchia frase: facciamo finta che tu eri la principessa e io ero il rospo.

 

***

 

Il mal di testa se ne è andato. Se ne è andato anche quel tremore d'ansia che l'accompagnava da tre giorni. Riordina la cucina, beve un ultimo goccio di caffé che è rimasto nella moka. C'è un  silenzio a cui non è più abituata, nella casa. Spalanca la finestra e nella stanza entra una ventata d'aria fredda. La spiaggia è deserta. Solo un gabbiano zampetta sulla sabbia. Una barca sta ormeggiando nel porticciolo. C'è una bella luce, fuori, il mare la cattura e riflette luminose schegge argentate. Da tre anni Caterina abita nella villetta delle vacanze. C'è tanta quiete, d'inverno, tanto silenzio. E' bello vivere lì, i suoi quadri migliori li ha dipinti nel grande studio in fondo al corridoio. Ha cominciato a dipingere poco dopo il suo ritorno dall'India. Tutte le immagini che il suo cuore aveva filmato. Gli occhi immensi dei bambini, e anche i loro sorrisi, e le loro piccole mani imploranti, e l'altero portamento delle donne, e l'odore del Gange, e il fumo delle pire. Finalmente ha messo a frutto il diploma d'istituto d'arte che aveva preso tanti anni prima. E' brava, riesce anche a vendere bene, e tutto quello che ricava dai quadri lo versa nel conto di un'organizzazione che si occupa di bambini indiani. Lavora tre volte la settimana in una galleria d'arte in città, e collabora con un sito internet che si occupa di pittori contemporanei. Questo le consente di coprire tutte le spese di una vita normale, senza eccessi. Ai suoi non chiede nulla, se non amore e comprensione. Non ha fatto più viaggi, dopo quello in India di quattro anni fa. Ma ha molti progetti, da realizzare quando avrà più tempo. Per ora si limita a stare attenta a quello che succede nel mondo, a cercare di decifrare le menzogne che vengono diffuse, a non adattarsi mai, e a continuare a pensare.

Prende il foglio con la mail, e entra nello studio. Le piace l'odore di cui sono impregnate le pareti, di trementina, di vernici. E' un buon odore colorato. Accende il cellulare. Compone il numero impresso nella lettera. Le risponde la segreteria telefonica. Caterina lascia solo un indirizzo e un orario.

 

***

 

Qualcosa si era guastato. Di notte si lasciava andare sull'onda incandescente del desiderio, ma di giorno, quando guardava Diego negli occhi, Caterina vi leggeva qualcosa di non convincente. Non riguardava l'amore. Era certa che lui fosse innamorato. Ma era uno sguardo, il suo, privo di profondità, che non collimava con le parole che Diego diceva quando parlavano di povertà, di diritti violati, di pace, di guerra. Nel mese che avevano trascorso insieme, lui assentiva sempre alle argomentazioni di Caterina, le dava ragione, diceva anche lui di essere indignato. Ma, pensò un giorno Caterina, sembra che anche questo per lui sia un gioco, un altro facciamo finta che… facciamo finta che queste cose mi interessino veramente, facciamo finta che anch'io sia per la dignità di tutti, facciamo finta che, insomma.

Quando Diego dovette rientrare a Parigi continuarono a sentirsi per telefono. Lui le raccontava delle sue giornate, del lavoro, degli amici importanti, delle serate passate in locali eleganti. Di vini, di cibi raffinati. Un giorno le raccontò di aver assistito a un pestaggio di un sans papier da parte della polizia. E si lasciò sfuggire che non se ne poteva proprio più di questi individui stranieri che erano sporchi, ladri ed erano un vero pericolo per la sicurezza della città. Era giusto, aggiunse, che se ne ritornassero al loro paese, qui non possono stare, sono troppo diversi, concluse.

Il primo week end in cui si ritrovarono discussero per ore su questo episodio. E lui si svelò. Disse che all'inizio l'aveva assecondata perché l'aveva vista sconvolta. Ma che lei era solo un'ingenua, che il mondo andava così, poveri e ricchi c'erano sempre stati, gente che moriva di fame e gente che mangiava caviale. Questo era il mondo, e tu che sei nata dalla parte giusta, le disse, cerca di restarci, aggrappati a quello che hai, prima che qualcuno te lo porti via. Avevano gridato, si erano insultati, sei un razzista del cazzo, gli aveva urlato lei, sei una stupida utopista, aveva ribattuto lui. Alla fine Caterina si era sentita stanchissima ed era scoppiata a piangere. Diego si era allontanato, era stato fermo davanti alla finestra volgendole le spalle. Poi le si era avvicinato e l'aveva abbracciata. Le aveva detto che l'amava, che contava solo questo: che loro due si amavano. Aveva cominciato ad accarezzarla, tenendola sempre più stretta. Il pianto si era acquietato, si era accelerato il respiro.

Si erano svestiti in fretta, erano scivolati a terra.

Poi lei, quando lui se ne era andato, si era vergognata da morire.

 

***

 

 C'è un quadro, nello studio, che Caterina non venderà mai. C'è una bambina bionda raffigurata nel dipinto, una bambina immaginata in un sogno, poco prima che la storia con Diego finisse. E' stato il suo primo quadro, e se forse manca della tecnica delle successive creazioni, ha tuttavia qualcosa che le fa vibrare l'anima. Ama quella bambina non meno dei suoi bambini indiani. La osserva anche ora, e pensa quanto la vita, a volte, sia davvero strana.

 

***

 

Quando era uscita dallo studio del ginecologo aveva pensato che a quel punto avrebbe potuto anche prendere a calci il suo cuore e buttarlo in una pozzanghera. Non voleva più Diego, non voleva una relazione con lui, non voleva un figlio suo. Non avrebbe mai potuto vivere accanto a un uomo che aveva idee che lei disprezzava. Doveva lasciarlo, subito, prima che lui potesse sospettare della sua maternità incipiente. E doveva interrompere al più presto la gravidanza. Questo aveva pensato.

Lui continuò a telefonarle per settimane. Non poteva lasciare Parigi, gli avevano promesso un trasferimento a New York, e ci teneva tanto, era un incarico prestigioso, lo stipendio sarebbe stato quasi raddoppiato, c'erano altri che volevano quel posto, ed erano pronti a pugnalarlo alla schiena. Vieni tu, le disse, vieni, ne parliamo, non voglio che finisca, io ti amo, mi sembra di amarti da quando sono nato.

La sera che Diego si mise a piangere lei gli impose di non telefonarle più. Era una sofferenza per lui e per lei. Basta così, gli disse, noi sì che siamo troppo diversi, non è proprio possibile andare avanti.

Il telefono aveva continuato a suonare nelle sere successive, ma Caterina non aveva più risposto.

Dopo qualche mese, quando la televisione trasmise l'orrore delle torri gemelle, pensò fugacemente a Diego. Chissà se quel trasferimento era poi avvenuto… Ma la tragedia che si stava svolgendo sotto i suoi occhi la distolse ben presto da quel suo piccolo privato pensiero.

 

***

 

Il tempo sembra passare lentissimamente, oggi. Caterina ha lavorato al suo ultimo quadro, poi ha abbandonato i pennelli, ha messo su della musica, e mentre le note della Ciaccona avvolgono la stanza, lei se ne sta stesa sul divanetto, ad occhi chiusi, a pensare: gli ha permesso di incontrarla perché sa che è giusto dare a tutti una possibilità. Perché forse è vero che lui è cambiato. Perché lei si ricorda di quella maglietta con l'Ufo Robot, e del profumo dei tigli, e della vestaglia blu, e dell'innocenza. Perché bisogna abbandonare i tempi dell'imperfetto ed entrare nei tempi dell'imperativo. Perché crede fermamente che sia giunto per tutti il momento di erigere ponti e non muri. Perché.

Quando rientra in casa, dopo essere stata dai suoi, è già buio pesto. Nella segreteria non c'è nessun messaggio, e il cellulare non ha mai suonato. Non sa quindi se Diego verrà. Non prova a richiamarlo. Vuol lasciare fare al destino. Prepara una cena veloce, svolge tutti i consueti compiti serali in fretta, non vuole farsi trovare impreparata all'incontro.

 

Il suono del campanello è simile a quello di quattro anni fa: tre piccoli squilli ravvicinati. Mentre apre il portone lo vede attraversare il giardino. Ha le spalle curve, un incedere quasi timoroso. Lo aspetta sulla soglia, e non può negare a se stessa che il cuore le batta forte.

Eccolo. E' lì, davanti a lei.

Caterina allunga un braccio e gli prende una mano.

Lo fa entrare e chiude la porta.

Piano.

Affinché la bambina non si svegli.

 

(dalla raccolta di racconti inedita “Amado mio e altre canzoni”)

 

 

 
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