Facciamo finta che…
di Milvia Comastri
Socchiude gli occhi ed è subito sveglia.
Ha un lieve mal di testa, ma sa già che il dolore le sta camminando veloce
sotto i capelli, spedito come un uomo che stia facendo jogging per rinforzarsi
e mantenersi in forma. A metà mattina il fastidio sarà intollerabile, se non
gli impanierà fin da ora con un analgesico quelle gambe scattanti. Abbassa le
palpebre sul buio della stanza. Ha fatto un sogno. Ha sognato che nella sua
casella di posta elettronica erano arrivate decine di
mail, e a mano a mano che le apriva frammenti di parole uscivano dallo schermo
del computer, rotolavano sul parquet e si mischiavano a formarne altre: attesa, dubbio, perché, ieri, forse,
incertezza; altre vocali e consonanti rimanevano sullo sfondo azzurrato
dello schermo e veloci come girandole si univano per dar vita ad altre parole: sì, oggi, fai, domani, certezza, decidi. Strano sogno. Bizzarro anche che
Caterina se lo ricordi così bene, netto, preciso, lucido. E' vero che un tempo
le piaceva giocare con le parole, con i diversi significati che esse possono
assumere. Come quando andava dicendo, diversi anni fa, che il suo matrimonio,
doverosamente consumato, si era poi
velocemente consumato nell'inedia dei giorni. Senza pianti né rim-pianti, amava
aggiungere.
Bene, torniamo al sogno. Sa perché lo ha
fatto. E' per quella mail di tre giorni fa, quella che
ha per oggetto: facciamo finta che…
***
Nell'aia del casale di famiglia Diego
cominciava a predisporre la scena. La vecchia sedia di paglia di suo nonno
diventava un trono: bastava posarvi sopra il cuscino rosso con il drago
ricamato dall' Amelia, sottratto dal salotto buono. La
sala del trono era delimitata da quattro colonne imponenti, quattro tigli
rigogliosi che in giugno esplodevano di fiori e profumo. La principessa, quando
arrivava dalla casa vicina, non aveva bisogno quasi di nulla. La sua bellezza
era già un blasone. Diego socchiudeva gli occhi, come se fosse abbagliato
dall'oro dei capelli di Caterina, e in tono solenne pronunciava sempre la
stessa frase: facciamo finta che tu eri
la principessa e io ero il rospo, e le posava sulle spalle la vestaglia blu
della nonna, cosi che la lucentezza del raso rivestiva la bambina di tutta la
dignità dovuta al suo rango. Poi la prendeva per mano e la conduceva al trono.
Il bambino si accucciava ai piedi di Caterina, ingobbito, e chiudeva gli occhi.
Rimaneva in attesa, scordandosi quasi di respirare.
Rimaneva in
attesa, muto. A volte il bacio gli arrivava sulla testa, a volte le mani
della bambina gli sollevavano il volto, e il bacio si posava sulla sua fronte.
Certe mattine, invece, i minuti passavano, e gli sembravano secoli e l'aria si
riempiva poi del tintinnio di una risata, e del rumore dei sandaletti
che battevano la polvere, fuggendo. Ma c'erano le volte, poche, pochissime, che
le labbra di Caterina toccavano le sue e se era un giorno fortunatissimo
indugiavano un poco. Allora Diego si alzava ritto in piedi, e spariva la
maglietta con l'Ufo Robot scolorito e si volatilizzavano i pantaloncini rossi e
lui si trovava ricoperto di un armatura bianca e lucente,
pronto a uccidere per lei tutti i draghi cattivi del mondo. E il giorno
dopo il gioco si ripeteva, e ancora, e ancora, fino a quando gli ultimi giorni
dell'estate scivolavano nel tempo rosso dorato dell'autunno, e i bambini
dovevano rientrare nelle rispettive città.
***
E' la maglietta con l'Ufo Robot che si
sovrappone alle parole, mentre Caterina rilegge la mail
e si massaggia lentamente le tempie. Se il tempo con Diego si fosse fermato a
quelle estati, racchiuso in quella magica sfera di verbi all'imperfetto, solo
della maglietta si ricorderebbe, e del profumo dell'erba che giungeva dai campi
vicini, e delle rondini che volavano basse alla
ricerca di cibo.
“Ma le persone cambiano” mormora fra sé,
mentre afferra il foglio con la stampa della mail e si
avvia verso la cucina. Lo posa sul tavolo. Dalla mensola prende il barattolo
del caffé, toglie la moka dallo sgocciolatoio sopra
il lavello. Ritorna al tavolo, legge la lettera per la centesima volta. E'
lunga, riempie quasi due pagine.
Alcune parole sembrano quasi uscire dal
foglio: torno in Italia… vorrei vederti… sono un'altra persona… ho
capito che i draghi cattivi bisogna combatterli, e non entrare nelle loro
congreghe… avevi ragione tu…
Poi c'e il numero di telefono di un
albergo di una città su al nord, e quello di un cellulare. Diego scrive anche
che l'indirizzo di posta elettronica di Caterina l'ha scoperto per caso
entrando in un sito di pacifisti.
***
Le loro estati insieme si erano
bruscamente interrotte con la vendita della casa di campagna di Caterina. I
suoi genitori avevano acquistato una villetta al mare, a una ventina di
chilometri dalla città dove abitavano. Diego le era uscito del tutto dalla
mente. Intanto il suo corpo si era andato arricchendo di morbide rotondità, e
lei aveva imparato in fretta a leggere negli occhi degli uomini la misura della
sua avvenenza. Erano stati anni divertenti, leggeri. Stupidi, li definisce ora
Caterina. Stupidi futili e inutili. Enrico lo aveva conosciuto a una festa di
compleanno. Era bello: solo questo le torna alla mente, ora, le pochissime
volte che pensa a lui. Si erano sposati in un giorno molto freddo di gennaio, e
un anno e mezzo dopo, in una mattina piovosa di metà giugno, si erano salutati
per sempre sulle scale del tribunale. Una catena di giorni noiosi, quel
matrimonio, con qualche notte ardente, che non era riuscita a cementare
un'unione nata come un gioco fra due ragazzi superficiali e incoscienti.
Mentre la caffettiera si prepara a
espandere profumo nella cucina, Caterina compone un numero di telefono. Sua
madre le risponde dopo tre squilli.
“Come procedono le cose, lì? Nessun
problema?”
“Tutto bene, tutto a posto, tesoro.” risponde la madre “Tu piuttosto,
allora, cosa hai deciso?”
Caterina tace, si guarda nello specchio
che sormonta il tavolo dove è appoggiato il telefono, come se volesse capire se
la risposta è scritta sul suo viso, nel colore azzurro cupo dei suoi occhi,
nella fronte leggermente corrugata.
“Ho deciso di sì, mamma. Accetto di incontrarlo.
Ed è sì anche per l'altra cosa. Glielo dirò. E non solo.” afferma
decisa continuando a fissarsi.
“ Quindi aspettami verso le cinque. La
vengo a prendere a
quell'ora.” aggiunge.
Ecco, è fatto, pensa
mentre ripone il ricevitore e dalla cucina le arriva il borbottio della
moka.
Versa il caffè nella tazza gialla,
sbocconcella un biscotto, scioglie l'analgesico in un mezzo bicchier d'acqua:
il tizio dello jogging
sta correndo sempre più veloce.
***
Si erano rivisti dopo tanti anni –
ventisette, si erano detti, mentre prendevano una bibita al bar- nell'area
arrivi di un aeroporto. Caterina era appena tornata dall'India, lui veniva da
Parigi, dove lavorava da un po' di tempo in una multinazionale, e doveva
proseguire per la sua città per trascorrere un mese di ferie.
Era stato Diego ad avvicinarsi.
“Principessa?” aveva sussurrato posandole
una mano sul braccio.
Lei aveva alzato il viso, e aveva
riconosciuto il sorriso, e anche gli occhi, anche se le erano sembrati di un
nero meno brillante, stanco.
“Diego!” aveva esclamato, e si era
sentita improvvisamente contenta, come se in quell'attimo
tutto il peso dell'emozioni e del dolore con cui aveva
convissuto negli ultimi due mesi si fosse alleggerito.
Era stato così che avevano ripreso in
mano il filo rosso della favola. O almeno così lei aveva pensato, i primi
tempi. Diego non aveva raggiunto la sua città, quel giorno. Avevano bevuto
qualcosa al bar dell'aeroporto, interrompendosi l'una con l'altro con i ricordi
di quelle estati. Poi Caterina aveva cominciato a raccontargli del suo viaggio,
iniziato come un qualsiasi svago da turista, senza alcuna cognizione reale di
quello che avrebbe trovato, se non per le descrizioni meramente folcloristiche
degli amici che ci erano già stati. Ma a mano a mano che il viaggio proseguiva,
e gli altri del gruppo fotografavano il Taj Mahal, il Forte Rosso, la Porta dell'India a Bombay, Caterina aveva preso a
guardare altro. Le miserie che le avevano narrato come ovvie, in quel Paese, ma
che lei non avrebbe mai supposto così terribili. I bambini con le palpebre
chiuse dal pus, i bambini che lavoravano giorno e notte, i bambini che
dormivano nelle strade, i bambini con la pelle segnata da qualche terribile
malattia, i bambini che imploravano un bhaski per
mangiare, i bambini che la guardavano muti, così fragili e piccoli,
ma dignitosi. I bambini neonati, che sembravano non avere neppure la
forza di piangere. I bambini. L'India era colma di bambini. Erano ovunque:
sguazzavano in rigagnoli maleodoranti, zigzagavano nell'osceno smog delle
città, cercavano per ore, chini nei depositi di
rifiuti. Aveva scattato solo una prima foto. Poi si
era vergognata, e aveva cominciato ad imprimere le immagini solo con la
pellicola sensibile del cuore. E la notte stava sveglia, ripercorreva i suoi
anni passati nella vacuità, a ridere, a prendere impegni senza valutarne le
conseguenze, a vivere una effimera vita da “golden
girl”, bella, ricca, priva di pensieri, o meglio priva di pensiero.
Aveva lasciato il gruppo. Aveva
posticipato la data del rientro. Era rimasta in India due mesi, girando dal
nord al sud, soffrendo, amando, cercando di capire.
Aveva raccontato questo, a Diego, con
rabbia, sdegno, passione. Lui stava in silenzio, annuendo ogni tanto,
prendendole la mano quando Caterina, sopraffatta dalle
emozioni, rischiava di mettersi a piangere. La guardava, e riscopriva solo
tutta la bellezza della sua principessa. L'aereo era partito senza di lui.
Avevano preso un taxi ed erano andati a
casa di lei.
L'aveva tenuta abbracciata
mentre la donna continuava a parlare accoccolata sul divano di pelle del
soggiorno elegante, poi la mano di Diego era scivolata con naturalezza nella
scollatura del golfino di Caterina e le parole si erano improvvisamente spente
sotto le sue labbra.
In camera le aveva tolto i vestiti con
una lentezza studiata e seducente. Le aveva sciolto i capelli, che erano
ricaduti sulle spalle di Caterina come un manto dorato. L'aveva presa in
braccio e l'aveva portata sul letto. Poi si era rannicchiato vicino a lei e con
voce roca aveva pronunciato la vecchia frase: facciamo finta che tu eri la principessa e io ero il rospo.
***
Il mal di testa se ne è andato. Se ne è
andato anche quel tremore d'ansia che l'accompagnava da tre giorni. Riordina la
cucina, beve un ultimo goccio di caffé che è rimasto
nella moka. C'è un silenzio
a cui non è più abituata, nella casa. Spalanca la finestra e nella stanza entra
una ventata d'aria fredda. La spiaggia è deserta. Solo un gabbiano zampetta
sulla sabbia. Una barca sta ormeggiando nel porticciolo. C'è una bella luce,
fuori, il mare la cattura e riflette luminose schegge argentate. Da tre anni
Caterina abita nella villetta delle vacanze. C'è tanta quiete, d'inverno, tanto
silenzio. E' bello vivere lì, i suoi quadri migliori li ha dipinti nel grande
studio in fondo al corridoio. Ha cominciato a dipingere poco dopo il suo
ritorno dall'India. Tutte le immagini che il suo cuore aveva filmato. Gli occhi
immensi dei bambini, e anche i loro sorrisi, e le loro piccole mani imploranti,
e l'altero portamento delle donne, e l'odore del Gange, e il fumo delle pire.
Finalmente ha messo a frutto il diploma d'istituto d'arte che aveva preso tanti
anni prima. E' brava, riesce anche a vendere bene, e tutto quello che ricava
dai quadri lo versa nel conto di un'organizzazione che si occupa di bambini
indiani. Lavora tre volte la settimana in una galleria d'arte in città, e
collabora con un sito internet che si occupa di pittori contemporanei. Questo
le consente di coprire tutte le spese di una vita normale, senza eccessi. Ai
suoi non chiede nulla, se non amore e comprensione. Non ha fatto più viaggi,
dopo quello in India di quattro anni fa. Ma ha molti
progetti, da realizzare quando avrà più tempo. Per ora
si limita a stare attenta a quello che succede nel mondo, a cercare di
decifrare le menzogne che vengono diffuse, a non
adattarsi mai, e a continuare a pensare.
Prende il foglio con la
mail, e entra nello studio. Le piace l'odore di cui sono impregnate le
pareti, di trementina, di vernici. E' un buon odore colorato. Accende il
cellulare. Compone il numero impresso nella lettera. Le risponde la segreteria
telefonica. Caterina lascia solo un indirizzo e un orario.
***
Qualcosa si era guastato. Di notte si
lasciava andare sull'onda incandescente del desiderio, ma di giorno, quando
guardava Diego negli occhi, Caterina vi leggeva qualcosa di non convincente.
Non riguardava l'amore. Era certa che lui fosse innamorato. Ma era uno sguardo,
il suo, privo di profondità, che non collimava con le parole che Diego diceva quando parlavano di povertà, di diritti violati, di
pace, di guerra. Nel mese che avevano trascorso insieme, lui assentiva sempre
alle argomentazioni di Caterina, le dava ragione, diceva anche lui di essere
indignato. Ma, pensò un giorno Caterina, sembra che anche questo per lui sia un
gioco, un altro facciamo finta che… facciamo
finta che queste cose mi interessino veramente, facciamo finta che anch'io sia
per la dignità di tutti, facciamo finta che, insomma.
Quando Diego dovette rientrare a Parigi
continuarono a sentirsi per telefono. Lui le raccontava delle sue giornate, del
lavoro, degli amici importanti, delle serate passate in locali eleganti. Di
vini, di cibi raffinati. Un giorno le raccontò di aver assistito a un pestaggio
di un sans papier da parte della polizia. E si lasciò
sfuggire che non se ne poteva proprio più di questi individui stranieri che
erano sporchi, ladri ed erano un vero pericolo per la sicurezza della città.
Era giusto, aggiunse, che se ne ritornassero al loro
paese, qui non possono stare, sono troppo diversi, concluse.
Il primo week
end in cui si ritrovarono discussero per ore su questo episodio. E lui si
svelò. Disse che all'inizio l'aveva assecondata perché l'aveva vista sconvolta.
Ma che lei era solo un'ingenua, che il mondo andava così, poveri e ricchi
c'erano sempre stati, gente che moriva di fame e gente che mangiava caviale.
Questo era il mondo, e tu che sei nata dalla parte giusta, le disse, cerca di
restarci, aggrappati a quello che hai, prima che
qualcuno te lo porti via. Avevano gridato, si erano insultati, sei un razzista
del cazzo, gli aveva urlato lei, sei una stupida
utopista, aveva ribattuto lui. Alla fine Caterina si era sentita stanchissima
ed era scoppiata a piangere. Diego si era allontanato, era stato fermo davanti
alla finestra volgendole le spalle. Poi le si era
avvicinato e l'aveva abbracciata. Le aveva detto che l'amava, che contava solo
questo: che loro due si amavano. Aveva cominciato ad accarezzarla, tenendola
sempre più stretta. Il pianto si era acquietato, si era accelerato il respiro.
Si erano svestiti in fretta, erano
scivolati a terra.
Poi lei, quando lui se ne era andato, si
era vergognata da morire.
***
C'è un quadro, nello studio, che Caterina non
venderà mai. C'è una bambina bionda raffigurata nel dipinto, una bambina
immaginata in un sogno, poco prima che la storia con Diego finisse.
E' stato il suo primo quadro, e se forse manca della tecnica delle successive
creazioni, ha tuttavia qualcosa che le fa vibrare l'anima. Ama quella bambina
non meno dei suoi bambini indiani. La osserva anche ora, e pensa quanto la
vita, a volte, sia davvero strana.
***
Quando era
uscita dallo studio del ginecologo aveva pensato che a quel punto avrebbe
potuto anche prendere a calci il suo cuore e buttarlo in una pozzanghera. Non
voleva più Diego, non voleva una relazione con lui, non voleva un figlio suo.
Non avrebbe mai potuto vivere accanto a un uomo che aveva idee che lei
disprezzava. Doveva lasciarlo, subito, prima che lui potesse sospettare della
sua maternità incipiente. E doveva interrompere al più presto la gravidanza.
Questo aveva pensato.
Lui continuò a telefonarle per settimane.
Non poteva lasciare Parigi, gli avevano promesso un trasferimento a New York, e
ci teneva tanto, era un incarico prestigioso, lo stipendio sarebbe stato quasi
raddoppiato, c'erano altri che volevano quel posto, ed erano pronti a
pugnalarlo alla schiena. Vieni tu, le disse, vieni, ne parliamo, non voglio che
finisca, io ti amo, mi sembra di amarti da quando sono
nato.
La sera che Diego si mise
a piangere lei gli impose di non telefonarle più. Era una sofferenza per lui e
per lei. Basta così, gli disse, noi sì che siamo troppo diversi, non è proprio
possibile andare avanti.
Il telefono aveva continuato a suonare
nelle sere successive, ma Caterina non aveva più
risposto.
Dopo qualche mese, quando la televisione
trasmise l'orrore delle torri gemelle, pensò fugacemente a Diego. Chissà se
quel trasferimento era poi avvenuto… Ma la tragedia
che si stava svolgendo sotto i suoi occhi la distolse ben presto da quel suo
piccolo privato pensiero.
***
Il tempo sembra passare lentissimamente, oggi. Caterina ha lavorato al suo ultimo
quadro, poi ha abbandonato i pennelli, ha messo su della musica, e mentre le
note della Ciaccona avvolgono la stanza, lei se ne sta stesa sul divanetto, ad
occhi chiusi, a pensare: gli ha permesso di incontrarla perché sa che è giusto
dare a tutti una possibilità. Perché forse è vero che
lui è cambiato. Perché lei si ricorda di quella maglietta con l'Ufo Robot, e
del profumo dei tigli, e della vestaglia blu, e dell'innocenza. Perché bisogna
abbandonare i tempi dell'imperfetto ed entrare nei tempi dell'imperativo.
Perché crede fermamente che sia giunto per tutti il momento
di erigere ponti e non muri. Perché.
Quando rientra in casa, dopo essere stata
dai suoi, è già buio pesto. Nella segreteria non c'è nessun messaggio, e il
cellulare non ha mai suonato. Non sa quindi se Diego verrà. Non prova a
richiamarlo. Vuol lasciare fare al destino. Prepara una cena veloce, svolge
tutti i consueti compiti serali in fretta, non vuole farsi trovare impreparata
all'incontro.
Il suono del campanello è simile a quello
di quattro anni fa: tre piccoli squilli ravvicinati. Mentre apre il portone lo
vede attraversare il giardino. Ha le spalle curve, un incedere quasi timoroso.
Lo aspetta sulla soglia, e non può negare a se stessa che il cuore le batta forte.
Eccolo. E' lì, davanti a lei.
Caterina allunga un braccio e gli prende
una mano.
Lo fa entrare e chiude la porta.
Piano.
Affinché la bambina non si svegli.
(dalla raccolta di racconti inedita
“Amado mio e altre canzoni”)