L'avevamo fatto prigioniero…
di Laura Costantini e Loredana Falcone
“Sarà puntuale?”, chiese Tomaso
accendendo una sigaretta al riparo dal vento teso che alzava le onde e spirali
di sabbia.
“I giornalisti non lo sono mai!”, commentò Alfonso, inforcando gli
occhiali per dare ancora una scorsa all'articolo apparso su <Latina Oggi>
due giorni prima.
“Lo sai a memoria ormai, che altro vuoi trovarci?”. Il rumore
croccante di una caramella che veniva scartata
accompagnò la voce di Guglielmo. Abbandonò l'incarto al vento e lasciò vagare
lo sguardo sul tramonto mentre palleggiava la
<Rossana> da una guancia all'altra.
Il breve articolo a firma Max De Feudi era saltato agli occhi di
Tomaso con la potenza di una deflagrazione. In occasione dei lavori che il
comune di Latina aveva avviato sul litorale di Borgo Grappa per la
realizzazione di un parcheggio pubblico, gli operai si erano imbattuti in un
macabro reperto: lo scheletro di un bambino in divisa da balilla.
Immediatamente il ricordo era corso al <caso Leonardi>.
“Pedofilia!”, sputò fuori Alfonso accartocciando il giornale. “Ormai è
una moda, non sanno parlare d'altro!”.
“Che vuoi che dica un cronista di… quanti anni può avere? Trenta?
Trentacinque? Non ha conosciuto don Bruno”, obiettò Guglielmo facendo sparire
un'altra caramella.
“La pianti?!”, lo apostrofò Tomaso. “Col
diabete che ti ritrovi, rischi di restarci su questa spiaggia!”.
“E allora?! Vogliamo parlare del tuo
enfisema? Ha ragione tua moglie, sei un incosciente! Una ne spegni e un'altra
ne accendi!”.
“Piantatela tutti e due. Sta arrivando il giornalista e non è il caso
di farci subito conoscere come tre vecchi rincoglioniti e rissosi. Io, a
vedervi, non vi darei mica retta…”.
“Invece a te!”, fu il commento all'unisono.
Invidiarono il passo spedito con cui il cronista di <Latina
Oggi> affrontò le dune che a loro tre erano costate più di un affanno.
Tomaso ne era sceso sibilando come una vecchia teiera.
Nella bella luce del crepuscolo il sorriso del ragazzo sembrò un
affronto alle loro dentiere. Guglielmo lottò con la lingua per staccare un
frammento di <Rossana> dallo scheletrato, poi
indirizzò un cenno di saluto.
“Spero di non avervi fatto aspettare troppo… Un appuntamento in
spiaggia a quest'ora e con tutta questa umidità…”.
“Giovanotto”, rispose piccato Tomaso, “lei non si preoccupi. Veniamo
ai fatti”.
Il giornalista nascose un sorrisetto ironico
ed estrasse il piccolo registratore.
“Sono qui per questo. Con chi di voi ho parlato al telefono?”.
“Alfonso Marcolin, per servirla”, si fece
avanti l'interpellato, ostentando una troppo vigorosa stretta di mano.
“Io ho letto il suo articolo, Tomaso Fantoni”.
“Guglielmo Chiesa, e non sono d'accordo su tutta questa storia! I
morti vanno lasciati in pace”.
“Non quando la loro memoria viene messa in
discussione. E lei, giovanotto, prima di scrivere
certe cose, farebbe bene a documentarsi”. Un'altra sigaretta venne
accesa accompagnata da un colpo di tosse. “Don Bruno era una persona
meravigliosa, un sant'uomo!”.
“Vogliamo andare per ordine?”, propose Max guardandosi intorno e
trovando un tronco sul quale sedersi. I tre anziani furono costretti ad
imitarlo con un accompagnamento di giunture scricchiolanti.
“Poi mi date una mano ad alzarmi”, intimò in un sussurro Tomaso agli
altri due.
“Che ne sapete voi di Ferruccio Leonardi?”.
Rimasero in silenzio per qualche istante. Guglielmo fu tentato di
ricorrere ad una terza caramella, poi si convinse a desistere. Il suo sguardo e
quello di Alfonso conversero su Tomaso che fu visibilmente compiaciuto di quel
passaggio di testimone.
“Eravamo tre ragazzini di undici anni. Gli americani stavano per
sbarcare ad Anzio, quella che i libri di storia conoscono come Operazione Shingles, ha presente?”.
Il cronista annuì. Guglielmo e Alfonso lanciarono al cielo viola uno
sguardo di sopportazione.
“Tutta questa zona era ormai una prima linea e chi aveva vissuto il
giogo fascista come un peso insopportabile, mordeva il freno. Immediatamente
prima del 22 gennaio del 1944, i paracadutisti alleati cominciarono a piovere
dal cielo come confetti a un matrimonio. Noi tre, dopo
la scuola, venivamo in spiaggia e giocavamo alle <truppe da sbarco>. Di
solito Alfonso faceva il nazista…”.
“Non credo che questo interessi al signor De
Feudi!”.
“Chiamatemi Max, è più comodo. Ma Ferruccio Leonardi?”.
“Era un nostro compagno di scuola… giovanotto, ci sto arrivando.
Dunque, in una di queste nostre, come vogliamo dire…,
scorribande, ci imbattemmo in un paracadutista americano ferito che si era
nascosto tra le dune. Può immaginare la nostra eccitazione…”.
“No, che non può. Lui non c'era”, commentò Guglielmo.
Rimediò un'occhiataccia.
“Lo avete aiutato?”, chiese Max.
“Ovviamente”, rispose Alfonso. “Eravamo bambini, ma sapevamo
perfettamente quale era la parte giusta. Quel soldato si chiamava Charles, aveva un braccio spezzato e quasi la nostra età.
Era impaurito da morire. Lo abbiamo nascosto in un capanno sul lago di Fogliano, un posto dove andavano i pescatori durante la
bella stagione. Ogni giorno, dopo la scuola, ognuno di noi procurava qualcosa
da mangiare e glielo portavamo. Gli avevamo anche steccato il braccio con le
canne”.
“Nessuno vi aveva detto che rischiavate la pelle se foste stati
scoperti?”.
“Ce lo aveva detto don Bruno”, intervenne
Guglielmo. “Eravamo talmente eccitati per quello che avevamo fatto, che il
giorno stesso in cui lo trovammo, siamo corsi in oratorio per dirglielo. Lui ci
ha sgridati, ha detto che era una pazzia, poi ci ha dato dei medicinali per
aiutarlo. Non poteva venire con noi, i fascisti lo tenevano d'occhio”.
“Per la storia della pedofilia?”.
“Giovanotto, questa storia è la più grossa stronzata
che sia mai stata inventata! Don Bruno non avrebbe
mai, e dico mai, toccato un bambino!”.
“Era una calunnia messa in giro dai fascisti”, spiegò Alfonso, “perché
don Bruno non nascose mai le sue idee democratiche. E si oppose
quando il gerarchetto del paese segnalò uno
dei nostri insegnanti per il confino, accusandolo di essere un pervertito… un
gay, insomma”.
“Quindi don Bruno faceva, a suo modo, della resistenza…”.
“Non a suo modo”, puntualizzò Guglielmo. “Rischiava la pelle. Dopo
l'otto settembre in questa zona eravamo totalmente in balia dei tedeschi e dei
fascisti. Bastava una parola di Leonardi e, se ti
diceva bene, finivi a Ventotene. Se ti diceva male…”.
“Leonardi chi? Il padre di Ferruccio?”.
“Esattamente”, rispose Alfonso, togliendo la sigaretta dalle dita di
Tomaso per prenderne una tirata. “E suo figlio, che era nella nostra stessa
classe, era carogna tale e quale al padre…”.
Il silenzio calò sulla spiaggia ormai quasi buia. Il
registratore di De Feudi incise sul nastro alcuni istanti del fruscio
forte del vento.
“Cosa ha fatto Ferruccio?”.
Max lo chiese in un sussurro, temendo che
quelle stesse parole potessero bloccare un parto che, lo vedeva negli occhi dei
tre anziani, già si presentava complicato. C'era riserbo, in quegli sguardi,
rimorso, forse anche rimpianto.
“Lo vogliamo dire o ce ne stiamo qui a prendere freddo?!”, esclamò Guglielmo, rompendo il silenzio e l'incarto
dell'ultima <Rossana>.
“Vede, forse non era cattivo”, tentò di analizzare Alfonso, “era
figlio unico e certo l'esempio del padre l'aveva, come dire, guastato. Ma, alla
luce dei fatti, l'unica realtà era che Ferruccio era proprio uno stronzo. Si divertiva a fare la spia su tutto. Se non avevi
fatto i compiti, se avevi copiato in classe, se fumavi, se ti tiravi qualche…
scusi l'espressione, sega. Con lui in giro non eri mai tranquillo, appariva nei
momenti meno opportuni e la sua disgrazia era che pensava di farla franca.
Sempre. Suo padre era un gerarca, chi poteva toccarlo?”.
“Invece a noi ci toccavano eccome”, ricordò
Guglielmo. “Ne abbiamo prese poche di bacchettate sulle nocche per colpa sua!”.
Max estrasse il pacchetto delle sigarette e, immediatamente, Tomaso e
Alfonso gli puntarono gli occhi addosso. Capì e gliene offrì. Lottarono tutti e
tre con il vento per accendere, mentre Guglielmo controllava l'orologio. Sua
moglie gli avrebbe piantato una grana grossa quanto una casa per quella
sparizione inspiegata.
“Ferruccio scoprì l'americano?”.
“Fece molto di più”, ammise Tomaso. “Minacciò di raccontare tutto a
suo padre e di farci consegnare alle SS, insieme a tutte le nostre famiglie.
Disse che i nazisti avrebbero preso l'americano e lo avrebbero torturato per
scoprire dove sarebbero sbarcati gli alleati. Disse che avrebbero vinto la guerra,
che lui sarebbe entrato nella Gioventù Hitleriana e che noi tre saremmo finiti
nei campi di lavoro forzato, a spaccare pietre fino a quando
la tisi non ci avesse ammazzati. Disse tante di quelle cose che…”.
Il fiato gli mancò e l'enfisema si fece sentire con un sibilo profondo
che gli saliva dal torace. Guglielmo gli batté una
mano sulla spalla.
“Sono passati sessant'anni, Toma'. Non vale la pena…”.
“E voi lo avete ucciso?”.
“Noi lo abbiamo fatto prigioniero”.
Lo sguardo di Alfonso rincorse il movimento delle onde, e il ricordo
di quel giorno.
“Era il 20 gennaio, un giovedì. Le lezioni erano finite prima, nel
pomeriggio ci aspettava don Bruno per il catechismo. Avevamo un pezzo di pane e
delle noci da portare a Charlie, così ci siamo
avviati verso il lago di Fogliano. Era inverno, ma
era una giornata tiepida, il sole splendeva e la primavera sembrava vicina.
Ogni tanto scattavano gli allarmi aerei, ma le bombe non arrivavano qui. Le fortezze volanti puntavano altrove e noi sentivamo
solo il rumore”.
“Charlie stava male”, disse Tomaso. “Aveva
la febbre e male al braccio. Don Bruno aveva promesso che, appena avesse fatto
notte, sarebbe andato lui a dargli un'occhiata. Io comunque avevo rubato a casa
la bottiglia di laudano di mia nonna, gliene abbiamo dato un po' e pareva che
stesse meglio. Provava sempre a dirci qualcosa, forse voleva ringraziarci, ma
noi non capivamo una parola”.
“Quando siamo usciti dal capanno, ci siamo trovati davanti Ferruccio.
Se ne stava appoggiato alla bicicletta nera fiammante e aveva tutta la bocca
impiastrata dal lecca-lecca che stava succhiando. Non ne vedevo uno da anni…”.
Gli occhi scuri di Guglielmo sembravano rivivere quella scena, lo testimoniò
con lo schiocco della lingua. “Portava la divisa da balilla, perfettamente
stirata dalla governante. Sogghignava perché aveva un nuovo segreto da
spiattellare. Un segreto bello grosso…”.
“Ma noi eravamo in tre. La sua arroganza non gli aveva neanche fatto
mettere in conto che potevamo decidere di suonargliele”.
“E gliele suonammo”, disse Alfonso senza riuscire a trattenere un
sorriso soddisfatto. “Lo riempimmo di calci e pugni, poi lo trascinammo nel
capanno. C'erano sempre dei pezzi di spago, di vecchie reti da pesca, lo
abbiamo legato stretto ad un palo. Volevamo imbavagliarlo, ma anche se avesse
gridato, nessuno poteva sentirlo in mezzo ai canneti. Lo lasciammo lì e
corremmo via. Eravamo in ritardo per il catechismo”.
“E contavate di tenerlo prigioniero fino a quando?”.
“Fino alla fine della guerra, se fosse stato necessario” disse
Guglielmo.
“Le voci correvano. Certo non sapevamo che di lì a due giorni gli
americani sarebbero sbarcati ad Anzio, ma tutti si aspettavano l'apertura del
secondo fronte. E comunque la sensazione era che la guerra stesse per finire”.
“Ci siamo resi conto di aver fatto un errore solo
quando siamo entrati in oratorio”, ricordò Tomaso, “e abbiamo incontrato
lo sguardo di don Bruno”.
“Che genere di errore?”
“Giovanotto, lei non presta attenzione! Meno male che i vecchi siamo
noi! Don Bruno sapeva di Charlie, aveva promesso di
andare a dargli un'occhiata quella stessa notte. Avrebbe trovato nel capanno
Ferruccio!”.
“E lo avrebbe liberato”, rincarò Guglielmo, “senza pensare neanche per
un attimo alle conseguenze per se stesso. Quell'infame
sarebbe corso di filato dal padre, per raccontare tutto, soprattutto che don
Bruno aiutava gli alleati. Lo avrebbero fucilato”.
“La verità è che quel giorno saltammo la lezione di catechismo…”.
Alfonso lasciò la frase in sospeso.
“Siete tornati al capanno?”.
“Non subito, prima abbiamo fatto la riunione. A casa di Tomaso a quell'ora non c'era nessuno. Siamo andati nel solaio, con
le sigarette che io avevo rubato a mio padre. Facemmo fumare anche Guglielmo
quella volta…”.
“Che schifo! Ogni volta che ripenso al sapore amaro del tabacco, mi
risuona nella testa quella frase: <dobbiamo ammazzarlo>”.
Il giornalista non nascose lo sguardo stupito.
“Ma eravate dei bambini!”.
“Eravamo bambini di guerra, ragazzo. Ci hanno fatto crescere in fretta
a noi, talmente in fretta che ci rendemmo subito conto
che non avremmo potuto farlo passare per un incidente. Scavammo la fossa nelle
dune ancora prima di andare al capanno per ucciderlo”.
Le parole di Alfonso erano cadute come sassi. Max si scoprì a
deglutire a vuoto mentre i tre anziani fissavano la
sabbia ai loro piedi e la aravano con le dita nodose.
“Come… come lo avete fatto?”.
Tomaso si schiarì la voce e quando alzò la faccia, anche nella luce
sempre più fioca il cronista si accorse delle lacrime negli occhi rotondi e
tristi.
“E' stata la cosa più difficile. E' che non… io non avevo
mai neanche tirato il collo a una gallina!”.
“Perché, noi si?”, borbottò Guglielmo.
“La pistola di Charlie avrebbe fatto troppo
rumore, e poi era enorme”, sembrò giustificarsi Alfonso.
“Così abbiamo pensato al laudano di mia nonna. Facemmo come avevamo
visto fare ai fascisti con l'olio di ricino. Tenemmo fermo Ferruccio e lo
costringemmo a bere tutta la bottiglia. Poi ci siamo seduti ad aspettare…”
Tomaso non riuscì a continuare. Tirò rumorosamente su con il naso e si
nascose la faccia tra le mani.
“Era incosciente quando gli abbiamo tenuto la
testa sott'acqua”, finì per lui Alfonso.
La luce in cielo era quasi del tutto sparita. Il vento era rinforzato
e il freddo cominciava a farsi pungente come la sabbia contro la pelle del
viso. Max spense il registratore e si accese un'altra sigaretta. Questa volta i
due vecchi fumatori non allungarono gli occhi verso il pacchetto. Ognuno di
loro si torceva le mani, come se sentissero ancora, sotto le dita, la testa di
Ferruccio che tentava di galleggiare verso l'alto.
“Perché mi avete raccontato questa storia? Nessuno, mai, sarebbe
risalito a voi. E' successo quasi 60 anni fa…”.
“E' stato per don Bruno”, mormorò Guglielmo. “Con la vostra curiosità
da giornalisti, siete andati a rivangare quella storia della pedofilia e non
potevamo permetterlo, capisci? Don Bruno non se lo merita. Lui, se fosse
entrato in quel capanno, lo avrebbe salvato a Ferruccio!”.
Il cronista si alzò e cominciò a percorrere, avanti e indietro, lo
spazio davanti al vecchio tronco, nodoso quanto le giunture di quei tre.
“Cazzo! Era un bambino! Come vi è saltato in
mente?! Potevate…”.
“Non ci aspettiamo che lei capisca, giovanotto”.
“Io invece voglio capire! Lo avete assassinato a sangue freddo e vi
siete tenuti dentro questo segreto per tutti questi anni. Poi io sfioro la
memoria di un prete morto da una vita, e voi mi rovesciate addosso
tutto questo orrore! Perché?!”.
“E a se stesso che sta pensando, o a noi?”.
La domanda di Alfonso lo costrinse a fermarsi. Non li distingueva
quasi più, nel buio.
“A me stesso! Vi rendete conto? Il caso di Ferruccio Leonardi ha fatto parlare tutto l'Agro Pontino
per anni. Si è detto tutto e il contrario di tutto. La madre è morta di
crepacuore!”.
“Non è stata la sola. Le madri di coloro che Leonardi
padre ha tradito hanno pianto lacrime di sangue”, protestò Tomaso.
“Ma lui era un bambino!”.
“Anche noi!”, ribatté Guglielmo. “Non cerchiamo la sua assoluzione.
Crede che in tutti questi anni non ci siamo chiesti se
meritassimo di vivere? Ogni volta che guardo mio nipote negli occhi, rivedo
quelli di Ferruccio… Era un bel bambino…”.
“Che cosa dovrei fare io, adesso?!”.
“E' evidente. Deve scrivere la verità”.
Max rise sarcastico.
“Certo! Voi ve ne lavate le mani, tanto ormai siete vecchi e quel che
è fatto è fatto. Ma non pensate alle vostre famiglie? Ai vostri nipoti? Che
penseranno di voi?”.
“Che non abbiamo avuto scelta”, rispose Tomaso.
“Che non conoscevamo altro mondo che la guerra”, aggiunse Alfonso.
“L'avevamo solo fatto prigioniero…”, mormorò Guglielmo.
E Max riconobbe nelle sue parole l'eco della voce di un bambino.