NOTTURNI LIVORNESI
di Gordiano Lupi
La nostra
città. Che poi chiamarla città è un po' eccessivo, se si vuole. Cittadina sa di
ricordi della scuola elementare. Paese è un po' riduttivo. Insomma questa città
è uno di quei posti di provincia dove le giornate hanno tutte
lo stesso sapore e il passare del tempo non lascia traccia. Però vivere
in provincia non è che mi sia mai dispiaciuto e sono io che l'ho scelto. Subito
dopo laureato mi avrebbe assunto una grande azienda del nord. Rifiutai,
spaventato dall'idea di dovermi trasferire a Milano. Avevo amici che vivevano
in città e non li invidiavo per niente. Sapevo che non sarei stato capace di
adattarmi ai ritmi della metropoli e a quel via vai di
auto e persone sempre indaffarate in qualcosa d'importante. E poi mica mi chiamavo Bianciardi. Se
non c'era riuscito lui a scappare dalla Maremma e a farsi una vita che non
fosse agra…
La mia
città si può percorrere in lungo e in largo in un pomeriggio e le distanze sono
così ridotte che l'auto non è essenziale. Con tutto questo nessuno ne fa mai a
meno. Ma questo è un altro discorso.
La vita
scorre in un fazzoletto di poche centinaia di metri, lungo una spaziosa via del
centro che porta al mare, quella che un po' pomposamente chiamiamo corso.
“Ci
vediamo in corso” era la frase ricorrente tra noi ragazzi, quello era il posto
dello struscio serale, la via che per
anni abbiamo percorso avanti e indietro almeno dieci volte al
giorno. E adesso che siamo cresciuti abbiamo passato il testimone alle nuove
generazioni. I tempi cambiano ma il corso resta. Con le stesse abitudini e
identici rituali. Non chiedetemi perché. Fare
le vasche in corso è sempre stato il passatempo preferito del liceale e
dello studente universitario che tornava a casa per il fine settimana.
Si
incontravano gli amici, si facevano quattro chiacchiere, si tampinava qualche
ragazza. Durante l'estate gli aficionados dello struscio
si trasferivano sul mare, verso le baracchine bianche e rosse, ai Bagni Pancaldi,
alla Rotonda di Ardenza, insomma bastava un posto
dove ci fosse una spiaggia e un po' di fica, ché quello si cercava, mica altro. Un bar con vista
su mare e ombrelloni, scogliere e tanga, bikini scosciati e tette al vento. Tra
un bagno e l'altro ci bastava un po' di musica, una partita a flipper e magari
due scozzi a calcio balilla e biliardo. Però durante l'inverno era d'obbligo la
puntatina in corso,
sulla sera, poco prima di cena. Anche se mancava ancora qualche pagina di
latino da tradurre. Anche se il capitolo di storia appena l'avevamo letto e
restava da ripetere. C'era sempre il secchione da cui
copiare il giorno dopo… La nostra cultura era quella del flipper con i record
segnati con la penna biro, del calcio balilla con i vecchi calciatori
decapitati e anneriti, dei primi videogames artigianali che si facevano strada. Non solo. Era
la cultura del cinema con il doppio spettacolo domenicale e la signora che
vendeva manciate di semi per poche lire. Era la cultura del campino
sterrato della parrocchia, dove abbiamo sognato da bambini di emulare Mazzola e
Rivera. Era la cultura dei nonni che raccontavano le
fiabe tenendoci per mano nelle giornate di vento. E vivevamo così il nostro
tempo libero, dopo lo studio, dopo l'allenamento allo stadio per la partita
della domenica, prima di andare al cinema o a ballare.
Le notti
di Livorno erano passione di una provincia che sorride
ai tuoi occhi di ragazzo che affronta la vita. Fossi
maleodoranti dove gettare una lattina di birra o le finte teste di Modigliani (che grandi erano stati peccato non averci
pensato anche noi) dopo una scorribanda tra amici. Scogliere del Romito con la
luna a picco su una casa uscita dai versi di Montale e io che mormoravo la casa dei doganieri, la casa della mia
sera, con la tua mano stretta nella mia e aspettavo un bacio, un segno che
tutto sarebbe andato bene, che non mi avresti lasciato. Nottate di libeccio con
il mare che superava la balaustra di cemento dell'Ardenza
e bagnava le mura della vecchia chiesa di mare all'Accademia. Maestrale che
pareva uscito da un quadro di Fattori mentre alla
Rotonda mi fermavo a guardare il mare ed era un modo come un altro per
attendere un bacio dalle tue labbra inesperte e tremanti, quasi come le mie. Le
notti della Livorno d'un tempo a dar fastidio alle puttane sui viali, chiedere quanto vuoi e scappare via, ché tanto
non ce l'avevamo il coraggio e mica era vero che ci
volevamo andare. Le notti d'inverno al Blue Moon, un
night che forse adesso ha cambiato nome, a spendere soldi con una ballerina di Setubal, occhi chiari e capelli biondi, seno piccolo e
sedere alto, domandarsi perché una ragazza così bella faceva quel mestiere
invece di scappare insieme a te come un angelo azzurro
venuto da lontano. Notti di tanti anni fa, forse troppi, che lasciano soltanto
un leggero velo di nostalgia, malinconia di quello che è stato e non può
tornare. E adesso sono notti casalinghe, bene che vada un cinema ai Quattro
Mori, se viene Nanni Moretti, o al Kino
Dessé per il Joe D'Amato
Horror Festival che mi ricorda il passato. Ogni tanto una pizza e una gita
fuori porta, una serata in Fortezza se canta un gruppo cubano e fanno musica
latina, una puntatina in Venezia tra palazzi
ristrutturati e quel bel sapore di antico con i panni tesi alle finestre che si
affacciano sui fossi. Questi sono i miei notturni
livornesi, per lo più casalinghi, un bimbo da
crescere, una bambina da cullare sulla scia di ricordi che non tornano e d'un
passato che diventa musica di nostalgia.
Adesso
che ho un lavoro serio mi manca persino il tempo di andare in centro a fare una
vasca. Se esco è solo per acquisti o
un appuntamento importante. E poi non saprei che fare avanti e indietro per
quella strada. Non troverei gli stessi volti, a parte qualche
pensionato davanti al Bar Sport. Ma non è cambiata tanto la mia città,
in fin dei conti si vive ancora come un tempo. C'è lo stesso corso, ci sono i cinema del centro, pure
se hanno aperto i multisala, ci sono tanti bar come
una volta, anche se parecchi parlano lingue straniere, vendono kebab, hamburger, roba così, che io mica la comprendo.
Hanno chiuso le vecchie sale giochi, mancano i carretti dei venditori di semi e
pistacchi, non vedo passare il venditore di gelati, non ci sono biliardini e
flipper. Per questo mi fermo poco in centro e non mangio il gelato nei bar
troppo eleganti che espongono gusti multicolori. Non avrebbe più il sapore di
una volta. Avrebbe un gusto troppo amaro. Saprebbe di rimpianto. Perché in
fondo in fondo lo comprendo cosa è cambiato. E non mi va mica tanto di
ammetterlo.