PARCO
di Gianfranco Franchi
Mi bruciano sempre gli occhi quando riesco a vederla, la mattina. Le scintille
fastidiose del sole grattano ruvide sui castani rossi (nato notturno), la
frangia diventa una tenda; in fin dei conti il sole è come i vostri sguardi –
pretendo di deviarli, se ne ho voglia. Ogni sguardo è un privilegio, perché
sprigiona colori segreti e non è meno innocuo delle mani. Queste mie mani che
servono solo a scrivere, e non carezzano e non stringono più niente – sono
fronde dell'uomoalbero, sempreverdi. Avanzo nel parco
controllando il battito del cuore, che oggi barcolla e sussurra musica che non
so ascoltare e poi accelera senza darmi pace; provo a camminare piano, a
fermarmi e a guardare i prati. Ho voglia di qualcosa che non conosco – può
esistere una nuvola che mi baci come fossi terra? Voglio un disordine che sia altro da me, per una volta – che dei drammi delle farse
dei gioiosi lutti miei sono stanco, non più ne ho bisogno; guardare nell'abisso
dà solo nausea di me e vertigine (e aritmico battito e ritmo porpora ai
pensieri). Incrociatemi con l'umanità – aiutatemi a debellarmi, nutritevi delle
fronde sempreverdi e dei castani deboli e della frangia sipario e dei tronchi
scolpiti di sale e sabbia che sono le mie gambe; il mio sangue è stanco degli
argini e vuole precipitare a valle (quanto fertile sarà il domani). Leggo Rétif de la Bretonne
e m'accorgo che allora sono soltanto di passaggio: tornare ancora una volta
potrà servire ad amare nuove bianche e rivoluzionarie e incoscienti e poi a
perdermi in nuove locande a screpolare il dorso delle mani (sul palmo voglio
tatuare una lettera sola: quella che rimane).
Seduto su questa panchina che fino a
ieri non aveva senso, v'ascolto.
Forse è servito consegnare giovinezza
alla lettura – sono furioso e stanco e voglio tornare a scrivere per essere
grande, senza più patire generosità e umiltà: controllo e disperante lucidità e
chiara conoscenza dell'innesco, ché adesso arte nuova può nascere e tracimare.
È solamente rabbia questa, e spazientita, di gatto torturato da troppe dita
famigliari e stupide: datemi carta bianca che dubbi più non ho, non avrò, e non
voglio mai avere – tornato come sono per restare impresso e mostrare cosa è
giusto leggere – ricordare come dovresti scrivere. Presuntuoso, pretestuoso e
immondo. Criticami, che mi diverto. Schiaffeggia questo stile e ne resterai
infestato.
Comincio a raccontare le storie che
devono essere raccontate: a rubare a dio il presente. Voglio essere nemico di
ogni cosa. Non mi riconosco in niente, se non nell'amore – che in fondo adesso
non esiste, e non posso che sognare; voglio essere artefice dell'espressione
pura, e non rinnegarmi più. Tempo per l'abiura dello studio
adesso, e per interrompere il viaggio: io ho sempre voluto essere quel che
sentivo di essere – non rimane che scrivere, e combattere la prima e più giusta
battaglia: essere, non esistere, e creare.
Inondami di musica. Voglio musica da
trasformare.
S'avvicinano due ragazzi – marinare è
verbo docile – con un pallone. Sulla panchina siamo io e Rétif
de la Bretonne, che mi restituisce – e a questo vale leggere – coscienza di me. Uno mi chiede se ho una
sigaretta. Tieni, drogati, è cosa buona e fertile. Questa è una che dura più
delle altre. È fatta per rimanere sospesa tra le nuvole e la terra, quando
aspiri.
Come la scrittura.
Se ne vanno a giocare e io strappo
una pagina di Rétif e tiro fuori l'accendino. Il
resto è nella tua immaginazione. Stanotte vagherò per i tuoi sogni – voglio che
mi racconti tutto. Intanto stillerà la mia anima. Ho in mente un'opera nuova,
mi servi. Dammi parole e ricordi e bugie. Voglio fogli pieni di bugie. Domani
voglio essere fatto a pezzi – e lasciare le mani a chi conosce questo fuoco che
niente uccide, e tutto cambia. Per sempre.
(Tratto da “Disorder”, Il
Foglio Letterario 2006)