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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Parco, di Gianfranco Franchi 08/09/2007
 

PARCO

di Gianfranco Franchi

 

Mi bruciano sempre gli occhi quando riesco a vederla, la mattina. Le scintille fastidiose del sole grattano ruvide sui castani rossi (nato notturno), la frangia diventa una tenda; in fin dei conti il sole è come i vostri sguardi – pretendo di deviarli, se ne ho voglia. Ogni sguardo è un privilegio, perché sprigiona colori segreti e non è meno innocuo delle mani. Queste mie mani che servono solo a scrivere, e non carezzano e non stringono più niente – sono fronde dell'uomoalbero, sempreverdi. Avanzo nel parco controllando il battito del cuore, che oggi barcolla e sussurra musica che non so ascoltare e poi accelera senza darmi pace; provo a camminare piano, a fermarmi e a guardare i prati. Ho voglia di qualcosa che non conosco – può esistere una nuvola che mi baci come fossi terra? Voglio un disordine che sia altro da me, per una volta – che dei drammi delle farse dei gioiosi lutti miei sono stanco, non più ne ho bisogno; guardare nell'abisso dà solo nausea di me e vertigine (e aritmico battito e ritmo porpora ai pensieri). Incrociatemi con l'umanità – aiutatemi a debellarmi, nutritevi delle fronde sempreverdi e dei castani deboli e della frangia sipario e dei tronchi scolpiti di sale e sabbia che sono le mie gambe; il mio sangue è stanco degli argini e vuole precipitare a valle (quanto fertile sarà il domani). Leggo Rétif de la Bretonne e m'accorgo che allora sono soltanto di passaggio: tornare ancora una volta potrà servire ad amare nuove bianche e rivoluzionarie e incoscienti e poi a perdermi in nuove locande a screpolare il dorso delle mani (sul palmo voglio tatuare una lettera sola: quella che rimane).

Seduto su questa panchina che fino a ieri non aveva senso, v'ascolto.

 

Forse è servito consegnare giovinezza alla lettura – sono furioso e stanco e voglio tornare a scrivere per essere grande, senza più patire generosità e umiltà: controllo e disperante lucidità e chiara conoscenza dell'innesco, ché adesso arte nuova può nascere e tracimare. È solamente rabbia questa, e spazientita, di gatto torturato da troppe dita famigliari e stupide: datemi carta bianca che dubbi più non ho, non avrò, e non voglio mai avere – tornato come sono per restare impresso e mostrare cosa è giusto leggere – ricordare come dovresti scrivere. Presuntuoso, pretestuoso e immondo. Criticami, che mi diverto. Schiaffeggia questo stile e ne resterai infestato.

Comincio a raccontare le storie che devono essere raccontate: a rubare a dio il presente. Voglio essere nemico di ogni cosa. Non mi riconosco in niente, se non nell'amore – che in fondo adesso non esiste, e non posso che sognare; voglio essere artefice dell'espressione pura, e non rinnegarmi più. Tempo per l'abiura dello studio adesso, e per interrompere il viaggio: io ho sempre voluto essere quel che sentivo di essere – non rimane che scrivere, e combattere la prima e più giusta battaglia: essere, non esistere, e creare.

Inondami di musica. Voglio musica da trasformare.

 

S'avvicinano due ragazzi – marinare è verbo docile – con un pallone. Sulla panchina siamo io e Rétif de la Bretonne, che mi restituisce – e a questo vale leggere – coscienza di me. Uno mi chiede se ho una sigaretta. Tieni, drogati, è cosa buona e fertile. Questa è una che dura più delle altre. È fatta per rimanere sospesa tra le nuvole e la terra, quando aspiri.

Come la scrittura.

 

Se ne vanno a giocare e io strappo una pagina di Rétif e tiro fuori l'accendino. Il resto è nella tua immaginazione. Stanotte vagherò per i tuoi sogni – voglio che mi racconti tutto. Intanto stillerà la mia anima. Ho in mente un'opera nuova, mi servi. Dammi parole e ricordi e bugie. Voglio fogli pieni di bugie. Domani voglio essere fatto a pezzi – e lasciare le mani a chi conosce questo fuoco che niente uccide, e tutto cambia. Per sempre.

 

(Tratto  da “Disorder”, Il Foglio Letterario 2006)

 

 

 
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