La
pistola di carta
di
Enzo
Lombardo
Vuole sapere cosa ricordo di quella
sera e di quella notte? Oh, dottore, io adesso ricordo tutto, momento per
momento, come un film. Ed anche le parole, tutte: anche quelle non dette ma
solo pensate. Ha presente un libro aperto? Ecco: io sono un libro aperto. Prima
i ricordi erano scappati. Paura? Forse. O forse per troppa voglia di vivere.
Ora i ricordi sono tornati. Tutti in una volta. Tornano al mattino, quei ricordi;
anche la vergogna ritorna ed anche gli altri, qui, nell'Istituto, me la vedono
dentro, l'ascoltano, ma non scappano, non inorridiscono. Dicono
sempre: sì, sì, certo, come no. Non vogliono capire
ad ogni costo: non ne hanno bisogno.
Comunque quella sera mia madre
gironzolava in cucina preparando la cena ed aveva un'aria annoiata, un broncio
che da un po' di tempo le vedevo sempre più spesso stampato in faccia, specie quando c'era in casa mio padre. Ad un tratto disse:
- Dante ha un cuore d'oro ed anche le
mani ha d'oro, quell'uomo, quando tocca la roba.
Mia madre lo disse piano, con la sua
vocina sottile, di ragazza, quasi parlando tra se, ma non tanto da non farlo
sentire a babbo mio che, anche se era grande e grosso, a quel tempo stava male
e da un anno non faticava più tutto il giorno come prima, ma rimediava solo
qualche soldo come guardiano di notte in un garage. Così tirava la giornata
metà a dormire e metà seduto a fare niente giù al bar,
aspettando sera, oppure restava in cucina a leggere il giornale che portava su,
quello di ieri.
- Tuo fratello ha proprio il bernoccolo giusto
per gli affari. - continuò lei più forte - Si vede che sa trattare con la
gente. Quel suo banco, al mercato, tira che è un piacere.
Mio padre per un pò
fece finta di niente. Poi sbottò:
- E' vero, Angiolina,
è vero. Che lo ripeti a fare? Lo so anch'io ch'è bravo. Se è per questo, manco
pare mio fratello... Dante ci ha proprio un talento
naturale per le cose sue.
- Le cose sue! - sbuffò mia madre -
Ed anche le nostre, se permetti: e guarda! - E tirò su un borsone di roba che
zio Dante aveva portato dal mercato. Roba buona che si sentiva l'odore da
lontano.
Era giovane, allora, mia madre. Era
bella. Portava vestiti corti e colorati e ciabattava a casa con delle pantofoline con un fiocco giallo e il tacco trasparente e,
passando in camera da letto, si guardava avanti e dietro nello specchio
dell'armadio, come se dovesse uscire da un momento all'altro. E con quelle
ciabattine e quelle gonne, quando, sul ballatoio comune, si curvava per
stendere i panni, le si vedevano sempre le gambe nude
fino in fondo ed io avevo vergogna a guardare, ma guardavo, ed avevo anche
paura che qualcuno, giù dal cortile, alzasse dritto gli occhi su di noi.
Mio padre, invece, s'affacciava di
rado, e, se lo faceva, non parlava con nessuno. Qualche volta se ne stava lì a
fumare appoggiato alla ringhiera, guardava in lontananza case e ciminiere,
accarezzava i gatti e tornava dentro appena vedeva qualcuno sulle porte.
Erano sere, quelle, in cui io volevo
andarmene lontano. Lontano da quella casa e da quel quadro affumicato che si
vedeva sempre alla finestra. Lontano dai gatti che venivano a strusciarsi alla
ringhiera del ballatoio per lasciare piscio e peli. Lontano dalle donne che
sorridevano strano e parlottavano tra loro dai balconi vicini. Io fingevo di
non capire, ma capivo. Lo sapevo che parlavano di noi.
E pensavo a mia madre. Volevo
andarmene lontano anche da lei, lasciarla alle sue cose, allo specchio, alle
lunghe chiacchierate con zio Dante, alle occhiate dei vicini e degli altri dal
cortile. Poi qualcosa mi si torceva dentro ed anche se la vedevo nera e la
cacciavo, quella cosa tornava a torcersi come un gatto quando
ti si struscia vicino e fa le fusa e sembra che non abbia le unghie per graffiare.
Ed allora - qualche volta - immaginavo di andarmene via assieme a lei ed essere
grande e parlare sicuro, con una voce potente, proprio come quella che aveva
zio Dante e che a lei piaceva tanto; e di non volere carezze ma tentare di
vederle quelle cose da femmina, nascoste, di cui mi parlava sempre Mattia dopo
la scuola, anche se sapevo che non sarei riuscito a vedere niente, perché avrei
chiuso, forte forte, gli
occhi.
Durava solo un momento, quel
pensiero, ed era un pensiero strano, morbido: proprio come le zampe dei gatti.
E quel pensiero restava lì, appeso, a dondolare, ed io non volevo davvero
entrarci dentro, non volevo neppure toccarlo. Sapevo che aveva gli artigli
nascosti, arrotolati come quelli dei gatti. Ed anche se durava solo un momento,
io per mezz'ora respiravo male e dentro sentivo salire un odio per qualcuno,
non sapevo bene per chi e se quel qualcuno non fossi
proprio io.
Per questo volevo scappare: sognavo
di andare in un posto lontano, un posto sconosciuto e laggiù dimenticare tutto e
tutti, e non avere più paura dei miei pensieri né dei miei occhi e non
arrossire più in certi momenti.
Andare via. Dove?
Poi mi dicevo che il babbo stava
male, che non volevo lasciarlo da solo a intristire davanti al suo giornale e
alla tivù ed anche se sapevo che era una grossa bugia, mi ripetevo la stessa
cantilena, al punto che avevo finito per crederci davvero.
Quella sera, dopo che babbo uscì per
il lavoro, scesi le scale di corsa, volai sugli ultimi gradini di ogni rampa e
mi ritrovai nel grande atrio del caseggiato, davanti alle altre oscure bocche
di scale con i loro denti di scalini sbrecciati.
Oltre il portone mi fermai un poco e
guardai in su, verso casa. Si sentiva la voce
mescolata di tutti i televisori del caseggiato e si vedevano le luci colorate
riflesse nelle finestre appannate. In quella che dava sulla cucina nostra si
intravedeva a tratti la figura snella di mia madre che passava dietro la
finestra con in mano uno straccio, una pentola, un
piatto, e, quasi senza accorgermene, stetti tanto nell'ombra, stetti troppo,
finché pensai che la stavo guardando proprio come si guarda una donna e allora
corsi via. Corsi a perdifiato come se m'inseguisse qualcuno; corsi fin sulla
provinciale e sentivo il vento sulla faccia: era fresco ma
non riusciva a spegnere la vampa di calore.
I camion lasciavano una striscia di
luci rosse e di fumo e quelle luci si perdevano lontano e sembravano indicarmi
davvero la strada per scappare.
Intanto il cielo s'era fatto scuro e
qualche lampione acceso proiettava l'ombra mia sulla strada ed io, camminando e
saltando, giocavo a calpestarla. Ma non era solo un gioco, lo sapevo, perché io
odiavo davvero quell'ombra.
Poi mi misi a pensare se era quella la sera giusta per scappare, lasciando quell'ombra sulla strada. Andare. Dove? O forse dovevo
aspettare ancora? Tornare indietro? A che fare? Magari a nascondermi fra le
frasche del cortile e guardare verso la nostra finestra, come un ladro?
*
* *
Da un pò di
tempo non mi piaceva più tirare ai gatti con la fionda, mi toccavo i peli sotto
il naso e con Mattia, quando uscivamo da scuola, parlavamo sempre più di donne
e meno di pallone. Ed anche se Mattia diceva troppo e s'inventava un mucchio di
cose strane sulle donne, e dove e come e così e così, io facevo sempre finta di
sapere tutto ma non avevo chiaro in testa proprio
niente.
Anche quella notte risentivo i
discorsi di Mattia e presi apposta per una traversa perché sapevo che, più
avanti, c'erano quelle che lo facevano per soldi, come fosse un lavoro.
Le vidi da lontano, erano in due
accanto al fuoco che usciva da un bidone: una era grassa, fumava stando seduta
a gambe larghe sopra un paracarro e le si vedeva anche
la pancia nuda sopra la gonnella; un'altra, una mora secca come un palo, stava
appoggiata ad un albero, masticando qualcosa, e ogni tanto inclinava indietro
la testa e sputava lontano, come un uomo.
Erano quelle le donne di Mattia?
Erano quelle che potevano insegnarmi tante cose? A me facevano un pò paura: parevano streghe con
quel fuoco che le illuminava a tratti e quelle ombre lunghe che ballavano
attorno.
Così tornai indietro, sulla
provinciale, solo con i miei pensieri e la mia ombra, e da solo me li trascinai
per quella strada dritta affogandoli in quella poca nebbia e nel fumo dei
camion che mi rombavano a lato.
Camminai per un'ora, un'ora e mezza,
girai tutt'attorno alla borgata ed anche oltre,
evitando il centro perché non volevo stare in mezzo a nottambuli e barboni. Era
già la mezza passata ma non volevo ancora tornare:
avevo bisogno di pensare e stare solo. Avevo la chiave di casa con me e non
m'importava un fico se tornavo tardi o mai più. E poi: mica era la prima volta
che facevo tardi. Qualche volta neppure la vedevo, mia madre. Si chiudeva a
chiave in camera con il suo mal di testa e manco mi sentiva
quando entravo. L'indomani chiedeva: “A che ora sei tornato ieri? Tardi,
eh?”. Poi aggiungeva: “Va bene uscire
con gli amici, Nicuccio, è quasi estate, ma tieni gli
occhi aperti e non prendere niente da nessuno. Niente droga, capito? Hai solo
tredici anni. Quella è roba che ammazza.” - E concludeva: “Beh,
non diciamolo a babbo ché quello, lo conosci, se la prende con me e a te ti
suona.” E lo diceva sempre con un sorriso strano, un sorriso da complice che a
me piaceva.
Ma io m'ero accorto che le mie uscite
notturne non dispiacevano troppo a mia madre. Qualche sera mi sedevo in sala mentre il televisore ronzava, e lei faceva: “Alla tivù
non c'è niente e questo rumore mi fa impazzire. Spegni, spegni, Nicuccio, per favore! Ho un male qui… e qui...” - e si toccava la testa, avanti e dietro e strizzava gli
occhi come se soffrisse anche per quella poca luce della stanza. “Ma tu non
stare da solo” - mi
diceva – “Chiama Matteo, andate insieme al cinema, stasera.” Ed intanto frugava nella borsetta e mi dava i
soldi per i due biglietti ed avanzava anche qualcosa per la Coca.
Quella notte, potevano essere le due,
forse qualcosa meno, mi aggiravo ancora nei viali del quartiere
quando, mezzo nascosta fra gli alberi, non ti vedo la macchina di zio
Dante? L'avrei riconosciuta tra mille, quella macchina:
aveva un pupazzetto portafortuna attaccato allo specchio, una cosa che aveva
comprato in qualche viaggio. Che fortuna ci ha portato quel pupazzo, a tutti
noi!... Ed io pensai: e che ci fa qui zio Dante, ed a quest'ora? E perché ha posteggiato così
lontano da casa quando c'è un mare di spazio nel
cortile? Che si sia sentita male, la mamma? Che l'abbia chiamato? E perché lui?
Perché… Perché…. Perché….
E con tutti i miei “perché” salgo le
scale. Salivo piano perché me lo sentivo che qualcosa era successa o stava per
capitare al terzo piano. Perché io abito al terzo, dottore: importa poco, lo
so, ma voglio che lei sappia tutto, anche le piccole cose, fino in fondo.
Arrivo al
terzo, dicevo, e niente: m'aspettavo, che so, la porta aperta, degli urli, un tramestìo... qualcosa del genere, insomma, ed invece
niente: sentivo solo il mio respiro. E, tra un respiro e l'altro, il
solito rimbombo dei piccoli rumori nella scala. Così in silenzio, come le altre
volte, apro pian piano la porta e non la chiudo subito, per non fare rumore.
C'era Dante lì dentro: ho sentito il
profumo. Non era la prima volta che sentivo quell'odore
di menta e di tabacco ma questa notte era proprio forte, era vicino. C'era
Dante lì dentro: la macchina, il pupazzo e l'odore, tutti
insieme, mi dicevano che zio Dante era là dentro.
Poi cominciai a sentire i lamenti. Si
sentivano a stento. Erano attutiti e venivano dritti dalla camera di mamma, ma
io capii subito che non erano suoi ma di zio Dante. Sempre più lesti, sempre
più forti. E lui diceva qualcosa, non so cosa, non me lo chieda, dottore, non
me lo ricordo, non lo ricordo davvero, so solo che la sua voce raschiava l'aria
come la carta vetrata. Sempre più forte, sempre più forte. Ed anche la voce di
mamma si sentiva, anche la sua era cupa, sembrava che stringesse qualcosa fra i
denti e lo chiamava, Dante, Dante, e quel suo grido
strozzato oscillava sempre più veloce e mi colpiva qui, proprio qui, nel centro
della fronte, ed io allora cominciai a gridare in silenzio, mi gridavo dentro,
sa? ma gridavo lo stesso ad ogni colpo, stringendo i
denti, tappandomi la bocca.
Mi ritrovai a correre e c'era un'erba
pungente e bagnata che mi batteva le caviglie. Forse avevo lasciato la strada e
stavo volando nella nebbia che s'era alzata sopra i campi. Sentivo ancora in
testa i lamenti, i gemiti, le urla e guardavo tutto. Vedevo quello che mi aveva
detto Mattia: e così e così, e sopra e sotto, ed io seppi che era tutto vero. E
vedevo le bianche, lisce, lunghe gambe di mia madre accartocciate tra quelle di
zio Dante. E guardavo fare le cose di Mattia tra mia madre e zio Dante, e
girare e rigirare e contorcersi e rotolare in quel letto grande che ad un certo
punto si mise a tremolare nell'acqua. Ma non mi asciugavo le lacrime, no, no,
lasciavo che mi scorressero addosso e che inondassero la stanza. Volevo che
quel fiume trascinasse via dal letto zio Dante, che lo inghiottisse. E mentre
l'acqua saliva, mia madre restò da sola e c'ero io con lei e lei mi chiamava e
voleva annegare insieme a me.
Chissà come erano le gambe di zio
Dante? Magari nere, sporche, pieni di peli. Forse
hanno sporcato la pelle di mia madre, pensai, ma avrei potuto lavarla io,
quella pelle, se raccoglievo bene le mie lacrime: così mi asciugai il viso con
le dita e strinsi forte i pugni per conservare il liquido. Ti lavo io, mamma -
dissi all'aria, al vento - non sarai più sporca, io ti lavo.
Quando arrivai al garage sentii tre
tocchi al campanile di San Vito.
“Vietato
fumare”, “A passo d'uomo”, “Lasciare la chiave nel cruscotto”: le conoscevo
bene quelle scritte. Eppure non riuscivo a leggerle: le lettere navigavano nel
mare giallo delle tabelle e si mischiavano con i numeri, i prezzi, le strisce
per terra. Mio padre non dormiva nella brandina: era
nel casotto di vetro, dietro una scrivania minuscola e leggeva qualcosa.
Dapprima manco si accorse di me. Quando mi vide non mi riconobbe subito: chissà come
avevo la faccia in quel momento.
C'era una luce forte, bianca, là
dentro. Una luce di neon che faceva male. Ma ad un tratto tutto si spense e
sentii un gran sonno. Mi sentivo bene e scivolavo in un buio tiepido e morbido
e c'era un gran silenzio attorno.
Quando i neon si accesero di nuovo sembravano
ancora più potenti, più feroci: un rosso incandescente riusciva persino a
penetrare se tenevo gli occhi chiusi. A tratti intravidi il nero di una massa
enorme che si agitava sopra di me, che mi chiamava da lontano. Poi quella voce
si fece più vicina ed era quella di mio padre: ora sentivo anche la sua mano
dietro la nuca che mi sollevava la testa dal pavimento e mi resi conto con
meraviglia che lì dentro pioveva forte. Avevo la testa e la faccia bagnata e
sentivo freddo nelle ossa ed il cemento era ruvido e volevo rispondere
ma non riuscivo.
- Svegliati Nico, svegliati, cos'hai?
Cosa ti senti? Cosa è successo a casa? – Mio padre aveva una bottiglia di
minerale in mano e con quella mi spruzzava acqua in faccia. Allora mi ricordai
dell'altra acqua che conservavo nei pugni chiusi.
- La lavo io la mamma, papà. Non sarà
più sporca. Io la lavo.
- Che dici, cristo, svegliati! Che
dici? Chi devi lavare? Stai male? E che ci fai fuori a quest'ora, Nico? – la sua voce rimbombava troppo forte fra le
strisce gialle e nere delle pareti.
- La lavo io con queste – gridai mentre aprivo e chiudevo le mani. Ma mi accorsi che
le mie mani non erano più bagnate.
- Perché la devi lavare? Cosa dici?
Hai sbattuto la testa?
- Le gambe di zio Dante sono nere,
papà, sono tutte piene di peli e sono sporche. Quelle di mamma erano pulite,
erano belle… è stato lui che li ha macchiate.
- Che c'entra zio Dante? Cazzo! E parla! Cos'è ‘sta storia? Chi hai visto? Zio
Dante? E' a casa nostra, zio Dante? Adesso? E' con la mamma? – ma non si aspettava risposte: mentre
parlava mi sollevò di peso e mi fece sedere nel casotto a vetri. Intanto
frugava in un cassetto e prese qualcosa. Io la vidi quella cosa: era nera, era
una pistola più grossa di quella che m'aveva comprato per Natale. Ed era
avvolta in uno straccio tutto macchiato e faceva una gran puzza d'olio. Quella
cosa nera gli ballava fra le mani. Tremava.
Quando riuscì a metterla in tasca mi
disse:
- Tu stai qui. Non ti muovere, capito? - E scappò via dal casotto
e mentre si infilava in una macchina parcheggiata gli si vedeva un gonfiore
strano sulla coscia: doveva pesare tanto quella pistola, non era come quella
con cui giocavo io subito dopo Natale. Quella era leggera, era di plastica. E poi, quella mia, ora è tutta rotta: non ha manco più le cartucce
di cartone e la canna è mezza scortecciata: per questo adesso non la posso
usare. Ma io ce l'ho in mente, quella vera,
quella che babbo mio usava sul lavoro: mi è rimasta talmente impressa nella
mente che l'ho pure disegnata, la vede? tale e quale,
nera, lucida, pesante.
Così aspettai. Ed ero calmo, adesso:
stavo seduto in quel casotto di vetro con tutte le luci attorno e quelle
strisce gialle e nere erano ferme, immobili, come in attesa
di qualcosa. Qualcosa da grandi.
Dovevo fermare mio padre? Corrergli
dietro? Avevo anche il telefono vicino ed accanto una
fila di numeri scritti in un cartone. Polizia. Carabinieri. Pompieri. Croce
Rossa. Ambulanza. Erano numeri piccoli, facili da fare.
Ma stetti fermo. Non feci nulla. Mi
guardai le mani asciutte: cosa potevo fare io con quelle mani? Avrebbe fatto
tutto mio padre per me. Lui era grande. Ed anche se l'aveva persa da tempo la
sua Angiolina, a me l'avrebbe ridata.
Perché io lo sapevo che quella
pistola avrebbe sparato. Avrebbe fatto un botto tremendo in quella stanza e già
vedevo zio Dante contorcersi fra le lenzuola e farle diventare rosse come si
vede al cinema. E vedevo mia madre scivolare dal letto nuda e libera, e cercarmi. Magari
sarebbe corsa fino in garage per vedere cosa m'ero fatto cadendo svenuto.
M'avrebbe toccato la testa e
m'avrebbe detto: - Nicuccio, non è niente, non ti sei
fatto niente. Zio Dante è morto ma era sporco, nero,
pieno di peli, non mi piaceva. Zio Dante, mi toccava ma
io non volevo, mi faceva schifo. Anche le mani aveva sporche: ha fatto bene
papà ad ammazzarlo come un cane. Adesso devo cambiare tutte le lenzuola ma ne valeva la pena. - Sapevo che poi mi avrebbe
sussurrato, come quand'ero bambino: Di chi sono io? Dillo, dillo. Del mio Nicuccio, sono. Del mio tesorino.
E di chi è Nicuccio? Dillo, dillo...
Stetti tanto in quel garage e dopo un
po' pensai che forse mi ero sbagliato. No, non c'era
zio Dante a casa mia. Chissà cos'era quel profumo di menta e di tabacco. Chissà
cosa erano tutti quei lamenti. E volevo che papà mio tornasse presto perché mi
ero stufato di restare ancora in quel posto puzzolente.
Intanto m'ero messo a girare fra le
macchine ed entravo nelle più grosse e m'immaginavo di correre per strade lunghe lunghe e che c'era mamma
mia nel sedile a lato che mi diceva: Sai guidare meglio di papà. Ad ogni curva
cambiavo le marce ma non sapevo come accendere il
motore, così facevo “brrrrrr….brrrrrr” con la bocca e giravo lo sterzo, ed anche se
era duro, lo giravo lo stesso forzando con tutte e due le mani e si sentivano
sfregare le gomme per terra, proprio come se corressi per davvero.
*
* *
Mi trovarono così, quelli che vennero
a prendermi. Era già chiaro ed i neon sembravano fare una luce smorta là
dentro. Entrarono in tre. Una era una ragazza in divisa. Una poliziotta. Ma non
aveva la voce da poliziotta. Parlava piano e sbatteva le ciglia; a tratti
guardava gli altri come per chiedere cosa dire, e poi mi accarezzava i capelli. Proprio non
sembrava una poliziotta. Quando mi misero dentro una bella macchina con scritto
“Polizia” posteggiata in cima alla rampa, lei si sedette con me nel sedile di
dietro e mi continuò a carezzare sulla testa, mentre parlava, allontanandomi i
capelli dagli occhi.
- Ti portiamo per un po' in un posto
bello, con tanti ragazzi. C'è un giardino.
- Perché non mi portate a casa?
- Per adesso non si può. Ma ti
troverai bene. Proprio come a casa.
- E c'è mia madre in quel posto col
giardino?
Invece di rispondermi lei si mise a
parlare con quelli davanti. Diceva un mucchio di cose che non capivo. Pareva
che lo facesse apposta a parlare difficile. Apposta per non rispondermi.
Sentivo la radio gracchiare in mezzo alle scariche tanti nomi di vie e numeri e
quelli davanti parlavano strano anche loro. La radio gracchiò anche l'indirizzo
di casa mia. Uno disse al microfono: Il ragazzino è qui in macchina, con noi.
Seppi tutto un paio di giorni dopo.
Smaniavo, gridavo, volevo sapere tutto. E tutto mi dissero, ma a poco a poco.
Anche di mia madre, mi dissero. Mezze parole: arriverà presto, sta un po' male,
è ferita, è grave, è morta. Fu allora che qualcosa mi si frantumò dentro, come
una bottiglia quando cade per terra. E tutti i ricordi
scivolarono via ed io non sapevo più neppure il mio nome, non conoscevo più
quello di mamma mia, quello di mio padre. Non sapevo chi fosse
Dante. Sapevo solo che all'una si mangia, alle sette
si mangia, alle nove si dorme, cose così; o forse non sapevo neppure quelle perché
andavo appresso agli altri e facevo quello che facevano loro. Riuscivo solo a ricordare le cose per un'ora o due. Esistevo e basta.
Lei dice che è durato più di un anno, dottore? Non lo so, ma ci credo. Poi i ricordi sono
tornati. Da un po' di tempo io ricordo tutto: quella notte gira come al cinema
ed io, prima di ammazzarmi, la rivedo tutta. Rivedo quel letto grande, pieno di
sangue e vedo mia madre galleggiare nuda sopra quel
rosso e girare, girare assieme a zio Dante. Neppure si toccano: come due pezzi
di legno in uno stagno. Sembra che guardano tutti e due il soffitto ma io lo so
che non vedono più niente.
Qui dicono che sono mezzo matto
perché ogni tanto m'ammazzo con una pistola di carta. Ma è con quella pistola
che io ho ammazzato mia madre. Perché sono stato io a metterla nella tasca di
mio padre: quella era solo più pesante ma questa è
uguale: l'ho disegnata bene, guardi, è nera, lucida, anche questa puzza d'olio,
senta, senta, e non sbaglia un colpo, sa? Quando, di sera, l'arrotolo e me la metto in bocca e faccio “bumm!”
il cervello esplode e i ricordi colano lungo il muro, lontano da me. Per
qualche ora, almeno, posso dormire. Poi tornano, tornano sempre. Per questo
devo ammazzarmi di nuovo.