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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La guerra di Piero di Milvia Comastri 09/03/2006
 

                                                                                                                                                                                                                                             Sparagli Piero, sparagli ora

 e dopo un colpo sparagli ancora

  fino a che tu non lo vedrai esangue

   cadere in terra a coprire il suo sangue.                             

 

 

Le palme da dattero sono considerate tesoro nazionale. I contadini se le tramandano di generazione in generazione. Ognuna di esse ha un nome proprio come una persona ed esiste un archivio con la storia dettagliata di ognuno di questi alberi. Sette datteri al giorno levano il medico di torno, dice un proverbio locale.

 

Annotazioni per un'elementare ricerca. Ma guardando la pianta che agonizza nel piccolo cortile in un quartiere dell'estrema periferia di Baghdad non è questo che ti viene alla mente in questo cupo rosario di  giorni. Vedi quella giallastra corona di lunghe foglie impolverate e pensi ad una sola parola: desolazione.

E se la palma  avesse occhi e pensiero e lanciasse sguardi al di là del cortiletto sarebbe sempre quella la parola che le attraverserebbe la mente: desolazione.

La Dactylos-fero, la vecchia portatrice di datteri, non dà più figli, da tempo, ormai. Da poco dopo l'inizio della  guerra. E se tu lo raccontassi ad un botanico ti guarderebbe incredulo: le condizioni atmosferiche non sono mutate, ti direbbe con sussiego, il sole è sempre quello, il clima è uguale a prima. Probabilmente ha una qualche malattia, un qualche parassita. Lasciatemi dare un'occhiata.

        Ma Inaam lo sa che non è colpa di un fungo.

 

 

        Vivevano una vita normale, scandita dalle normali incombenze quotidiane. La madre, il padre, il bambino, ognuno legato al suo ruolo, così come miliardi di persone, nel mondo. 

A volte Farhad, tornando dal lavoro, sussurrava alla moglie che un suo collega era sparito. A volte non vedevano un amico per mesi, e quando lo rincontravano lo trovavano cambiato, smagrito, con lo sguardo assente. Un mattino Inaam li aveva visti portare via una vicina incinta fra il pianto dei suoi quattro figli. Nei cortili, certe sere, serpeggiavano voci bisbiglianti di atroci torture, di fosse comuni, di eccidi, voci subito interrotte al suono di un passo, ad un colpo di tosse in lontananza.

Ma loro continuavano a portare avanti i giorni senza pensare troppo, senza voler vedere. La guerra era finita da dodici anni, erano ragazzini, a quel tempo e ora volevano ostinarsi a credere di essersi lasciati gli orrori alle spalle. Non erano ricchi, ma non proprio poveri. Il cibo in tavola c'era sempre, magari solo riso e ceci, ma si volevano bene, erano una bella famiglia. Si potevano concedere anche qualche uscita in centro ed era bello, allora, cenare in qualche piccola trattoria sul Tigri, al tramonto, e osservare il calare del sole che sembrava dipingere un incendio intorno alla cima delle palme. Anche se, quando passavano davanti ai giganteschi cartelloni con la sua effigie, o davanti alla statua che lo raffigurava, sentivano sempre un brivido e acceleravano il passo. Poi, tornati a casa, si sedevano tutti e tre sotto la palma, e lasciavano vagare i pensieri, che si facevano trasportare liberi dal fumo della sigaretta del padre. Quando l'albero era carico di frutti ne sentivano la dolcezza nel palato solo a guardarli. Il bambino cominciava a sonnecchiare, e così rientravano in casa, non senza aver augurato un felice riposo a quell'albero cui avevano dato il nome del figlio: Khalid.

 

 Khalid, appena finito il suo disegno, l'aveva appoggiato come sempre sul piatto vuoto di Faharad. Ogni sera un disegno nuovo, un piccolo amorevole dono del figlio al padre; quella, poi, era una sera speciale: Faharad compiva ventisei anni e  Khalid bambino aveva pitturato su un grande foglio l'albero Khalid, la vecchia palma. Mentre la madre cucinava lui se ne era stato tutto il pomeriggio seduto al tavolo, la testa china, la punta della lingua stretta fra le labbra, concentratissimo. E ora il disegno era finito, e gli sembrava proprio bello. Nella cucina si miscelavano gli odori speziati del cibo. Vassoi di koubba helva, kanaria, ghoriba erano allineati sul piano di legno vicino al tavolo, ancora fumanti. Ravioli, spezzatino con i cardi, dolcetti di semola e datteri: i piatti per una festa. Inaam aveva cucinato quelli che il marito più amava. 

Avrebbe dovuto essere lì a minuti. Ma per la prima volta, da quando aveva famiglia, Faharad era in ritardo.

Tante volte si affacciò Inaam sulla porta, scrutando nel buio. I minuti, poi le mezz'ore, le ore, la notte intera. Tutto si era raffreddato, nella casa. Anche i colori del disegno sembravano meno brillanti.

        E così, nei giorni, nelle settimane successive, si cominciò a vedere quella donna che girava nei diversi quartieri, col bambino per mano. Cercava di entrare nei palazzi, chiedeva a tutti, sempre la stessa domanda, sempre la stessa risposta che risposta non era.

Poi, dopo mesi, ebbe la conferma che il marito era stato arrestato: ma dove fosse stato rinchiuso non lo seppe mai.  E neppure il motivo dell'arresto. E neppure se fosse ancora vivo.

        Inaam capì per la prima volta cosa volesse dire essere disperata, disperata e impotente. Cominciò a sentire come un duro nocciolo dentro il cuore. Il suo viso cambiò, due rughe sottili cominciarono a incorniciarle le labbra. Tentò di trovare un lavoro, ma non era facile. I suoi le fecero un piccolo prestito, non è che loro ne avessero tanti, di soldi. Faharad le mancava, le mancava la sua tranquillità che aveva permeato la casa, le mancavano terribilmente i suoi abbracci, il suo odore. Khalid non chiedeva mai del padre,  ma non sorrideva più e di togliere dalla tavola il disegno di quella sera non ne voleva proprio sapere. E la luce non la voleva mai spenta, quando andava a dormire.

        Quando si cominciò a parlare di guerra –erano passati otto mesi dall'arresto di Faharad-  Inaam non si disperò, tutt'altro. Pensò che forse la morte del marito sarebbe stata vendicata, da quella guerra, si convinse che il suo Paese sarebbe stato liberato grazie a quegli uomini stranieri, cominciò a credere che sarebbero spariti i grandi manifesti, che sarebbe stata abbattuta quella orrenda statua, che giustizia per tutti quelli che erano scomparsi senza più ritornare sarebbe stata fatta. Si persuase che era la cosa migliore, che suo figlio avrebbe potuto ricominciare a sorridere, con quella guerra. Le opinioni erano contrastanti, intorno a lei: c'era chi partiva senza salutare nessuno, qualcuno metteva su un sorriso di speranza, altri avevano i volti cupi, c'era anche chi cominciava a guardarsi intorno sospettoso, chi cominciava a contarsi. Ma i più tacevano.

 

        Si svegliò alla prima forte esplosione, e strinse fra le braccia Khalid. Era cominciata, pensò con sgomento e sollievo insieme. Era il 20 marzo, la sveglia, illuminata dalla smorta luce della lampada, segnava le 3 e 35.

       

 

In quelle poche eterne settimane prima che fosse dichiarata la fine della guerra, nel cuore di Inaam si alternarono  quei due sentimenti. Mano a mano però che nella città e in tutta la nazione il numero delle vittime civili aumentava, lo sgomento prese il sopravvento, e anche la rabbia cominciò lentamente a strisciare dentro di lei. Perché, invece dei militari, degli aguzzini, dei carcerieri, dei politici, venivano decimati bambini, donne, vecchi, persone innocenti ?…

E quando venne la fine di aprile e dissero che la guerra era finita e che il Paese era stato finalmente liberato, lei si chiese da chi, e cosa sarebbe successo di tutti loro.

        E la guerra, più malefica, orrenda, più crudele di prima continuò. L'odio era del tutto tracimato.

        E poi venne quel giorno.

 

        “La palma sta morendo.” Pensò Inaam, attraversando il cortile. E un brivido la trapassò, anche se il sole sbatteva spietato sulla terra.

Forse aveva trovato un lavoro, forse le cose si sarebbero aggiustate. Ma il suo pensiero tornò alla palma. Erano mesi che stava avvizzendo.

Aveva lasciato Khalid a casa di Nabhak, la sua vicina, e quando l'aveva salutato lui le aveva detto:”Quando torni ti do un disegno. Lo faccio adesso.” E le aveva sorriso.

        L'autobus che doveva portarla in centro tardava, e Inaam si fece a piedi un lungo tratto di strada.

Erano stati liberati diversi prigionieri, ma di Faharad non si era saputo nulla. A volte le sembrava fossero passati anni, dalla sua scomparsa. A volte le pareva di essere ancora in quella notte, a fremere e ad aguzzare lo sguardo nel buio. C'era stata una guerra, intanto, e la guerra distorce il tempo, lo dilata e lo restringe al tempo stesso, scoordina gli spazi temporali,  scardina i punti fermi, concima paure ed aggressività.

La strada era piena di militari e Inaam dovette superare diversi posti di blocco. Era sempre così. Era snervante. Era umiliante. Era il suo Paese, quello, che se ne andassero da un'altra parte quegli stranieri… Non li pensava più come liberatori, ma come occupanti, sopraffattori. Anche se alcuni soldati era gentili, in altri leggeva l'arroganza nello sguardo, alcuni addirittura sembravano colmi d'odio. A causa di tutte quelle soste poi, sarebbe arrivata in ritardo all'appuntamento per l'assunzione. E lei quel posto lo voleva. Avrebbe dovuto decidere a chi lasciare Khalid, durante l'orario di lavoro, ma ci avrebbe pensato più tardi. L'importante era che l'assumessero.

        E così, infatti successe. Il posto di inserviente all'ospedale sarebbe stato suo, fin dal giorno dopo.

        La strada del ritorno le sembrò più lieve, forse, disse a se stessa, le cose per me e per il piccolo ora andranno meglio. Forse, si ripetè, possiamo continuare a vivere. Vorrei solo che questi se ne andassero, pensò mentre un militare le chiedeva i documenti.

       

        Nabhak la aspettava sulla strada. Il velo le era scivolato dalla testa e aveva le mani strette sul cuore.

 

Il disegno rappresenta una famiglia: padre, madre, bambino. Non è ancora colorato del tutto, e i segni delle cancellature sono evidenti. Sta sotto la palma, come dimenticato. Il bambino è steso lì accanto, il piccolo corpo coperto da un lenzuolo, anche se è  mezzogiorno  e fa molto caldo. La maglietta, sotto, è impregnata di sangue che ormai si sta seccando.

        La madre si accoccola vicino a lui, poi lo prende fra le braccia e inizia a cullarlo. E' piccolo, cinque anni appena compiuti. E' leggero. E' freddo, molto freddo.

E fredda è la madre, senza più un'anima, senza lacrime. Le labbra solo una riga stretta, le palpebre immobili. Il pensiero come una spada. 

        “Hanno sparato. Lo hanno colpito per sbaglio, non volevano, ripetevano sempre così, i'm sorry, i'm sorry. Lui era andato un attimo sulla strada, e gli hanno sparato. Per sbaglio, hanno detto. Poi se ne sono andati.” Le ha raccontato piangendo Nabhak.

Il pensiero è come una spada. L'odio ha già piantato radici ben solide dentro la madre.

Sa cosa fare. Ha sentito parlare di un uomo. La sua vita, ora, vale meno di quel moscerino che si è posato sulla sua mano. Ma la sua morte può avere molto potere, molta forza. Ora è nella morte sua e di altri che troverà pace. La morte come valore. La morte come vendetta. Stanotte andrà a cercare quell'uomo.

       

        Erano una bella famiglia. Vivevano una vita normale. Ognuno il suo ruolo. Poi le cellule sono impazzite, i ruoli si sono frantumati. Solo la madre è rimasta, e vestirà la sua pazzia, questo suo nuovo ruolo maledetto fino alla fine.

E il serpente continuerà a cambiare pelle: terrorista o generale, presidente o dittatore. Ma il suo nome sarà sempre lo stesso: annientamento.

 

 
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