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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Lezioni di canto, di Enzo Lombardo 05/10/2007
 

Lezione di canto

di Enzo Lombardo

 

 

Un appuntamento è un appuntamento, Michele. Quel giorno avevamo detto di vederci alle cinque del pomeriggio, dopo la lezione di canto, ed avevo già passato dieci minuti in quel portone anche se c'era un freddo che tagliava le gambe con la tramontana che entrava nell'atrio facendo mulinare le foglie secche ed i pezzi di carta.

Dopo altri cinque minuti avevo ormai deciso di salire le scale anche se si sentivano ancora i tuoi  accordi al pianoforte ed i vocalizzi della tua allieva. Ancora quelle note, sempre quelle note, strascicate, balbettate, strozzate.

Sarei salito assieme ad Emanuele, il grosso cucciolo di pastore tedesco che avevo adottato da poco. Anche lui doveva essere stufo di aspettare accucciato sullo zerbino dell'atrio ed ogni tanto si alzava, si agitava, drizzava le orecchie, puntando il muso in alto, in direzione della porta dell'appartamento da cui provenivano quei suoni strazianti.

Magari si chiedeva come mai potevo restare così indifferente alle urla ed ai i lamenti di un essere sofferente di sesso femminile, che evidentemente qualcuno stava seviziando con cura meticolosa e con accompagnamento musicale nell'appartamento del primo piano.

Di sicuro in quei momenti la stima che avevo guadagnato in Emanuele in quelle poche settimane di adozione scesero di molti punti.

Sembrava che addirittura non volesse riconoscere neppure il suo nome, anche se lo ripetevo forte e chiaro ogni volta che manifestava l'intenzione di salire da solo a verificare cosa stesse succedendo di sopra. Credo che facendo finta di ignorare o snobbare quel nome, Emanuele contestasse la mia indifferenza, la mia scarsa partecipazione al dolore dei miei simili, insomma la cattiveria che non sospettava albergasse in me, nascosta dietro quelle tenere ed ipocrite manifestazioni d'affetto che gli propinavo. Sì, lo faceva apporta per farmi dispetto: lo sapevo bene che ad Emanuele il suo nome piaceva: era bello, chiaro, lungo e tutto infarcito di vocali: sembrava una canzone.

In effetti sono stati in tanti a dirmi che Emanuele non era un nome da dare ad un cane. I nomi da cane  - mi dicevano - devono essere brevi, una o due sillabe al massimo, possibilmente con un forte accento, con qualche gutturale per dare forza al tutto. Alcuni optano per una sibilante che si fa sentire da lontano, altri per le labiali, meglio se doppie, specie per le femmine.

Io non ho mai creduto a questa storia dei nomi. E' un fatto che svilisce l'intelligenza di questi animali, li umilia con i nomi più assurdi, contrasta con quel senso di fraternità ed uguaglianza che vogliamo intessere nel rapporto. In un cane sensibile la cosa può anche intaccare la sua personalità. Può indurre l'animale a vergognarsi di essere chiamato in pubblico “Rik” o “Lilli”, a considerarsi un diverso.

Poi a nulla varranno le manifestazioni d'affetto, i giocattoli colorati, i cappottini firmati e gli impermeabilini con i disegni scozzesi. Il male è fatto e sarà irrimediabile.

 

Comunque Emanuele aveva almeno la sua pelliccia, io no.

Neanche battendo i piedi sul pavimento potevo evitare di sentire il gelo del marmo sotto le suole delle scarpe. Il freddo saliva fin sulle gambe, mi avviluppava i ginocchi come una fascia e l'unica cosa che potevo fare era dare calci in aria come un invasato.

Così cominciai a salire le scale preceduto da Emanuele che saltellava sui i gradini a zampe appaiate, con una sorta di ansia, scodinzolando e girando la testa di tanto in tanto per assicurarsi che non avessi cambiato idea, nel frattempo, in fatto di solidarietà umana.

Quando suonai il campanello le urla smisero di colpo, troncando una nota che non poteva esistere nel rigo musicale. Assieme alla nota impossibile si spensero anche gli ultimi residui di quel leggero timore che m'aveva accompagnato salendo.

In fondo cosa cambiava se interrompevo una lezione inutile? Perchè, cara signorina, pensai, lei è proprio negata. Michele può anche aprirsi in due, spargere il suo sangue sulla tastiera, non cambia niente. Magari è pure brutta.

 

Non era brutta. Oddio, non era neppure una bellezza, ma in quelle guance paffute di porcellana dipinte di fresco, in quel sorriso perenne evidenziato con la matita rossa e specialmente nei suoi occhietti sgranati c'era qualcosa... qualcosa che dava bene il senso del vuoto tranquillo, dell'eterno nulla, della pace assoluta, qualcosa che poteva anche piacere a chi è sensibile alla bellezza delle statue di cera.

Qualcuno magari l'avrebbe ritenuta un ebete, ma io non volevo pronunciarmi troppo presto. D'altronde non ne ebbi neppure il tempo poiché la madre (una signora a modino e zuccherosa) facendomi sedere nel divano ed offrendomi un cioccolatino, iniziò una lunga serie di convenevoli che sfociarono in una descrizione accurata della figlia (“Una vera perla, sa? sentirà che voce diamantina”) che – a suo dire – di lì a poco mi avrebbe deliziato con il suo canto.

Non so perché, ma ebbi l'impressione che, alla madre, quella faccenda del canto non è che la interessasse poi così tanto. Parlando continuava a far scorrere lo sguardo da me a te, Michele, e sembrava soppesarci indecisa, misurarci; controllava i vestiti, le scarpe. Le mie scarpe. Le tue erano nascoste dal pianoforte e poi chissà quante volte le aveva già controllate. Ad un certo punto mi accorsi che guardava l'orologio. Il mio orologio. Ma non voleva sapere l'ora: strizzava gli occhietti per vedere la marca. Non ho mai saputo se il costruttore fosse di suo gradimento.

Alla fine la madre sembrò interessarsi anche di Emanuele. Età razza genealogia dieta costo. Soprattutto costo.  

Era una mossa astuta per soddisfare la sua sete di conoscenza. Tramite Emanuele si insinuò nel mio lavoro, nei miei studi, nella mia casa, persino nel mio portafogli. Non credevo che Emanuele potesse aprire con tale facilità le porte della mia vita privata. Quando me ne accorsi era già troppo tardi. Vidi la madre soddisfatta: annuiva tra se e sorrideva, sembrava aver preso una decisione.

A te, caro Michele, non guardava proprio più. I suoi occhietti erano tutti puntati su di me. Se ne staccavano, a tratti, solo per posarsi sulla figlia, quasi a costruire, con lo sguardo, un ponte ideale su cui io avrei dovuto incedere con gioia, un arco di tenerezza verso il paradiso.

 

Emanuele, intanto, aveva scoperto il cantuccio più morbido del tappeto, l'aveva saggiato  più volte girandosi e rigirandosi finché non ebbe trovato la giusta posizione, poi si era accoccolato tranquillo, indifferente alla circostanza che si stesse parlando di lui. Giurerei che nei suoi occhi semichiusi c'era una sorta di complicità affettuosa.

Ero al terzo cioccolatino ed al secondo vermout quando mi scrollai di dosso il sorriso della vecchia, lasciai i ponti e gli archi di paradiso che stava costruendo tra me e la figlia e feci per alzarmi, dicendo che toglievo il disturbo, non volevo interrompere una lezione così importante e soprattutto che non volevo privare tutto il vicinato del sublime canto della signorina.

- “Elsa” - disse la madre puntandomi una manina d'acciaio sulla spalla e facendomi ripiombare a forza nel divano – “fai sentire qualcosa al signore. Maestro, la prego” – fece rivolgendosi a te, sussiegosa ma non priva di un certo impeto – “Basta esercizi. Facciamo sentire al suo amico una romanza. Sa... quella..., l'ultima..., sì, quella che Elsa conosce così bene.”

- “La romanza?” - facesti tu con voce impastata (ricordo che c'era anche una punta di dolore nella tua voce) - “Quale romanza?”.

- “Oh, io per i nomi... Quella... quella romanza che fa: Lalà...lalaralàlalà...lalàaa...” – suggerì in sordina la vecchia.

- “Oh, quella!” dicesti con mestizia scuotendoti di dosso l'ultimo sonno mentre le tue mani si posavano con rassegnazione sulla tastiera.

E le prime note uscirono a forza dallo strumento, ma sembravano intorpidite, risentivano ancora del dolce abbandono del tuo dormiveglia. Qualcuno, non conoscendoti, le avrebbe persino definite piene di pathos.

Dopo un po' gli accordi assunsero un ritmo strano e bizzarro, quasi un ballabile, quindi si stabilizzarono in un quattro quarti decente, il volume si abbassò, quasi si spense e fu allora che tu, sollevando una mano dalla tastiera, suggeristi qualcosa alla cantante.

La tua mano aveva dolcemente sorvolato l'aria, le dita si erano mosse lievemente ad indicare un attacco lieve, un “piano” o meglio un “pianissimo”, il respiro di un angelo che avrebbe dovuto nascere dal silenzio, mischiarsi con il nulla, avvilupparsi tra le note sussurrate in sordina sulla tastiera con una mano sola.

In effetti guardando quella mano che ancora accarezzava l'aria, fummo tutti invasi da una pace profonda.

Anche Emanuele, non più distratto dalla voce stridula della vecchia, si preparò alla dolce quiete che prometteva quel gesto, si accoccolò ancor più vicino a me sul tappeto, mettendo il muso tra le zampe davanti, mi diede un paio di calci con quelle di dietro e si dispose serenamente all'ascolto, immerso in quell'aspettativa di pace.

Nessuno s'aspettava il grido feroce che uscì dalla bocca colorata dell'Elsa. Adesso quella bocca, che prima m'era sembrata un piccolo cuore dipinto, s'era allungata a dismisura, mostrava i denti candidi e grossi e, tra i denti, una lingua rossa, un corto serpente tremolante.

L'insieme emetteva un'unica nota con la forza di un mantice da fabbro ferraio e quella nota saliva di mezzo tono poi, poco prima di trasformarsi nella sua sorella più acuta, precipitava nelle righe basse del pentagramma e diventava cupa e tetra: più che una nota sembrava il residuo vibrare del rintocco lugubre d'una campana a morto.

Emanuele sollevò un'orecchia. Ha delle belle orecchie Emanuele ma un po' cascanti, nella punta. Un difetto che si porterà per sempre - mi hanno detto. E' possibile un intervento ma i risultati non sono sicuri. Ho tentato di steccargliele, da cucciolo. Il veterinario glieli ha pure incerottati perbenino, ma tolti i cerotti la punta ha sempre mantenuto la piega.

Adesso, miracolosamente, quelle orecchie avevano assunto una forma perfetta, dritta fin sulla punta come si conviene ad un cane di razza ed entrambe vibravano. Vibrava pure il muso che teneva sollevato, mentre la coda spazzava nervosa il tappeto.

Poi Emanuele si sollevò a mezzo sulle zampe anteriori tenendo sempre le orecchie puntate verso quel suono assurdo e inaspettato. Giuro che sul muso aveva disegnata un'espressione di grande incredulità.

Non è vero che un cane non può aver disegnata sul muso un'espressione di grande incredulità. Emanuele esprimeva benissimo il concetto, anzi lo sottolineava con ogni mezzo, sbarrando gli occhi, sollevando le labbra pelose, scuotendo la coda con il suo quarto posteriore ancora poggiato sul tappeto.

Anche tu, Michele, se ricordi, hai scosso con forza il capo interrompendo la musica. Hai persino chiuso gli occhi ed una tua mano ha colpito l'aria con forza, come per allontanare un insetto molesto.

Credo di averti sentito sibilare “No!, No!, No!” a denti stretti, ma la tua voce era inaudibile, totalmente sommersa dalle note impazzite che ancora echeggiavano nella stanza.

Quindi hai di nuovo provato l'attacco: un accordo in minore suonato con la sinistra oscillò quieto tra i cristalli e le poltrone liberty, mentre la tua destra ondeggiava piano, come accarezzando qualcosa, suggerendo l'incanto di toni sommessi, flautati.

Ma anche il secondo tentativo non diede i frutti sperati: il grosso mantice nascosto dietro i seni dell'Elsa si mise a pompare con furia brandelli di note taglienti come lame o cupe e nere come profondità infernali.

 

Fu a questo punto che Emanuele si alzò del tutto. La cosa mi stupì perchè Emanuele è un cane pigro. Anche da cucciolo era pigro e non è migliorato, crescendo. Se non ha a sua disposizione un intero divano od un letto si accontenta di un semplice tappeto, ma in quel tappeto ci si crogiola, assapora le morbidezze della lana pettinata, annusa gli odori esotici che ancora emana.

Quella sera Emanuele aveva fatto i suoi calcoli di convenienza in materia di sopportazione ed a quanto pare era venuto il momento - secondo lui - di sollevare anche i lombi posteriori da quel tappeto vellutato.

Intanto tu, Michele, continuavi rassegnato a seguire quel fiume di note oscillanti con accordi poco convincenti. Oscillavano anche quegli accordi dietro o davanti a quell'improbabile canto ed anche tu fingevi di seguirlo canticchiando qualcosa in sordina. (Mi confessarti, più tardi, mentre mezzo piegato, ti sostenevi ad un lampione e ti asciugavi le lacrime dopo una serie di irrefrenabili risate, mi confessasti che in quel momento tu canticchiavi ritornelli osceni. Ho sempre detto che sei strano, Michele, ma quella sera i ritornelli osceni non mi sembrarono poi così strani.)

 

Suppongo che Emanuele, anche per via della sua giovane età (era un cucciolone, dopotutto) non conoscesse ancora ritornelli osceni: forse per questo ritenne che l'unico modo per scaricare la tensione fosse quello di ululare.

Non avevo mai sentito, prima di quella sera, ululare Emanuele. Uggiolare, abbaiare, sì. Ululare mai. Ed invece Emanuele ha un bell'ululato. Un peccato nasconderlo. Inizia con una nota bassa, quasi in sordina, poi la nota sale, ed intanto diventa corposa, cambia di tono fino ad arrivare ad un acuto limpido, un suono che sa di boschi impenetrabili e di luna piena, di rocce a strapiombo e vecchi manieri diroccati pieni di maghi e fattucchiere .

Dopo quella sera Emanuele è cosciente della bellezza del suo ululato e lo offre volentieri agli amici di casa in quasi tutte le occasioni, meravigliandosi non poco dei calci che riceve dopo appena mezz'ora di esibizione.

Comunque quella sera diede il meglio di se. Forse era nello spirito adatto. Forse l'ambiente era favorevole. O può darsi che sia stato l'effetto dell'entusiasmo dei debuttanti alla prima apparizione in pubblico.

Si avvicino alla mezza coda del pianoforte, sollevò in alto il muso, e flautò una nota corposa ed insieme vellutata, mantenendola con perizia, senza sbavature. Solo un orecchio esperto poteva gustare appieno anche il leggero tremolo di sostegno, ma anche i non iniziati non potevano ignorare la maestria di quell'ululato.

Non la ignorò neppure Elsa. Quella perla di ragazza smise subito il suo canto lasciando completamente aperta la bocca per la sorpresa. Per tutto il tempo quella bocca restò aperta, quasi cascante, e muta.

Ed anche tu, caro Michele, che non potevi vedere Emanuele, nascosto dalla coda del pianoforte, hai aperto completamente gli occhi ed, incredulo, hai guardato la bocca rossa ed aperta della Elsa, da cui sembrava uscire quel canto inaspettato, mentre un sorriso soddisfatto si faceva strada sul tuo viso.

Oh, chissà quali pensieri turbinarono nella tua mente in quel momento: aneliti placati ed ansie superate sembrarono uscire fuori dal pianoforte attraverso gli accordi a due mani, mentre squillava - nitidissimo - un tuo “Si!” ripetuto più volte, sempre più forte, “Sì!, sì!”, ed in quel “!”, bello e tonante, mettesti tutta la gioia e l'entusiasmo del maestro che vede finalmente coronati i suoi sforzi, la tua soddisfazione, il tuo plauso. Chissà, forse anche una punta d'amore per quella bocca dipinta e quel seno rigoglioso, capaci, insieme, di produrre un tale effetto.

L'unica che non seppe apprezzare il duo Elsa-Emanuele fu la vecchia madre. In venti secondi tutte le rughe che intessevano il suo scarno viso si macularono di chiazze violacee, la sua esile figura si sollevò dal divano ed il suo piedino inguantato in scarpette di vernice tentò invano di colpire il deretano di Emanuele. E mentre succedeva tutto questo, dalle sue labbra uscivano termini che una signora non dovrebbe neppure conoscere.

Anche le mire nuziali, forse appena appena intraviste, furono sopraffatte e sommerse da un impeto di odio nevrotico e feroce. Ci cacciò fuori e le sue grida ci accompagnarono per le scale, ci seguirono in strada, scagliate dal balcone a voce piena; e le udimmo anche oltre la cantonata finché esausti, ridendo in modo sguaiato, ci addossammo al primo lampione disponibile non essendoci prati o altri tappeti erbosi per rotolarci adeguatamente.

 

Per fortuna Emanuele, per la sua conformazione mentale portata alla tolleranza, non ebbe a patire, in seguito, del trauma dovuto alla scoperta delle umane bizzarrie. Anzi, per concludere degnamente la serata, manifestò il suo disappunto inondando la base del lampione di pipì.

 

 

 
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