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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il volto di lui com'era di Alois Braga 16/03/2006
 

Il volto di lui com'era

 

racconto di Alois Braga

 

 

 

 

«Mi ci sono voluti molti mesi per accettare l'idea di essere stata lasciata. Ma nel caos di queste ultime settimane le cose sono cambiate. Mi sembra di ricavare da ciascun giorno più di quanto avessi fatto in precedenza, e in questo mio vivere alla giornata mi sento quasi più felice... Mi sembra di apprezzare tanto di più a ogni momento che passa.»

 

Io la guardai mentre mi parlava dall'altra parte del tavolo, con una sorta di attrazione che mi sembrava nuova nei confronti di una donna.

 

«E' chiaro che all'inizio è stato un colpo durissimo...», lei continuò tranquillamente. «Mi ci sono volute molte settimane, dei mesi solo per accettare l'idea. E anche se preferirei non essere stata lasciata, devo ammettere che questa condizione ha impresso in certo senso alla mia vita delle svolte... positive.»

 

«Quali?», chiesi a brucia pelo.

 

«Be', ad esempio, per la prima volta nella vita ho cominciato ad esplorare la spiritualità, e ho scoperto in questo modo tante cose su cui prima non avrei mai pensato di riflettere...»

 

Quasi nello stesso periodo in cui lei si era ritrovata abbandonata dall'unico uomo della sua vita che le importasse veramente, pensai in quel momento, il mio amico scopriva di essere sieropositivo.

 

«...Ma in quest'ultimo periodo, il dover realizzare e accettare la mia natura mortale mi ha svelato un mondo nuovo.»

 

Io scossi leggermente il capo, ma mi resi subito conto che lo disse con molta tranquillità. Era sicura di sé. Non aveva dubbi. Sorrise. E lo fece con un gesto della mano tra i capelli da cui a un altro sarebbe stato impossibile difendersi. Ogni tanto qualcuno sfiorava il tavolo gettando uno sguardo su di lei. Non mi ero mai reso conto prima, di quanto fosse bella: i capelli, il volto, la pelle bianchissima, la forma degli occhi… Ma più di ogni altra cosa là, quella sera, era la sua bocca a muovere la mia fantasia: sia che ridesse o parlasse o tacesse.

 

Poi lei si voltò stranamente a guardare per un attimo oltre il bancone del bar, e continuò.

 

«La felicità quotidiana... è in gran parte determinata dalla nostra visione delle cose. Anzi, spesso il sentirsi felici o infelici nei vari momenti della vita non dipende tanto dalle condizioni assolute dell'esistenza, quanto dal modo in cui si percepisce la situazione, da quanto si è soddisfatti di quel che si fa.»

 

Poteva essere una coincidenza, ma certo che era strano. A poco a poco mi convinsi che quella ragazza riusciva a leggere in me molte più cose di quanto io potessi fare in lei. Naturalmente cominciai a chiedermi dove mai voleva arrivare: era anche difficile capire che stava passando nella sua testa là in quel bar, quella sera di un autunno fuori nebbioso e freddo.

 

Smettemmo per un attimo di parlare. Ci guardammo negli occhi, in un modo indagatore. Nello stesso istante mi sentii sopraffatto dall'emozione. Fu allora che lei, di punto in bianco, mi chiese se non avessi nulla da dire. Io mi sentii cogliere di nuovo da un senso di stupore, molto più violento di quello che avevo avvertito un attimo prima.

 

«Cosa vuoi sapere?...», mormorai sottovoce.

 

Allora lei si staccò dal tavolo; appoggiandosi allo schienale della sedia diede un'occhiata in giro. Quasi subito mi fissò di nuovo, sorrise e disse:

 

«Di cosa hai paura?... Perché tu hai paura!». E tornò a guardarsi intorno.

 

In quel momento nel quale ogni cosa in quel bar sembrava non esistere più, perché stavo cercando di mettere insieme le parole per dire una cosa di me che mi sarebbe piaciuto farle sapere, in quel preciso istante capii che di lei mi potevo fidare. Completamente. Allora là, al tavolo, mi sporsi un po' in avanti e dissi quella cosa che avevo pensato qualche minuto prima.

 

«Quasi nello stesso periodo in cui tu ti sei ritrovata abbandonata dall'unico uomo ti importasse veramente, il mio amico ha scoperto di essere sieropositivo...»

 

Lei riprese a guardarmi, immobile e in silenzio. Mi interruppi per un attimo. Poi continuai.

 

«Milano, quel giorno, era bellissima nonostante la foschia che perennemente la avvolge. A dispetto della solita sofferenza metropolitana di una città abitata da persone trivellate di buchi, di cavità, di pertugi doloranti. Come se tutti fuggissimo da una battuta di caccia il cui unico fine non è tanto quello di venire catturati, ma di arrivare ad essere stanati cambiandoci l'ordine del nostro habitat. Quasi improvvisamente, a poco più di vent'anni, quella mattina mi resi conto di essere diventato un uomo. Non ero più il ragazzo e non ero più l'immortale. Lui, il mio migliore amico, mio amante, stava morendo in quel letto infame d'ospedale.»

 

Lei si tirò indietro una ciocca di capelli che le era scesa sugli occhi. Per un attimo rimasi in silenzio ad osservarla.

 

«Quando varcai la porta di quella stanza, la luce del primo mattino entrava dalla finestra quasi a volerla riscaldare. C'era un forte odore di ospedale. Era tutto così compiuto. Lui stava dormendo, o sembrava dormisse un sonno leggero fatto di piccoli e impercettibili movimenti. Quando mi vide in piedi accanto al letto, lui girò la testa lentamente, verso il braccio in cui aveva infilato l'ago della flebo. L'ago che lo stava nutrendo con una fatica estrema, e per l'ultima volta. Mi accostai piano e gli toccai appena la mano. Lui mi guardò dai suoi occhi neri, profondi, in un volto scavato, e fece a fatica un cenno con la testa. Dal fianco del letto, da sotto le lenzuola candide scendevano alcuni tubicini scuri; uno di questi terminava in un sacchetto di plastica trasparente pieno di un liquido giallastro, orina presumevo.»

 

Lei disse qualcosa che non capii là, al tavolo. Probabilmente mi chiese se ne volessi una, perché si accese una sigaretta e si mise a fumare.

 

«Per un po' rimasi lì a guardarlo. Non mi sarei mai aspettato di trovarlo così dimagrito, quasi scomparso. I capelli, i suoi bellissimi e lunghi capelli castani, rasati a zero. E la pelle, ridotta a un sottile strato, che urlava tutto il dolore di quel corpo rivoltato e martoriato. Del lui che conoscevo, rimanevano ben poche cose, forse solo gli occhi: grandi, ancora più larghi. Due buchi profondi e spalancati che mi fissavano immobili da quel letto di morte e sembravano ripetere ossessivamente una sola cosa: “Perché proprio a me?”. Avrei voluto potergli rispondere. Ma non ne ero capace. A volte si è troppo vigliacchi per rispondere. Sentivo il cuore battermi forte alle tempie.»

 

Avrei voluto che lei dicesse qualcosa, ma non disse nulla. Allora andai avanti, fissandola nei suoi occhi grigi.

 

«“Stringimi la mano…”, mormorò lui nel vuoto di quella stanza d'ospedale. “Ho tanta paura di morire”. Io deglutii mentre gliela prendevo, quella mano ancora più lunga e sottile, portandomela al viso. Sentendo il calore della sua pelle squarciata sulle mie labbra, avvertii all'improvviso che le atrocità ch'egli aveva dovuto sopportare lo avevano già ucciso. Inesorabilmente. E per la prima volta nella vita vidi quello sguardo. Lo sguardo di chi sta per morire. Lo vidi nei suoi occhi, negli occhi di un amico che mi era stato amante, che implorava senza fiducia un aiuto che non gli potevo dare. E non gli verrà mai dato.»

 

Lei si sporse in avanti, sul tavolo. Sentivo il suo sguardo su di me, e non riuscivo a proseguire. Lei disse anche qualcosa sottovoce, ma non ricordo cosa. Allora mi guardai intorno, come a cercare la via più breve per finire. Poi ripresi a raccontare.

 

«“Vedrai che uscirai presto…”, fu l'unica cosa che riuscii invece a dirgli là, in quel momento. “Il più è fatto.”. Lui girò la testa dalla parte opposta, e chiuse lentamente le palpebre. In quel preciso istante mi resi conto che qualcosa in noi si era definitivamente spezzato. Con il cuore devastato dalla sofferenza, che mi urlava dentro, capii che era ora di andarmene, da là. Compresi che non potevo rimanere un secondo di più, a cercare di aiutarlo a morire. Non lo avremmo sopportato. Per oltre un anno abbiamo vissuto insieme, studiato insieme; ci siamo strapazzati, anche odiati, ma soprattutto ci siamo amati con passione. E adesso lui stava morendo. Il ragazzo con cui avevo vissuto la mia prima grande esperienza d'amore. Allora lo guardai per l'ultima volta in fondo alla stanza, e pensai che quando sarei uscito da là sarei andato dalla madre a dirle quanto le volessi bene e quanto avessi amato suo figlio. Lo salutai così, prima di vederlo uscire per sempre dalla mia vita: “A presto…”, dissi. “Cerca di guarire.”. Ma mi porterò dentro per sempre quegli occhi spalancati, sul letto di quella stanza d'ospedale.»

 

Emisi un sospiro profondo e mi voltai verso di lei. Mi stava di nuovo fissando. Però in un modo diverso. E solo in quell'istante vidi, nel suo volto, il volto di lui com'era, fresco e delicato, perfetto. Vidi quelle labbra socchiuse e quegli occhi in questi, e tutta la bellezza di lui manifestata in quella di lei. Allora mi avvicinai piano al suo viso e gliele sfiorai appena con la punta di un dito, quelle labbra che tanto ho amato. E la baciai, premendo quelle labbra forte, sempre più forte, e con gli occhi chiusi.

 

 

 

 

© www.isogninelcassetto.it – sito amatoriale no-profit di scrittura on line

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Alois Braga, milanese, nasce nel 1978.

E' stato l'ideatore e l'artefice di isogninelcassetto.it

Laureatosi in Scienze della Comunicazione, ha lavorato in pubblicità come copywriter freelance.

Scriveva perché non poteva farne a meno. Suoi racconti sono usciti in diversi siti di letteratura online.

Alois Braga muore prematuramente il 23 maggio del 2004.

 

 
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