Il mio paese
di Eufemia Griffo
M'immergo nei ricordi di quei giorni
lontani, quando ero un giovane uomo che inseguiva sogni che forse si sarebbero
avverati.
Me ne andai dal paese, con una valigia
mezza vuota e col sorriso sulle labbra, in cerca d'avventura e di fortuna,
eppure solo qualche anno dopo, capii che ciò che maggiormente mi avrebbe reso
felice, era là, a portata di mano.
In America mi sposai, misi al mondo due
figli che ora studiavano nelle università buone d'America ed avevo raggiunto
tutte le mete che mi ero prefissato negli anni e forse ero andato anche oltre.
Eppure in cuor mio, sentivo che qualcosa mancava alla mia vita.
E fu allora che decisi di tornare al
mio paese, in cerca delle tracce di me stesso e di quello che ero stato.
Non sapevo nemmeno io perché volli fare
quel viaggio e decisi di non farmi più troppe domande.
L'indomani, mi recai all'aeroporto e
prenotai il primo volo per l'Italia.
**
Giunsi in un pomeriggio assolato di
Luglio. La calura era terribile e mi pareva di soffocare.
Tutto era cambiato. Ai miei occhi di
cinquantenne, ogni cosa pareva avere mutato posto e condizione. I miei occhi
indugiavano sui mille particolari che erano rimasti ancorati nella mia memoria.
La piazza…Ricordavo una pianta, proprio là a lato del bar di Ninuccio; dove era finita? E il bar dove da bambino mi
divertivo a prendere a sassate l'insegna?
E le scale della chiesa su cui noi
bambini, giocavamo a fare salti nei giorni della domenica? Me le ricordavo
quasi completamente distrutte, ed ora la chiesa sembrava una cattedrale, tutta
restaurata.
Era quello il mio paese?
I ricordi di quello che ero si
accavallavano a quelli che i miei occhi vedevano in quell'istante.
Fu solo un momento. Mi voltai di scatto
e vidi un anziano con la coppola calata sulla testa, il capo appoggiato sul
bastone. Stava seduto ai tavolini, fuori dal bar, quello nuovo, sulla piazza.
Era una struttura moderna, con i
flipper in bella mostra, i dispenser con dentro cheving
gum d'importazione americana e sedie di plastica, al
posto di quelle impagliate che mi ricordavo.
Mi resi conto di conoscere quell'uomo!
Ma sì quello era Peppino, il barbiere! Peppino, Peppino, urlavo dentro di me!
Sai quante volte mio padre mi ci aveva portato a tagliare i miei riccioli
ribelli che se ne andavano dappertutto?
Mi avvicinai e lo vidi dormire,
appoggiato col mento al bastone. Era molto invecchiato, forse poteva avere
un'ottantina d'anni. Eppure innanzi ai miei occhi, era come rivederlo con le
forbici in mano, mentre cantava.
Quelli sì che erano tempi! Erano i
giorni della mia infanzia, quando ancora bambino non sapevo nemmeno che
esisteva un paese sconfinato come l'America.
Allora mi sedetti vicino a lui, in
attesa che si svegliasse. Era una caldissima giornata di Luglio e in giro
c'erano poche persone. La gente di solito nelle ore pomeridiane riposava e solo
dopo le cinque del pomeriggio, il paese andava ripopolandosi.
Decisi di attendere, volevo parlargli,
domandargli se si ricordava di me, chiedergli notizie degli ultimi avvenimenti
del mio paese. Oramai non avevo più alcun legame, eccetto alcune cugine di
secondo grado ed ero giunto fin là, semplicemente spinto da un forte desiderio
di ritrovare le mie radici.
In quel momento realizzai
che ancora non mi ero cercato nemmeno una pensione dove alloggiare, ma allora non
mi importava nulla e speravo solo che Peppino aprisse gli occhi per salutarlo.
Poi d'un tratto esclamò: “Alla salute forestiero!”, prendendo il bicchiere colorato di
color rubino, che era appoggiato sul tavolo.
Forestiero! Quella parola mi confuse e quasi mi offese.
Non dissi nulla e mi limitai – seppur
mestamente – a sorridergli.
“Chi siete forestiero? Non vi conosco e non vi ho mai visto”, mi
disse Peppino.
“Sono di passaggio” - gli menti - “
viaggio per affari”.
Avevo gli occhi umidi. Peppino era l'unica
persona che avevo riconosciuto, forse l'ultimo legame con quel che rimaneva
della mia terra e neppure lui, sapeva chi fossi.
Ero uno stupido! Me ne ero andato che
ero un ragazzo di quasi vent'anni, cosa pretendevo?
Mia moglie andava sempre dicendomi che
negli anni non ero cambiato, che conservavo i tratti del volto di quando ero
giovane e in base a quell'assurda convinzione, mi ero mostrato così stupido da
pensare che un anziano potesse ancora riconoscermi?
Ero stato tanto folle da affrontare un lungo viaggio fino all'Italia? Per quale
motivo?
Mi vergognavo di me stesso e della mia
sciocca presunzione!
Fu allora che Peppino si fece portare
dal barista due bicchieri di vino, rosso; faceva caldo e mi girava la testa, ma
accettai di buon cuore quella bevanda che l'anziano aveva ordinato.
La bevvi e mi parve il vino migliore
che avessi mai assaggiato. Era cose se il suo gusto e l'aroma invadessero ogni
strato della mia persona e mi facevano riscoprire un sapore che avevo
dimenticato in tutti quegli anni. Lo bevvi alla sua salute, seppur con
difficoltà data la calura del giorno e poi feci per
entrare e pagare; ma lui mi fermò.
Allora guardandomi dritto in faccia
come tutto ad un tratto si fosse ricordato di me e mi riconoscesse, mi disse:
“Paisa' bevi
alla mia salute e a quella del tuo paese, sono vecchio assai, ma la
memoria….quella non sbiadisce…e no..quella no”.
E così si alzò, rimise la coppola sulla
testa e si allontanò, salutandomi con un cenno del viso.
Lo salutai con un cenno della mano e
rimasi a guardarlo mentre si allontanava.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime
ed un grande dolore, come un'onda impetuosa, mi trapassò il cuore. Ma fu solo
un momento. Capii allora che in tutti quegli anni avevo perso un'enorme
ricchezza, che mai più avrei potuto riottenere: l'affetto ed il calore della
gente del paese e della mia terra, dalla quale mi ero volutamente allontanato
in cerca di fortuna e di felicità. E già..felicità!
Eppure in quel giorno di Luglio, la
solidarietà di Peppino, quel suo riconoscermi senza quasi nulla volermi
rivelare del mio passato, mi fece sentire l'uomo più ricco del mondo.
Fermati tempo
ed immergimi l'anima
tra le radici
recise del passato
sbiadito viandante
che ora cammina
nella memoria bendata
da verità
invano cercate
1) La poesia alla fine del racconto è di
Eufemia Griffo e si intitola “Time”