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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il mio paese, di Eufemia Griffo 06/06/2008
 

Il mio paese

       di Eufemia Griffo

 

 

 

 

M'immergo nei ricordi di quei giorni lontani, quando ero un giovane uomo che inseguiva sogni che forse si sarebbero avverati.

Me ne andai dal paese, con una valigia mezza vuota e col sorriso sulle labbra, in cerca d'avventura e di fortuna, eppure solo qualche anno dopo, capii che ciò che maggiormente mi avrebbe reso felice, era là, a portata di mano.

In America mi sposai, misi al mondo due figli che ora studiavano nelle università buone d'America ed avevo raggiunto tutte le mete che mi ero prefissato negli anni e forse ero andato anche oltre. Eppure in cuor mio, sentivo che qualcosa mancava alla mia vita.

E fu allora che decisi di tornare al mio paese, in cerca delle tracce di me stesso e di quello che ero stato.

Non sapevo nemmeno io perché volli fare quel viaggio e decisi di non farmi più troppe domande.

L'indomani, mi recai all'aeroporto e prenotai il primo volo per l'Italia.

 

**

Giunsi in un pomeriggio assolato di Luglio. La calura era terribile e mi pareva di soffocare.

Tutto era cambiato. Ai miei occhi di cinquantenne, ogni cosa pareva avere mutato posto e condizione. I miei occhi indugiavano sui mille particolari che erano rimasti ancorati nella mia memoria. La piazza…Ricordavo una pianta, proprio là a lato del bar di Ninuccio; dove era finita? E il bar dove da bambino mi divertivo a prendere a sassate l'insegna?

E le scale della chiesa su cui noi bambini, giocavamo a fare salti nei giorni della domenica? Me le ricordavo quasi completamente distrutte, ed ora la chiesa sembrava una cattedrale, tutta restaurata.

Era quello il mio paese?

I ricordi di quello che ero si accavallavano a quelli che i miei occhi vedevano in quell'istante.

Fu solo un momento. Mi voltai di scatto e vidi un anziano con la coppola calata sulla testa, il capo appoggiato sul bastone. Stava seduto ai tavolini, fuori dal bar, quello nuovo, sulla piazza.

Era una struttura moderna, con i flipper in bella mostra, i dispenser con dentro cheving gum d'importazione americana e sedie di plastica, al posto di quelle impagliate che mi ricordavo.

Mi resi conto di conoscere quell'uomo! Ma sì quello era Peppino, il barbiere! Peppino, Peppino, urlavo dentro di me! Sai quante volte mio padre mi ci aveva portato a tagliare i miei riccioli ribelli che se ne andavano dappertutto?

Mi avvicinai e lo vidi dormire, appoggiato col mento al bastone. Era molto invecchiato, forse poteva avere un'ottantina d'anni. Eppure innanzi ai miei occhi, era come rivederlo con le forbici in mano, mentre cantava.

Quelli sì che erano tempi! Erano i giorni della mia infanzia, quando ancora bambino non sapevo nemmeno che esisteva un paese sconfinato come l'America.

Allora mi sedetti vicino a lui, in attesa che si svegliasse. Era una caldissima giornata di Luglio e in giro c'erano poche persone. La gente di solito nelle ore pomeridiane riposava e solo dopo le cinque del pomeriggio, il paese andava ripopolandosi.

Decisi di attendere, volevo parlargli, domandargli se si ricordava di me, chiedergli notizie degli ultimi avvenimenti del mio paese. Oramai non avevo più alcun legame, eccetto alcune cugine di secondo grado ed ero giunto fin là, semplicemente spinto da un forte desiderio di ritrovare le mie radici.

In quel momento realizzai che ancora non mi ero cercato nemmeno una pensione dove alloggiare, ma allora non mi importava nulla e speravo solo che Peppino aprisse gli occhi per salutarlo.

Poi d'un tratto esclamò: “Alla salute forestiero!”, prendendo il bicchiere colorato di color rubino, che era appoggiato sul tavolo.

Forestiero! Quella parola mi confuse e quasi mi offese.

Non dissi nulla e mi limitai – seppur mestamente – a sorridergli.

“Chi siete forestiero? Non vi conosco e non vi ho mai visto”, mi disse Peppino.

“Sono di passaggio” - gli menti - “ viaggio per affari”.

Avevo gli occhi umidi. Peppino era l'unica persona che avevo riconosciuto, forse l'ultimo legame con quel che rimaneva della mia terra e neppure lui, sapeva chi fossi.

Ero uno stupido! Me ne ero andato che ero un ragazzo di quasi vent'anni, cosa pretendevo?

Mia moglie andava sempre dicendomi che negli anni non ero cambiato, che conservavo i tratti del volto di quando ero giovane e in base a quell'assurda convinzione, mi ero mostrato così stupido da pensare che un anziano potesse ancora riconoscermi?
Ero stato tanto folle da affrontare un lungo viaggio fino all'Italia? Per quale motivo?

Mi vergognavo di me stesso e della mia sciocca presunzione!

Fu allora che Peppino si fece portare dal barista due bicchieri di vino, rosso; faceva caldo e mi girava la testa, ma accettai di buon cuore quella bevanda che l'anziano aveva ordinato.

La bevvi e mi parve il vino migliore che avessi mai assaggiato. Era cose se il suo gusto e l'aroma invadessero ogni strato della mia persona e mi facevano riscoprire un sapore che avevo dimenticato in tutti quegli anni. Lo bevvi alla sua salute, seppur con difficoltà data la calura del giorno e poi feci per entrare e pagare; ma lui mi fermò.

Allora guardandomi dritto in faccia come tutto ad un tratto si fosse ricordato di me e mi riconoscesse, mi disse:

Paisa' bevi alla mia salute e a quella del tuo paese, sono vecchio assai, ma la memoria….quella non sbiadisce…e no..quella no”.

E così si alzò, rimise la coppola sulla testa e si allontanò, salutandomi con un cenno del viso.

Lo salutai con un cenno della mano e rimasi a guardarlo mentre si allontanava.

Gli occhi mi si riempirono di lacrime ed un grande dolore, come un'onda impetuosa, mi trapassò il cuore. Ma fu solo un momento. Capii allora che in tutti quegli anni avevo perso un'enorme ricchezza, che mai più avrei potuto riottenere: l'affetto ed il calore della gente del paese e della mia terra, dalla quale mi ero volutamente allontanato in cerca di fortuna e di felicità. E già..felicità!

Eppure in quel giorno di Luglio, la solidarietà di Peppino, quel suo riconoscermi senza quasi nulla volermi rivelare del mio passato, mi fece sentire l'uomo più ricco del mondo.

 

 

Fermati tempo

ed immergimi l'anima

tra le radici

recise del passato

sbiadito viandante

che ora cammina

nella memoria bendata

da verità

invano cercate

 

1) La poesia alla fine del racconto è di Eufemia Griffo e si intitola “Time

 

 

 

 
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