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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il viale di Armando Salvatore Santoro 01/05/2006
 

I platani del viale dove abitualmente Francesco si recava a fare la sua breve passeggiata cominciavano a verdeggiare. L'inverno 1998-99 era stato molto rigido. Già a fine estate le prime stufe erano state accese ed in pratica l'autunno non si era fatto vedere. Anche la primavera aveva subito la stessa sceneggiata e ai primi di maggio occorreva ancora accendere i camini per scaldare un po' l'ambiente di sera.

        “Sono stato a Pistoia stamani - raccontava un amico - ed ho sofferto il caldo. Ma qui da noi, in montagna, sembra sempre essere in pieno inverno e siamo già alla fine di Aprile”.

        In effetti, l'anno precedente, si era passati bruscamente dall'estate all'inverno. L'autunno non  si era visto e già in settembre le prime stufe erano state accese. Con il nuovo anno le cose non erano cambiate. Il 1999 anzi, sulla montagna pistoiese, era stato freddissimo, la neve era caduta più volte facendo la felicità degli appassionati che si recavano a sciare all'Abetone, e l'arrivo della primavera aveva sì mitigato il clima ma non al punto di non aver bisogno di intiepidire gli ambienti sia al mattino che la sera. Era passato da qualche giorno il primo maggio ma il cielo era ancora coperto e non prometteva  nulla di buono.

        Questi erano anche i commenti che Francesco brontolava tra sé mentre percorreva il viale dove abitualmente faceva quattro passi al mattino ed al pomeriggio, pioggia permettendo.

        Il viale di cui parlo esiste davvero ed è a Maresca, una frazione del Comune di San Marcello Pistoiese. Maresca è una località turistica, molto frequentata, soprattutto in estate, dai pianigiani (così i montanini chiamano gli abitanti di Firenze, Pistoia o Prato e degli altri comuni della pianura ai piedi dell'appennino tosco-emiliano). Questi si riversano a frotte in questa località che garantisce, nel periodo estivo, condizioni climatiche eccellenti e distensive passeggiate nella sua rigogliosa Foresta del Teso o percorrendo i sentieri che conducono soprattutto al Lago Scaffaiolo ed alle altre località di montagna, attrezzate con impianti di risalita che permettono agli amanti dello ski di praticare questo sport nel periodo invernale.

        La neve copriva ancora le alte cime che sovrastano la Foresta del Teso  ed è ancor oggi ben visibile anche da Campo Tizzoro, un'altra frazione distante qualche chilometro da Maresca, contribuendo in una certa misura a mantenere l'aria ancora frizzante.

         Francesco aveva compiuto 86 anni il 5 maggio. La sua vita non era stata tra le più facili. Si era sorbito tutte le guerre che dal 1936 al 1943 l'Italia aveva vissuto. Da giovane, ancora prima di sposarsi, era stato in Africa Orientale, poi in Somalia e in Eritrea. Inviato in congedo, fu di nuovo  richiamato sorbendosi anche le campagne di Grecia e di Albania. E dopo l'armistizio del 1943, mentre era in Montenegro, piuttosto che andare con i tedeschi preferì andare con i partigiani di Tito.

        Raccontava poco di quello che aveva dovuto sopportare. Ma ogni tanto qualcosa gli sfuggiva e si vedeva chiaramente che non voleva ricordare o che, comunque, cercava di non ricordare.

        “Ma in Montenegro, per mangiare, come facevi nonno”, ogni tanto gli chiedeva il nipote.

        “Ci si arrangiava” - rispondeva. “Alle volte si trovava qualche capra, si uccideva e si mangiava cruda”.

        “Cruda?” - esclamava meravigliato il nipote.

        “E si, cruda! Non potevamo mica accendere il  fuoco per cucinarla, altrimenti avremmo fatto fumo ed i tedeschi ci avrebbero individuato ed ucciso”.

        “E le altre volte?” - incalzava il nipote.

        “Altre volte bussavamo ai casolari dei contadini che ci rifocillavano alla meglio. Ma non sempre erano accoglienti e spesso ci puntavano contro i fucili. Tante volte siamo stati costretti a minacciare anche noi con le nostre armi per poterci fare consegnare qualcosa da mangiare e poter sopravvivere”.

        “E caro il mio bimbo - aggiungeva - la guerra è una brutta bestia. L'uomo diventa peggio di un animale. Anzi gli animali sono certamente sempre migliori di noi uomini perché loro uccidono per sopravvivere. L'uomo uccide tante volte anche per crudeltà, per sadismo. E la guerra fa diventare cattivi e sadici anche le persone più miti e più buone. Le guerre non bisognerebbe mai farle. Non finiscono mai e quando finiscono la gente sopravvissuta spesso vive per vendicarsi e l'odio crea nuovo odio e nuove violenze”.

        Era in pensione da oltre venticinque anni e da quasi 15 anni era rimasto vedovo.

        La moglie l'aveva conosciuta in quel viale tanti anni prima che più non ricordava quanti.

        Gli sembrava che il tempo gli era passato tutto insieme. Eppure nelle lunghe e torride giornate estive laggiù, in Africa Orientale, il tempo non passava mai ed il desiderio di tornare a casa gli consumava l'animo.

        Rivedere la sua sposa, i due figli lontani, provare la gioia delle loro carezze o sentire il loro pianto era una costante di tutte le sue giornate passate lontano dagli affetti suoi cari.

        E quando questa felicità l'aveva rigustata, il tempo era volato via. E con il tempo anche la sua famiglia era volata via. Prima il figlio si era trasferito per lavoro lontano da casa e poi aveva messo su famiglia e veniva solo per le vacanze. Poi la figlia. Anche lei andata via per lavoro e poi anche lei sposata. Poi era andato in pensione. Pensava di avere più tempo così per andare a trovare i suoi figli e godersi i nipotini ed invece la moglie si ammala e nel giro di qualche anno resta solo.

        Era andato qualche volta a vivere con i suoi figli. Ma si era accorto che non si adattava e non era a suo agio in casa altrui. Nessuno gli poteva dare l'attenzione di cui avrebbe avuto bisogno: Parlare, ricordare, essere anche confortato o commiserato.

        I figli erano sempre in continua agitazione. La sveglia, accudire i nipoti, il lavoro, la spesa e la sera la televisione. Di tempo per parlare non ce n'era. Lui usciva per il paese, solo. Non conosceva nessuno ed aveva difficoltà di inserimento. Se per caso febricitava un pochino aveva un terrore d'andare a finire in ospedale.

        “Se vado in ospedale muoio” - diceva ai suoi figli.

        Questi ridevano ed ironizzavano, anche per sdrammatizzare, dicendogli che non sarebbe morto perché era una pellaccia e gli ricordavano anche che una persona come lui, che aveva affrontato tante avversità e tanti disagi in guerra, non poteva scoraggiarsi per così poco e poi in tempo di pace.

        Ma lui voleva tornare al suo paese, tra la gente che conosceva, con la quale poteva chiacchierare ed essere capito. E poi finiva per farsi accompagnare alla stazione, prendeva il treno ed era felice appena vedeva le sue montagne ed i tetti delle case del paese.

        Se avanzava tempo ed era ancora giorno, usciva ed andava a fare quattro passi nel solito viale dove gli sembrava di respirare l'aria più buona del mondo.

        Era, in fondo, un viale lungo forse centocinquanta metri, circondato da due filari di platani, dove l'amministrazione comunale aveva sistemato cinque panchine che ogni anno venivano riverniciate in rosso.

        Quando sua moglie era ancora in vita andava con lei  a fare delle passeggiate su e giù per quel viale, dopo il pisolino pomeridiano. Sovente incontravano degli amici, loro coetanei, o parenti e scambiavano qualche parola o ascoltavano qualche malignità su questo o quell'abitante del paese.

        Quando rimase solo continuò a fare delle passeggiate, ma preferiva andarci spesso anche alle ore più strane, quando era sicuro di non trovar nessuno.

        Cercava la tranquillità soprattutto in certi momenti di sconforto. Allora si sedeva alla solita panchina, la penultima del viale, e cominciava a pensare intensamente. E con il pensiero iniziava anche una fitta conversazione con la moglie scomparsa, e le  raccontava tutte le difficoltà che incontrava o gli avvenimenti del giorno che gli sembravano più interessanti. La conversazione finiva sempre con un groppo alla gola e si scioglieva immancabilmente in lacrime.

        Poi si rasserenava, si asciugava gli occhi e si sentiva più tranquillo. Si alzava e si avviava verso casa. E se incontrava un amico aveva sempre una battuta pronta quasi a nascondere l'angoscia che gli rodeva dentro.

        Negli ultimi anni poi, si sentiva abbastanza stanco e spesso non arrivava più neppure in fondo al viale. Si fermava alla prima panchina, poi si alzava e continuava la passeggiata, ma difficilmente oltrepassava la quarta panchina dove si fermava, si sedeva ed ascoltava il richiamo dei merli ed il canto degli usignoli.

        All'inizio di maggio il viale era ancora poco frequentato e spesso, restando immobile seduto sulla panchina, non era raro veder apparire qualche famigliola di cinghiali che si aggiravano nei pressi alla ricerca di tuberi o vermi con cui nutrirsi. I piccoli erano i più coraggiosi (o i più incoscienti). Spesso gli si avvicinavano a qualche metro e scappavano impauriti grugnendo soltanto nel momento in cui Francesco non riuscendo più a restare immobile era costretto a fare qualche movimento  agli arti intorpiditi dall'immobilità.

        Spesso arrivava vicino anche qualche daino. Sulla montagna Pistoiese ve ne sono tanti in libertà che godono anche una particolare protezione faunistica. Per questo si portava dietro un po' di sale che ogni tanto lasciava vicino ad uno dei tronchi di un platino. I daini ne andavano ghiotti e, forse, avevano anche abbinato la presenza del sale con l'arrivo di Francesco. Infatti sovente non tardavano a farsi vivi dopo qualche tempo che lui si era seduto nella solita panchina.

        Tutte queste piccole situazioni erano motivo di gioia e gli consentivano una salutare distrazione che gli allontanava dal cervello i pensieri che più l'opprimevano.

        Il cinque maggio era passato da qualche giorno. I figli gli avevano telefonato per fargli gli auguri. Lì per lì non aveva neppure capito il motivo di tali auguri. Poi ricordò e comprese che il tempo gli aveva regalato ancora  un anno di vita. Si guardò allo specchio e si vide sempre uguale. Quasi fosse ancora un ragazzo. Gli sembrava strano di aver compiuto 86 anni ed era altrettanto strana quella sensazione che provava di staticità del tempo, come se gli anni non fossero tanti, come se tutto fosse un sogno dal quale, da un momento all'altro, si sarebbe svegliato e forse si sarebbe ritrovato magari sulle dune cocenti, laggiù, nelle lande desolate dell'Africa Orientale.

        Guardò alcune foto appese alla parete. Una di queste gliela aveva inviata suo figlio elaborandola sul computer da una vecchia foto sbiadita del 1936, militare in Africa Orientale, insieme ad un gruppo di suoi commilitoni.

        “1936 “ - pensò - “un abisso di lontananza”. Ed aprì la finestra aspirando una boccata d'aria fresca che gli riempì i polmoni come se davvero sentisse addosso ancora la cappa torrida del deserto africano.

        Guardò la foto, nuovamente, con intensità. Si guardò nello specchio. Strano ma avvertiva la sensazione che quei capelli bianchi, quel volto rugoso, quelle mani tremanti, quegli occhi lucidi non fossero suoi e che lui fosse sempre quello che appariva in quella foto del 1936.

        “Accidenti - disse - devo buttar via queste cartacce. Mi opprimono il cuore”.

        Si accorgeva in effetti di essere vecchio, ma esorcizzava la realtà rifiutando di ammettere che il tempo era passato. E  forse rifiutava anche di vedere passare il tempo.

        Riguardava quella foto con intensità, cercando i particolari più strani. I sassi accatastati attorno alla tenda, i panni stesi ad asciugare, un fiasco di vino vuoto abbandonato in un angolo, il tavolo fatto con assi trovati chissà dove e le panche di legno costruiti artigianalmente. Cercava di riscoprire i visi dei suoi camerati. Visi assenti, lontani, non più visti. E provava ad immaginarsi intensamente che fine avessero potuto fare, se fossero ancora in vita, se anche loro in quel momento stessero pensando a lui o si ricordassero della loro giovane età buttata tra i sassi dell'Eritrea o della Somalia a combattere una guerra senza speranza contro un popolo che a loro non aveva proprio fatto nulla.

        Si ricordava le parole di una vecchia in uno dei pochi giorni di congedo avuti durante le campagne africane:” Quel povero Negus l'abbiamo buttato fuori di casa sua. Verrà tempo che qualcuno butterà noi fuori dalle nostre case. Ed il conto non lo pagherà Mussolini, ma lo pagheremo noi”.

        Parole gravi per quel tempo. Se un soldato le avesse allora pronunciate avrebbe rischiato la corte marziale. Se un civile fosse stato ascoltato avrebbe richiato il confino. Il mondo andava così allora e tutti erano contenti e felici di aver conquistato l'Impero mentre al Sud mancava tutto, le strade, le case e l'acqua e la luce nelle case, e la popolazione per sopravvivere era costretta ad emigrare in America.

        Francesco pensava e ripensava gli avvenimenti passati. I pensieri era l'unica cosa di cui abbondava e spesso erano causa di profonda sofferenza interiore.

        Un paio di giorni dopo il compimento dell'ottantaseiesimo anno, dopo una notte agitata si era svegliato abbastanza presto al mattino. Si era affacciato a prova sull'uscio per verificare le condizioni del tempo. La giornata era discreta ma il freddo non accennava a diminuire. Si coprì abbondantemente ed uscì di casa. Prima si recò a comprare il giornale e con il rivenditore fece un commento positivo leggendo i titoli sulla possibilità di pace con la Serbia, che stava subendo i bombardamenti della Nato.

        “E, figlioli - disse - la guerra è una brutta bestia. Fatevelo dire da chi ne ha viste da vicino tante. E poi questa non mi è andata proprio giù. Mi ha creato un'angoscia profonda perché non lo immaginavo proprio che un popolo socialista come la Serbia si potesse macchiare di tante atrocità con il popolo del Kosovo che appartiene alla stessa nazione. Tutti coloro che, come me, hanno creduto nella grande umanità del socialismo, ad assistere in  televisione alle barbarie commesse dai serbi,  è come se il mondo ci fosse caduto addosso”.

        Questa frase l'aveva ripetuta più volte ed ormai il giornalaio non ci faceva più caso ed annuiva con sconsolata rassegnazione.

        Poi si avviò lentamente a fare la solita,  breve passeggiata. Il viale era deserto. L'ora, ma soprattutto il tempo, non invogliava la gente ad uscire di casa.

        Ma Francesco quella mattina sentiva proprio il bisogno di una boccata d'aria all'aperto.

        Si fermò estasiato ad ascoltare il canto degli uccelli.

        “Ma senti come gorgheggiano gli usignoli stamani - commentò -. Saranno tutti in amore o stanno preparando il nido. Certamente il tempo volgerà  al meglio”.

         Si sedette alla solita panchina e rimase immobile. Dopo una diecina di minuti senti un rumore di frasche proveniente dal bosco retrostante. Un bel daino si affacciò sulla radura, ma il gracchiare di un corvo che si era levato in volo al suo arrivo lo impaurì e scomparve di nuovo di corsa nel fondo del bosco.

        Aprì il giornale e scorse alcuni titoli: si fermo più a lungo a leggere la cronaca locale. Si incavolò non poco sui servizi giornalistici che parlavano di tasse e di pensioni e, poi,  senza accorgersene reclinò la testa sul giornale e, forse per la stanchezza non smaltita per la nottataccia trascorsa quasi da sveglio, si addormentò mentre il giornale gli scivolava sulle gambe.

        Sognò la moglie. E la rivide giovane, come quando la osservava, ammiccando tra le piante del viale, restare lunghe ore a giocare in compagnia delle sue amiche. Ripensò ai suoi capelli biondi, un po' arruffati,  sparsi sulle spalle, e che ogni tanto allontanava con la mano quando il vento glieli spargeva davanti agli occhi. Gli sembrava che gli dicesse qualcosa ma lui non riusciva a comprendere le parole e nel sonno cercava di sforzarsi per fargliele ripetere.

        Da qualche minuto sul viale stava passeggiando con un piccolo cagnolino una donna anziana, dai capelli bianchi e con un vestito rosso. Gli passò vicino e sul momento si era preoccupata di Francesco pensando ad un malore. Si accorse, invece, che dormiva e non si preoccupò di svegliarlo, allontanandosi con il cagnolino al guinzaglio verso il fondo del viale.

        Continuava a sognare la moglie che lo chiamava da lontano. Lui si affannava a risponderle ma non riusciva a far uscire la voce dalla gola. Provava ad alzarsi ma non riusciva a sollevarsi dalla panchina. Avvertiva un senso di impotenza e cercava con tutte le sue forze di farsi sentire e di correre incontro alla moglie.

        L'angoscia lo svegliò d'un colpo. Guardò in giro e vide la donna del cagnolino in fondo al viale che si allontanava sempre più.

        Quel vestito rosso, indossato più volte dalla moglie, e quei capelli bianchi, che in lontananza sembravano biondi, gli diedero l'illusione che realmente la moglie gli fosse stata vicina e che, dopo averlo inutilmente chiamato, si stesse allontanando.

        Si alzò barcollando dalla panchina cercando inutilmente di correre dietro quella lontana figura di donna,  ma non riuscì neppure a muovere un passo. Provò a chiamare: ”Alma, Alma”, ma dalla gola gli uscì un rauco bisbiglio che si spense insieme alla disperazione che l'aveva tutto invaso. Ricadde sulla panchina, con la mano tesa verso il fondo del viale, e mentre cercava inutilmente di lanciare un ultimo richiamo la vita gli sfuggì dal corpo, quasi lanciata dietro la fantomatica figura che ormai si era dissolta nel nulla.

        Lo trovarono alcune ore dopo seduto sulla panchina, con la testa reclinata in avanti, con gli occhiali ancora inforcati ed il giornale stretto tra le mani.

        Sembrava riposasse sorridente, quasi appagato da un desiderio ormai esaudito, circondato dal cinguettio dei passeri e dal canto melodioso dei merli e degli usignoli .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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