La nascita di Lia
di
Enzo Maria Lombardo
La mia prima Lia, quando
nacque, aveva, più o meno, sedici anni.
E io l'aspettavo, ogni sera, in cima a
un foglio bianco e, nell'attesa, c'era un'ansia sempre nuova, e, dal primo rigo
un po' incerto, la seguivo, con frasi sempre più lunghe e articolate, in strade
dritte e pulite, in ville e prati curati, finché mi insinuavo furtivo fra le
siepi di un giardino e – seduto su una panchina di marmo, seminascosto dalla
chioma di un larice – tentavo di imprimermi nel cervello forme, impressioni,
movimenti, colori, luci, ombre. Tutto di lei. E tutto finiva in quel foglio e
ogni cosa si trasfigurava, s'ingentiliva con la scelta accurata dei fonemi, con
tratti di acquarello, con il bianconero delle ombre lunari…
La vedevo, appena alzata, circondata da
sete bianche in cui i suoi capelli fluivano come ruscelli dorati quando,
convinta d'esser sola, la piccola bocca le si arrotondava, non protetta, in un
lungo sbadiglio, mentre braccia bianchissime si tendevano in alto assieme ai
piccoli seni. Poi la inguainavo in abiti attillati, oppure le disegnavo addosso vesti vaporose con disegni cangianti e le donavo le
prime scarpe con il tacco, su cui riusciva subito a camminare leggera come se
le avesse sempre portate.
E rileggendo le ultime pagine di una
nuova storia, aggiustavo qualcosina qua, un filino
là; non tanto, però, ché bisogno non c'era. Se limavo il racconto era per lei.
Volevo starle ancora un po' vicino. Sentirla mia, totalmente mia.
E così evitavo di concludere le storie,
rettificavo un fronzolo, una piega, una sciocchezza, che so... giusto l'orlo di
una camicetta, il tenue rossore d'una guancia o la soffusa trasparenza d'un
ginocchio di porcellana quando, sfiorando appena il terreno, danzava la sua
primavera mostrando i segni della sua recente pubertà, quasi impudichi nella
loro ingenua evidenza.
Però, qualche sera, cercando l'incipit per una nuova storia, restavo a
lungo incerto davanti al foglio bianco mentre nella mente le frasi scorrevano
lente e banali, senza alcun mordente…
Anche la Lia mi appariva imperfetta. I colori sbiaditi, le
movenze forzate, il biondo dei suoi capelli troppo biondo e l'azzurro degli
occhi troppo azzurro...
Cosa mancava ancora? Cosa potevo dare
ad una pura immagine per farla diventare un vero personaggio?
In quei momenti, esausto, cessavo anche
di tentare di scrivere qualcosa, chiudevo la stilografica, appallottolavo il
foglio immacolato e restavo così, nella penombra, con gli occhi socchiusi,
quasi volessi attutire i sensi, confonderli nell'oscurità, perderli nel buio…
* * *
Una sera mentre le ombre si addensavano
sempre più nello studiolo, in cima al foglio bianco spuntò una tizia che non
somigliava affatto alla mia Lia.
- “Tu non sei Lia!” - dissi con forza
ed ero un po' spaventato da quell'intrusione - Hai sbagliato autore! Vedi
questo foglio, carina? Io aspetto una persona, in
questo foglio bianco, l'aspetto proprio adesso e tu non puoi entrarci!”
Il suo silenzio era irritante e io la
fissai sconcertato. Aveva una figurina minuta questa tizia, capelli neri a
caschetto e occhi che sembravano punte di spilli in un mare di rimmel e poteva
anche essere graziosa, a modo suo, con quel viso impiastricciato e impertinente
ma guastavano tutto quei jeans scoloriti, la maglietta stinta rossastra e le
scarpe da tennis strappate in più punti.
- “Non viene” - disse sogghignando e
gli occhi le luccicarono come piccoli tizzoni ardenti che quasi bucavano la
carta.
- “Cosa vuoi dire? Chi è che non viene?”
- “E' morta, quella” - continuò con una
voce strascicata e insolente.- “Tu sai bene che è
morta. E' morta stracciata, accartocciata, finita nella cartaccia fra il
pattume dei tuoi scritti mielosi. Non ricordi?”
- “Piccola arpia senza nome” - gridai
con ferocia - “la mia Lia non è morta! Non è morta per niente!
Non può morire un sogno, maledetta, non può essere stracciata una visione!”
Lei non si scompose e con un certo
sussiego posticcio si mise a misurare lo studiolo a piccoli passi ancheggiando
con intenzione.
- “Sì, morta” - disse in un sussurro
appena udibile. “Morta e sepolta!” - disse più forte e si sedette davanti al
tavolo inclinando quel piccolo viso truccato male, guardandomi di sottecchi
come aspettando qualcosa.
Oddio, pensai con terrore, può anche essere
che limando e rilimando, stracciando le bozze,
ritoccando qua e là qualcosa, posso aver distorto un po' il personaggio...
specialmente nelle ultime storie, negli ultimi paragrafi… Ma morta no!
- “Come potevo” – - urlai ai muri e
agli scaffali - “scambiare il suo viso e il suo portamento per una tizia senza
nome? E per chi, poi? L'avrei forse uccisa
per te? Per una tizia impertinente che neppure conosco?”
Lei si sporse sulla scrivania, vi si
adagiò, quasi, con il busto e il ventre, spingendosi verso di me e allargando
le labbra contornate da un segno rosso un po' sbavato. Poi mi alitò sul viso un
“Sì!” così pieno e potente che mi parve il suono stridulo d'una stilettata. E
allora capii di aver perso.
- “Chi sei?” – balbettai – “Chi sei
tu?”
- “Guardami bene” - disse
lei con impeto – Io sono Lia! Sì, proprio io!” - disse risiedendosi con aria vittoriosa. – “E sei tu” – continuò – “Sei tu che mi hai fatto nascere a sedici
anni facendomi sbucar fuori da una tua insofferenza, lercia e stracciata come
piace a te! Ed ora mi rifiuti?”
- “No!,
no!, no!” - cantilenai io senza forza e chiusi gli occhi ma il suo viso mi era
sempre più vicino. Li riaprii, gli occhi, ed era ancora là, nitida e
trasparente, stagliata tra i volumi e i soprammobili dello studio, riflessa dal
foglio bianco in cui la penna ricominciava a scrivere mentre lei continuava a
parlare con voce meno accesa, più dolce, una voce che la mia Montblanc, strisciando sulla carta, si sforzava di rendere
viva e credibile.
- “Dillo” - continuò con voce più
forte – “dillo che non ne potevi più, povero santo, di immagini poetiche e
fasulle! Dillo che le sete, i veli e quei colori smorti e da fantasma ti
avevano procurato il voltastomaco! E così ti sei deciso, finalmente! Mi hai
costruito quasi senza accorgertene, in sordina… e mentre quella smorfiosa
moriva e quei cosi che le avevi messo addosso, belli e bianchi, diventavano
cartaccia assieme al suo pianoforte e al larice piangente, io ti crescevo
dentro e tu smaniavi, la tua stilografica fremeva, la risma di carta era lì, ad
aspettarmi… E così mi facesti correre e giocare con i cani affamati in una
prateria piena di erbacce, di copertoni bucati e batterie abbandonate finché un
giorno... oh, un giorno particolare, un giorno strano, mi hai fatto credere di essere
donna!”
A quel punto quel torrente di parole si
fermò e un silenzio d'attesa scese come un sipario tra le parole. Lei respirava
a bocca aperta, con affanno, e una parte di me voleva fermarmi finché ero in
tempo, ma non potevo! L'inchiostro fluiva dalla stilografica in volute sottili,
come un filo di sangue nero che non potevo interrompere senza ucciderla.
Così mi costrinsi a
seguire la penna e la mia nuova Lia continuò a parlare, a parlare, a
parlare... e il pennino dorato volava
veloce sul foglio e faceva zig zig scratc, zig
zig scratc e, per far
presto, le “t” restavano senza barra e le “i” senza puntino.
Dovevo seguirla in
fretta, questa tizia, anche se non capivo bene tutte le sue parole e il senso a
volte mi sfuggiva. Pensai che dovevo proprio limarlo
quel pezzo, magari ripassarlo e correggerlo. Magari strappare tutto!
- “Vorresti strozzare anche me?” - disse lei leggendo il mio
pensiero - “Vuoi accartocciarmi nei fogli appena abbozzati? Oppure mandarmi al rogo bruciandomi nel portacenere? No che non
puoi! Perché tu muori dal desiderio di rivedere quella tiepida domenica di sole
in cui io fui donna! Donna? Che dico? - continuò lei puntando lo sguardo sulle
carte, e la sua voce mi sembrò più acuta e che tremasse un poco – Femmina, mi
vedranno i tuoi occhi in quei fogli che tenterai di nascondere in fondo al
cassetto! O forse neppure questo: sarò una cosa che si può fare a tocchi, a
fette, una cosa senz'anima da vendere e comprare! Così mi vedranno quelli che
mi metterai attorno, pronti a palparmi il sedere come un melone, giusto per
sapere se è duro e se è maturo, per poi staccarne un pezzo, il più succoso, e
mangiarne la polpa sputando i semi.”
Era assurdo, lo so, ma i
suoi occhi mi parvero d'un tratto più lucidi come se quell'immagine fosse anche
capace di piangere e subito dopo vidi davvero due lacrime scivolare in quel
viso da bambina, seguendo due rughette che le si erano formate adesso, agli angoli della bocca.
- “Perché proprio Lia?”
- dissi in un sussurro strozzato – “Perché lo stesso nome?”
Lei mi guardò fisso, tirò su con il
naso e si passò veloce due dita nelle guance inumidite, poi quei piccoli
carboni che erano i suoi occhi luccicarono per un attimo
diversi: come se si sprigionasse da essi un guizzo feroce di fiamma.
- “Perché tu vuoi che io sia la tua Lia!” – gridò con voce
isterica - “Però una Lia che puoi guardare e spogliare. Senza rimorsi, senza pietà e senza pena. Una
come me, vedi? una dai vestiti così lerci che è meglio
che se li levi subito di dosso!”
E così fece,
mio dio! Fece proprio così! Si allontanò dalla scrivania e si tolse la
maglietta e i jeans e restò nuda, con solo un vecchio paio di scarpe da tennis
ai piedi.
La lampada illuminò il chiarore della
sua pelle e i suoi piccoli seni. Anche lei aveva un collo da cigno, pensai,
lungo ed esile come un Modigliani e i suoi capelli neri, a caschetto
riflettevano punti di luce con barbagli di fuoco ed erano ombre più scure
nell'ombra che avvolgeva la stanza.
- “Scrivi in fretta” - mi disse mentre
girava attorno al tavolo con il suo piccolo corpo sinuoso. Ed i suoi passi non
facevano rumore con quelle scarpe da tennis bucate e io sapevo che i miei occhi
seguivano quel corpo, ne seguivano i contorni, i chiarori e le ombre anche se
sembravano puntati su un foglio scritto a metà.
I tratti di penna divennero sempre più
nervosi, le lettere sempre più arcuate, le frasi solo accennate e interrotte da
piccoli schizzi d'inchiostro, spesso senza punteggiature o a capo, senza il
minimo senso del ritmo, con costruzioni strane, cantilenanti, tentando di
imitare la sua parlata.
Erano immagini e pensieri fasulli che
non potevano appartenermi, pensai, parole che, rileggendole, avrei forse
ripudiato e maledetto, ma che adesso sembravano emergere da sole, dalla mia
stilografica.
- “No!” - mi sentii gridare - “Non ti
distruggerò, Lia, non posso farlo...” e la penna
continuò a scricchiolare lenta e sforzata sul foglio tracciando lettere
tremolanti e a volte la punta s'inceppava, bucando la carta.
Poi, pian piano, il pennino dorato
riprese la sua corsa mentre Lia mi guardava felice al di là della scrivania,
ammiccando con i suoi occhi neri, continuando a dettare veloce con una vocina
sottile che non mi parve più strascicata e insolente.
Ed io misi giù tutto quello che diceva.
Lo misi giù tale e quale, sera dopo sera, finché, un giorno, lei disse “basta”
e non perché la sua storia fosse finita, ma perché non era una storia da
finire.
– “Il resto” - mi disse – “lo potrai conoscere da solo
quando incrocerai qualcuna come me.”
* * *
Io non li avevo più toccati quei fogli,
da allora, neppure per scrollarci di sopra la polvere degli anni. E davvero ho
incontrato tante volte la Lia
per la strada, nei marciapiedi di periferia o accoccolata sui gradini di case terrane. Ma, qualche volta, svicolando dalla sua borgata,
lei riesce ad insinuarsi nei grandi magazzini, nelle fermate degli autobus, nei
treni o nelle carrozze della metro. A volte sta seduta, indifferente e svagata,
nel tavolo di un bar o nella panchina dei giardini pubblici. E si mostra con
tanti nomi e tante facce diverse, ma con gli occhi sempre uguali.
Nota:
Questo racconto ci narra
di com'è nata l'idea di Lia, un personaggio che ha interessato l'autore a tal
punto da scrivere poi un romanzo, intitolato Lia di Porta Portese e che potete leggere
del tutto gratuitamente cliccando sul link che segue:
http://www.isogninelcassetto.it/old_site/e-book_1_pdf/ebook_lombardo_1.pdf