Storia di
Papo, di Bimbomio,
dell'Uomo col Cappello e del ponte
di
Maurizio de Giovanni
Papo,
Papo, senti: ha detto la suora, quella bella, sai,
che se mi tieni la manina l'ago non mi fa male. E allora, me la tieni sempre, la manina?
Per quanto sembri incredibile, a un
certo punto il dolore cala; e tu cominci a uscire.
Non è un
fatto buono. Il dolore fa compagnia, ti abitui al morso feroce della bestia che
hai dentro, ti fa calore. E' sempre una cosa che viene da lui, da Bimbomio; anzi, è l'unica cosa che ti resta.
Quando
se ne va lascia un cratere senza fondo, un mare di silenzio che urla e non dà
pace. Ma se ne va, e tu lasci il buio confortevole della nicchia che ti sei
scavato con le unghie in mezzo alle cose tue e devi uscire.
Nel
caso mio all'improvviso i giocattoli, i libri, le magliette e i pigiamini hanno smesso di parlarmi. Non mi portano più nel
passato, non rievocano voci e risate. Solo panni vecchi, e pezzi di plastica
sporca. Stalattiti sul soffitto, dice la canzone.
Perché
mi chiami Papo, gli chiedo. Ride e mi dice: perché
sei maschio, no? Le femmine si chiamano Mamma, finisce per la a perché sono
femmine. E che ne sai tu, di mamma? Diventa serio, e dice: i bambini negli
altri lettini ce l'hanno, la mamma. Io però ho te, Papo,
e tutti mi invidiano.
Cammino per ore, pioggia o sole che
ci sia, freddo o caldo. Cammino per strade che non conosco, sfiorando le
persone frettolose, cariche di pacchi e di pensieri, e non riesco a credere che
non capiscano, che non si fermino di fronte a me, una mano sulla bocca, gli
occhi spalancati sul baratro della mia sofferenza.
Ma
non si vede nel mio sguardo? Non si capisce dai miei lineamenti, dai capelli
sporchi attaccati alla fronte, dalla camicia male abbottonata? Dalla barba di
tre settimane, dalle borse sotto gli occhi, dalle scarpe slacciate? Non si
capisce che ho perso Bimbomio, che non lo sentirò più
sussurrare nel sonno, che non capirò più se ha fame o freddo prima di lui?
E
allora tu mi chiami Bimbomio. Tutti dicono Marco, ma
il mio vero nome è Bimbomio. Lo sappiamo solo io e
te, Papo. Un sacco di cose, le sappiamo solo io e te.
Ma nessuno lo capisce. E' strano, se
ci pensate: un dolore che ti divide la vita, un precipizio sull'orlo del quale
cammini in punta di piedi, come se il rumore potesse svegliare te stesso. Un
tuono continuo nelle orecchie, e nessuno che lo senta.
Io
e Bimbomio eravamo rimasti soli quasi subito. La mamma un giorno c'era e la sera non c'era più, Bimbomio aveva un anno, rideva sul letto della vicina con in mano una sua scarpetta. Lui rideva, la vicina aveva
invece gli occhi tristi di chi ha capito, ma non capisce. Sul biglietto c'era
scritto: non ce la faccio. Io invece capii subito, era così, una farfalla
colorata e impalpabile, sapeva ballare e volare, non era fatta per essere
mamma.
Non
la odiai, allora. La odiai dopo, quando serviva il trapianto e io, maledetto,
non ero compatibile. Cercai disperato e non ne trovai mai traccia, era stata
brava a scomparire, chissà quanto ci aveva messo a preparare tutto. Forse aveva
cambiato nome e città, forse pianeta e sistema solare: niente mamma, Bimbomio, e niente trapianto.
Ci
rimasi io, con Bimbomio. Era il mio posto, non ne
dubitai mai. Si abituò la vicina e si abituarono tutti, a vedere quest'orso
grande e grosso con questo bambolotto che rideva in braccio, perché sappiatelo che Bimbomio rideva
sempre: sfido qualcuno nel palazzo a dire di aver sentito un pianto di bambino
venire da casa nostra. E a scuola era il beniamino, mi pare di sentire la voce
della maestra che mi dice mai visto un bambino così, e io che dico sfido, è il
bimbo mio.
E
tutto andava bene, a meraviglia. Ci penso mentre cammino sotto la pioggia, per
scappare dal tuono che mi martella le orecchie in mezzo a una foresta di
ombrelli che si incastrano l'uno con l'altro. Finché non mi chiamano al lavoro,
e mi dicono dottore, il bambino è caduto. Come, caduto?
Non
lo so, Papo. Stavo giocando, ero io sotto e contavo,
poi mentre contavo è come se mi fossi addormentato, non mi ricordo più. E mi
sono trovato a terra, sai, Papo, come quando giochiamo
io e te a girotondo, e tutti mi guardavano.
Mi ricordo la faccia di quello del
laboratorio di analisi, non un dottore, forse un infermiere o nemmeno, un
impiegato. Guardava a terra, a destra o a sinistra, mai in faccia a me. E io
invece cercavo un'occhiata, un sorriso; e trovai la sentenza.
Un
anno, solo un anno. E adesso eccomi qua come un povero pazzo, a cercare di
nuovo almeno il dolore, una tempesta di dentro che faccia più rumore di quella
di fuori.
Papo,
vai un poco a casa. Mi piace pensare che sei a casa,
così fai compagnia ai miei giocattoli. Mi dispiace, che stanno soli. Vai a
casa, Papo.
Camminando mi ritrovo sul ponte. Ci
venivo da ragazzo, con un paio di altri monellacci, a
sputare alla cieca e immaginare di colpire vecchie signore dai capelli cotonati
o carabinieri col cappello a due punte. Chissà come ci sono arrivato, sul
ponte. Piove a dirotto, vado di sotto con l'ascensore. Di fronte al pilastro
c'è l'antica farmacia, non me la ricordavo: dal ponte scende l'acqua a
torrenti, i passanti la evitano, con questa forza spaccherebbe gli ombrelli e
forse anche le teste. Tutti corrono in direzioni diverse, ma dove andranno mai
in mezzo al vento, che cosa può far uscire le persone di casa in una giornata
così. A parte il sottoscritto, naturalmente, al quale piove anche dentro,
signore e signori, al quale non riesce a dare pace
nemmeno il silenzio.
Però
il ponte è un intervallo, mi sembra. Ci piove attorno ma non sotto, ci sono
come due alte pareti d'acqua e in mezzo l'asciutto. C'è un tempietto alla
Madonna, così vicino alla basilica di Santa Maria alla Sanità che se allunghi
un braccio la puoi toccare. A chi può essere venuto in mente, di fare un
tempietto minuscolo così vicino alla grande chiesa?
Intanto
il tempietto è asciutto, in questa giornata di pioggia, mentre sulla cupola
della grande chiesa l'acqua batte furiosa. Quindi la madonnina ha un senso,
dopo tutto.
Mentre
ci penso vedo l'uomo col cappello. E' seduto nell'angolo tra il pilastro del
ponte e l'edicola, su una sedia sgangherata di paglia annerita e di legno
scrostato. Ha gli occhiali neri, dev'essere cieco,
forse è un mendicante; e appunto ha il cappello, non uno di quelli con la
visiera o di lana, non un basco o una coppola. Proprio un cappello di quelli
vecchi, con la tesa all'insù dietro e all'ingiù davanti, e una fascia attorno.
Un cappello grigio, o forse nero, non si vede bene perché con tutta quest'acqua
è quasi buio.
Mi
affascina, il cieco. Perché la gente ci passa accanto
e attorno, lo circumnaviga e sembra non vederlo. Forse è invisibile, penso.
Forse è di un'altra dimensione. E rimango a guardarlo, aspettandone un gesto.
Invece niente, tiene le mani in grembo, le gambe diritte, sta composto, come
dicevano le vecchie maestre. Le persone passano e sembrano non vederlo, lui
sembra non sentirle.
Poi,
all'improvviso, piega la testa come se avesse sentito qualcosa. Si gira dalla
mia parte, fa un mezzo sorriso. Porta la mano alla testa, piano, alza il
cappello di due centimetri e fa un lieve inchino. Mi saluta.
Mi vengono i brividi, lo credo bene
con tutta l'acqua che ho preso. Mi vengono i brividi e scappo a casa.
Papo,
raccontami una storia. Non fa niente se dormo, tu non ti fermare. La suora
bella mi ha detto che se tu mi racconti una storia mentre dormo succede una
magia, e io sogno la tua storia e ci sto dentro. Racconta,
Papo. Racconta.
Ci torno il giorno dopo, non so
perché. Ho passato la notte a occhi sbarrati, fissi sul soffitto. Sul letto di Bimbomio, come ogni notte da quando se n'è andato, a
guardare le stelle fosforescenti che ho attaccato al soffitto quando ho saputo
che sarebbe nato.
Per
una volta, senza immaginare come sarebbe diventato Bimbomio;
senza pensare a Bimbomio adolescente, con la prima
ragazza, a tenere una lezione o una conferenza, a pilotare un aereo. Stavolta
non a pensare a questo.
Stavolta
il mio pensiero è per il vecchio cieco. Come ha fatto a sentire proprio me,
sotto la pioggia? E perché nessuno lo vedeva?
E
mi ritrovo di nuovo qui. Oggi non piove, ma si è alzato il vento. Un vento che
batte il ponte, sopra e sotto. La gente cammina attenta, forse teme di alzarsi
in volo e di essere portata via in mondi lontani. Io magari, fossi portato
lontano. Lontano anche da me e dal maledetto cratere attorno al quale cammino
in punta di piedi.
L'uomo
col cappello sta là, seduto sulla sua sedia sgangherata. Il vento come la gente
gli passa attorno e non lo sfiora, nemmeno la giacca nera muove gli angoli. Sta
là, tra il pilastro e la piccola cappella della madonnina d'oro, una macchia
scura tra i fiori che si muovono come alghe nel vento. Stamattina canta piano,
a fior di labbra. Cchiù luntano me staje, cchiù vicino te sento… Un
tuffo al cuore.
Sai
Papo, la suora bella mi fa un po' di compagnia, la
mattina. Io le ho chiesto, senti, suora, mi racconti una storia? Lei mi ha
detto che storie non ne sa, ma che mi può cantare una canzone, io ho detto va
bene. E lei mi ha cantato te voglio, te penso, te chiammo… una canzone bella, Papo,
io pensavo a te e lei mi ha detto cantala e Papo
arriva subito.
Si è fermato da
cantare, ha sorriso e di nuovo ha alzato il cappello con un inchino del capo.
Stavolta non ha guardato dalla mia parte. Poi sono passate due ragazzine
ridendo, proprio vicino a lui, e non l'hanno visto. Non lo vedono, le persone
non lo vedono, ne sono sicuro.
Ma
perché non lo vede nessuno? E perché non lo sentono cantare? Io lo sento, anche
col vento e le moto che urlano sotto il ponte. Ho avuto voglia di avvicinarmi e
chiedere, ma ho avuto paura. E me ne sono andato.
Per
tornare il giorno stesso, però. Attratto da non so cosa, forse dall'illusione
di una consapevolezza, forse dal fatto che lui come me naviga fermo in mezzo a
un mare di gente che ti passa sopra, sotto e attraverso e non ti vede, non ti
sente. E così mi ritrovo sotto il ponte, attraversato da raggi di sole
improvvisi che si fanno strada tra nuvole che corrono. In piedi, a due metri di
distanza dalla sedia scrostata e dal suo strano occupante, a sentirlo cantare a
mezza voce è n'anno, ce
pienze ch'è n'anno, ca ‘st'uocchie nun
ponno cchiù pace truva'... Faccio un passo avanti. Lui solleva il mento,
o forse così mi sembra. Interrompe il canto. Lo vedo più da vicino, adesso. E'
vecchio, non saprei dire quanto. Mi guardo attorno. Il quartiere corre sulle
moto senza casco, tre bambini che tornano da scuola mi sfiorano e sfiorano
l'uomo, gli passano vicinissimo ma non lo guardano.
Non
lo vedono. La gente non lo vede. Lo vedo solo io.
Papo,
sussurra. Il cuore mi fa un balzo in petto. Lo sapevo. Giuro che lo sapevo. Lui
sa chi sono. E non mi vede.
Papo,
Papo mio. Prendimi in braccio,
Papo, anche se sono grande e peso. Tu sei forte, Papo, se ci sei tu non devo camminare e non mi stanco.
Sono
stanco, Papo. Tanto tanto.
Faccio ancora un passo, sto tremando.
Il vento è forte e caldo, il ponte non dà riparo e sospira. I fiori della
madonnina tremano inquieti. Papo, dice ancora,
stavolta chiaro, labbra ferme. Sei tu, vero?
Sto
guardando un fantasma. Sto guardando uno che sa, che è venuto a parlare con me.
Ecco perché lo vedo solo io, perché parla solo con me. Mi ha chiamato, è per
questo che dopo tanto cammino mi sono fermato sotto il ponte. Chi sei, gli
chiedo. Chi sei tu?
Come
se non gli avessi chiesto niente. Sei Papo, dice. Sei
Papo e pensi a Bimbomio.
Quel nome, sentire quel nome ancora una volta senza doverlo urlare nel mio
silenzio, già questo è un regalo che non aspettavo in questo pomeriggio di
vento e nuvole. Devi ricordare, dice. Devi ricordare, non dimenticare come
tutti hanno detto, quando ti stringevano la mano vicino alla cassa bianca, non
pensare a guardare avanti come se ci fosse un avanti. Ricordare, invece.
Ricordare tutto.
E
poi?, chiedo. E poi, che succede? Se ricordo tutto,
che succede? Tu che sei nell'altro mondo, lo sai che succede?
Sorride.
Quando sorride sembra più giovane. Hai ragione, fa. Io sono di un altro mondo.
E ti dico che Bimbomio ti aspetta, ti vuole. Ma per
rivederlo, per tenerlo in braccio, devi ricordare. Ricordare tutto, fino
all'ultimo.
Papo,
Papo, me lo prometti? Non al buio. Il buio è brutto,
io ho paura. Non mi importa dell'ago, e nemmeno dei dottori. Ma il buio no, Papo. E se è proprio necessario, tienimi in braccio. Fai
come che sono ancora piccolino.
Ci torno, e ci torno ancora. Gli
racconto tutto, e man mano che racconto le cose mi fioriscono nella mente, con
colori nuovi e antichi, come se stessero succedendo ancora. Quella volta che
l'ho trovato immerso nella Nutella, due baffoni marroni e una risata.
Quell'altra che non dormì tutta la notte perché l'indomani doveva giocare a
pallone al parco, una partita vitale con gli amici della scuola nuova. E
quell'altra al mare, che non voleva bagnare il costumino
e se ne stava in piedi vicino all'acqua, la faccia preoccupata.
Istantanee
di una vita, una collana di momenti, tutte perle bellissime da sole e ancora
più belle insieme. Parlo, parlo, racconto, racconto
mentre le nuvole si inseguono sopra il ponte, mentre la gente corre attorno
alla sedia scrostata e all'edicola della madonnina d'oro, in piedi nell'angolo
di marciapiede sotto il pilastro. Le persone entrano e escono dall'antica
farmacia, come in quei film accelerati, con in mano
pacchetti di speranza. E speranza ho io, mentre parlo senza prendere fiato e
l'uomo col cappello ascolta o forse no, canticchiando a mezza voce e qualche
volta sorridendo, quando tiro fuori un ricordo che non so di conservare nelle
pieghe della mia anima straziata. Chi sei, tu?, gli
chiedo ogni tanto. Ricorda, mi risponde. Ricorda tutto. Fino all'ultimo.
Sai,
Papo, oggi a scuola mi hanno detto povero Marco, che
non hai la mamma. Io allora ho chiesto:
ma la vostra mamma fa per voi questo e quest'altro, ho detto le cose che fai
per me ogni giorno. E sai, Papo?
Nessuna mamma le fa, queste cose. Allora io sai che ho
risposto? Poverini voi, ho risposto.
Ricordo, ricordo ogni singolo
momento. Quel giorno, e i giorni dopo, e quelli ancora dopo. Ritorno sotto il
ponte ogni giorno, e le nuvole hanno smesso di rincorrersi e la pioggia di
cadere, gli ombrelli si sono chiusi e i vestiti che ci sfiorano frettolosi sono
più leggeri. Il ponte che attraversa il quartiere come una ferita vecchia offre
riparo, e qualche vecchia si ferma all'ombra e si asciuga il sudore sospirando.
Ma nessuna, nessuno vede l'uomo col cappello che non suda, ma canta a mezza
voce e mi ascolta.
E
anch'io sento la mia voce gracchiante, asciugata dal fiume di parole che sgorga
dal mio cuore straziato. Quella volta che è tornato da scuola col ginocchio
sbucciato, quell'altra che ha preso dieci, quell'altra
che siamo andati a vedere il Re Leone. Ricorda, dice. Ricorda ancora, siamo
lontani. Ricorda tutto.
Mentre
racconto lo odio, per costringermi a rinnovare il
dolore a ogni sospiro, per farmi rivedere la faccia sorridente della mia
felicità perduta. E comincio a sentire l'eco di una nuova sofferenza, come la
promessa della luce alla fine della galleria percorsa in treno, alla massima
velocità. Non ho paura, se potrò risentire la carezza della voce di Bimbomio. Anche se uscirà dalla bocca del vecchio, al posto
della canzone. Chiù luntano
me staje, chiù vicino te
sento.
Ancora.
Ricorda ancora, racconta ancora. E io ricordo, maledetto fantasma vampiro, che
succhi l'immagine del mio bambino e del suo breve tempo. Ascolta, maledetto
fantasma vampiro, e aprimi la porta che mi separa da lui. Non lasciarlo ancora
troppo nel buio, senza di me: il mio bimbo ha paura, del buio.
A
un certo punto i ricordi del prima finiscono. E
cominciano quelli del dopo, di dopo la mattina dell'impiegato del laboratorio
di analisi. La mia voce si inceppa, il vecchio non manda pietà da sotto il cappello:
ricorda, ricorda tutto. La mezza voce è diventata più imperiosa, non consiglia,
non supplica: comanda. Ricorda tutto, non dimenticare. Dottori, corridoi,
aeroporti. Odore di alcol, la pipì di Bimbomio che
puzza di mille medicine. Ricorda, ricorda tutto. Pastina assaggiata, non è
calda, apri la bocca. Mezze luci della notte, Papo,
tienimi la mano che sogno di essere nella tua favola. Infermiere col sorriso
triste, chilometri in due metri per tre. Compagni di stanza vissuti e andati
via, dimessi o morti, una nuova speranza e una nuova disperazione. Ricorda,
canta il vecchio. E io ricordo.
Aprimi
la porta, maledetto fantasma.
Vieni,
Papo. Corri dal tuo bimbo.
Il ponte tace, stanotte. Anche i
motorini senza casco hanno smesso di lacerare l'aria. Ho finito i ricordi.
L'uomo col cappello tace, fermo con lo sguardo senza vista di fronte a sè, le mani in grembo e la giacca chiusa, le gambe strette
come ogni volta che l'ho visto. Che altro vuoi, maledetto fantasma?
Sono
solo il custode, io. Sono quello che apre la porta. Ma per aprire la porta devi
ricordare. Ricordare tutto.
Ma
non ho altro, gli dico. Ho ricordato ogni singolo momento, ogni fiato. Ho
illuminato tutti gli istanti di Bimbomio, della mia
gioia. Della vita che abbiamo vissuto, dello spazio e del tempo che ci hanno
dato. Che ci avete dato. Fammelo vedere, fammelo tenere in braccio. Solo una
volta, una volta ancora.
E
tu ricorda, dice fermo come una statua nella notte. I fiori della madonnina
sono marci e puzzano. Ricorda ancora.
Piangendo
attraverso ancora il corridoio dell'ospedale, sono andato a firmare. Bimbomio è al buio, nella cassetta bianca e nell'odore di
fiori marci, in mezzo a parole senza conforto e a becchini che fumano e si
raccontano barzellette sconce sottovoce. Continua,
dice l'uomo col cappello. Esco nel sole, ho gli occhi pieni di pianto e di
sogni, il cuore vuoto. Ci sei, ci sei quasi, dice l'uomo col cappello. Esco
all'aria, non respiro. Cammino dentro di me attorno all'immenso cratere, fuori
nella strada piena di urla e rumori. Ancora, ancora, dice il vecchio: che
succede, dopo? Dopo, attraverso vie e vicoli, seguo lo squarcio dell'anima, la
gente vede il mio pianto e distoglie subito lo sguardo, come quando... Come
quando?, chiede il vecchio, il respiro corto come il
mio. Come quando vedi un morto, dico. Un morto per strada.
Sorride,
il vecchio. E' terribile, il suo sorriso. E' il sorriso di un morto. E poi? E
poi sono andato al ponte, dico. Come da ragazzo, mi ci hanno portato i piedi.
Non sapevo dove, non sapevo perché.
Vieni,
Papo. Vieni da me.
Tace, il
vecchio. Ha consumato il suo rito, e aspetta. Lo guardo, nel silenzio
sussurrante del quartiere un attimo prima dell'alba. Tace,
il vecchio, e aspetta. Ora so che devo finire e finisco.
Sono
salito sull'inferriata. Ricordo il rumore di una frenata, vago, dietro di me.
Non mi sono fermato. Ho volato, come una goccia di sangue, come una lacrima. Un
volo breve e lungo. Un volo di un attimo. Bimbo, Bimbomio.
Volo da te.
Sorride, il vecchio. Puoi andare, Papo:
adesso sì. Si deve ricordare, per andare.
Il farmacista guarda fuori; caldo,
oggi. Tutto in ordine, sotto il ponte. Don Peppino ‘o cecato è al suo posto, seduto di
fianco all'edicola della madonnina d'oro. Ha ricominciato a cantare; negli
ultimi giorni se ne stava zitto, come se ascoltasse qualcosa. Il custode, dice. Io sono il custode. Povero vecchio,
pensa il farmacista.
Povero vecchio pazzo.