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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Didascalie, di Milvia Comastri 28/11/2008
 

                                                             Didascalie

                                                        di Milvia Comastri

 

 

Quando me lo hai chiesto era già tardi.

Da anni, quell'attività dall'apparente innocenza, era diventata per me come una droga. Non, quindi, da quando mi hai detto per favore, non farlo più, non a me; e neppure dal giorno così straordinario in cui ti ho incontrato. No, da molto molto tempo prima. Dal giorno in cui mi sono ritrovata fra le mani la Canon nera e pesante. Da un pomeriggio d'autunno in cui ho imprigionato nella lente del teleobbiettivo una foglia ingiallita ai piedi della panchina del parco. Dodici anni, una ragazzina terrorizzata dal cambiamento che il suo corpo stava subendo.  E il senso della trasformazione delle cose, e il conseguente pensiero della morte che ne era derivato, avevano cominciato ad appartenermi, ossessionandomi.

E così scattavo, e scattavo, e poi scrivevo diligentemente necrologi sotto le foto con cui riempivo i miei album: didascalie come Foglia morta, e Rosa in sfacelo, e Addio all'Infanzia, comparivano sotto le immagini della foglia arida, e del fiore che perdeva giorno per giorno i suoi petali, e dei girini nello stagno, che poi sarebbero diventati rane, per poi morire, come ogni cosa. Perché è solo questo, pensavo, che il tempo produce: morte.

E ancora.

Fotografavo macerie di palazzi demoliti, e cimiteri di auto scassate, e fogli di giornali ingialliti. Prima, dopo.

E a mano a mano che gli anni scorrevano, andavo alla ricerca di immagini imperfette:  una cicatrice impressa su un volto, un arto atrofizzato, un corpo estremamente obeso. Di nascosto, furtiva, fingendo di fotografare altro, inquadravo e scattavo.

Intossicata da una verità assoluta, ne cercavo  con ossessione le prove, come un poliziotto che non ha dubbi su come il delitto si è svolto, ma che deve analizzare le macchie di sangue, interrogare strenuamente i testimoni, appostarsi per osservare i movimenti degli indiziati.

Prima e dopo. Una pubblicità rovesciata di una clinica estetica.

E  clack clack clack. Ogni scatto era una prova della caducità, della dissoluzione, della fragilità in  cui galleggiamo.

Fissando la fine di ogni  cosa su un rettangolo di carta, esorcizzavo la paura  del cambiamento, dell'abbandono, mi allenavo a sopportare altre lacerazioni, simili alla mia infanzia perduta, che la vita mi avrebbe fatto subire.

E ancora.

Prendevo un foglio, un pennarello e scrivevo la parola fine, a lettere maiuscole, con un largo spazio bianco a intervallarle, per dare più risalto all'immagine. Fine, in tutto le lingue che conoscevo, o che riuscivo in qualche modo a rintracciare: FIN; END; FINE; ricopiavo con precisione ideogrammi giapponesi, caratteri arabi, cinesi, scrivevo in russo, disegnavo sulla carta la parola fine in greco, finlandese, turco. E poi prendevo la macchina, mettevo a fuoco. E clack clack clack.  Archiviavo tutto negli album, in un grottesco ossimoro che faceva assurgere la disgregazione a eternità.

Di me, qualcuno diceva che ero eccentrica, altri dicevano che ero pazza. I miei coetaneii quasi mi evitavano. E io mi ficcavo dentro il nido della solitudine, e ci stavo bene, sai. Possedevo una verità che gli altri ignoravano: i ragazzi e le ragazze che conoscevo correvano incoscienti lungo vicoli ciechi, senza consapevolezza del muro contro cui, alla fine, sarebbero andati a schiantarsi.

Per questo, tu, sei stato per me l'unica scelta possibile.

 

Besame mucho, il brano che mi ha rapito una sera. Una festa, e io che mi sentivo stanca di me, troppi clack clack clack nelle orecchie, troppi schermi riempiti da titoli di coda, troppi piegamenti dell'indice su uno scatto. Era una versione sensualissima di quella vecchia canzone, oro liquido che mi ha riempito il ventre. Ho chiesto chi è che suona. Mi hanno portato la copertina di un cd. E' stata la prima volta che ti ho visto. Di te non conoscevo nulla. E ora quella foto, i tuoi occhi, seminascosti dagli occhiali dalla montatura grande, occhi vivaci, che sapevano. E le tue mani, belle, forti, modellate per suonare, per pigiare su tasti  e sensi.

E il resto. Quella assoluta imperfezione del tuo corpo, per me così perfetta.

Ho comprato i tuoi dischi, tutti. Li ascoltavo e ti immaginavo dentro di me: la trasformazione costante che mi riempiva. Della tua malattia conoscevo ogni dettaglio: ricerche nelle lunghe notti dove il leggero ticchettio dei tasti del mio pc si congiungeva alla forza dei tasti del tuo pianoforte. Sentivo, in quelle notti, che la mia insonnia scorreva insieme alla tua continua, irreversibile trasformazione. Mi appartenevi, e ti appartenevo, come mai mi era accaduto.

Poi quel concerto. Montreux, io ubriaca della tua musica e della tua immagine, e la finestra sul lago, e quella camera, e quel letto, e le tue mani, finalmente. E le mie.

E' stato facile conoscerti. Mi sono fatta strada fra la gente che ti circondava, sono arrivata così vicino a te da respirare il tuo respiro. Ti ho detto…non ricordo, non ricordo quello che ho detto. So però come mi hai guardata, con una luce di riconoscimento, come se una lunga attesa si fosse finalmente conclusa. Ti ho amato da subito, mi hai raccontato poi.

Quella camera, i mobili di un secolo passato, e fuori la luce dell'alba che trasformava il morbido nero del lago in uno specchio rosa, e il soffitto stuccato, e le lenzuola umide dei nostri umori. Ti accarezzavo, seguivo con l'indice teso il contorno del tuo corpo, avvertivo la dolente pienezza della mia carne, del mio sesso, di tutti quei punti che tu avevi toccato, da cui avevi tratto una musica dolce e violenta. Vita miscelata alla morte, questo vedevo. Era stata la mia morbosità che mi aveva fatto gridare mentre eri dentro di me, che mi aveva fatto ridere di un riso felice, poi, mentre mi riempivo lo sguardo con il tuo corpo deforme? Ti amavo, perché eri l'unico possibile, per me.

Le mie foto, da quel momento, sono diventate monotematiche: tu, sempre tu. Non i bambini, non compleanni, o alberi di Natale, e neanche foglie morte o rose appassite. Solo tu. E spiavo, e annotavo sulla carta le differenze che si evidenziavano con il trascorrere dei mesi.

Poi mi hai detto: “Per favore, non farlo più.  Sto male, quando lo fai.

E allora ho cominciato a farlo di nascosto. Mentre dormivi scoprivo il tuo corpo e clack clack clak. Quando eri ai concerti, mettevo a fuoco le tue gambe, o il petto, o la testa che sembrava sempre più grande e clack clack clack.

Ma dopo mesi, mentre continuavo a scippare quelle immagini, un pensiero ha iniziato a penetrarmi dentro, a disgregare le mie antiche certezze: forse, ho cominciato a pensare: la parola fine non gli appartiene affatto. Ho cominciato a pensare che tu, forse, eri l'unico essere vivente e immortale, lì intorno. Tu, con la forza della tua musica, con la tua ironia intelligente. Con la consapevolezza della fine, tu, al contrario di me, ti eri liberato dal suo giogo.

Io ho percorso la mia vita vedendo solo muri che si sgretolavano al mio passaggio, raccontandomi bugie, dicendomi che solo così mi sarei salvaguardata dalla sofferenza.  E così, anche con te,  avevo misurato le tue trasformazioni, per prepararmi.

Tu, invece, la tua vita l'hai abbracciata: ne assapori ogni nota, ogni sfumatura di colore, ne catturi ogni emozione.

Questi pensieri hanno cominciato ad accompagnarmi ogni volta che ti guardavo, che ti sentivo ridere circondato dagli amici. Che ti ascoltavo suonare. Che facevamo all'amore.  Pensieri sempre  più completi, sempre più fermi.

E allora.

Tac tac tac: le forbici tagliano veloci, smembrano.

Mi soffermo sui tuoi occhi, prima di farli a pezzetti.

E sulle tue mani.

Ma riprendo a tagliare.

Perché tu dentro di me sei intero.

Tu sei l'uomo per sempre.

E mai più, amore mio, fisserò il tuo corpo su una carta destinata a sbiadirsi.

 

 

Ispirato dal racconto “Fotografie”  di Simona Vinci ( In tutti i sensi come l'amore Einaudi Tascabili, 1999 Stile Libero)

 

 

 

 

 

 
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