Didascalie
di Milvia Comastri
Quando me lo hai chiesto era già tardi.
Da anni, quell'attività dall'apparente innocenza, era diventata
per me come una droga. Non, quindi, da quando mi hai detto per favore, non
farlo più, non a me; e neppure dal giorno così straordinario in cui ti ho
incontrato. No, da molto molto tempo prima. Dal
giorno in cui mi sono ritrovata fra le mani la Canon nera e pesante. Da un
pomeriggio d'autunno in cui ho imprigionato nella lente del teleobbiettivo una
foglia ingiallita ai piedi della panchina del parco. Dodici anni, una ragazzina
terrorizzata dal cambiamento che il suo corpo stava subendo. E il senso della trasformazione delle cose, e
il conseguente pensiero della morte che ne era derivato, avevano cominciato ad
appartenermi, ossessionandomi.
E così scattavo, e scattavo, e poi scrivevo diligentemente
necrologi sotto le foto con cui riempivo i miei album: didascalie come Foglia morta, e Rosa in sfacelo, e Addio
all'Infanzia, comparivano sotto le immagini della foglia arida, e del fiore
che perdeva giorno per giorno i suoi petali, e dei girini nello stagno, che poi
sarebbero diventati rane, per poi morire, come ogni cosa. Perché è solo questo,
pensavo, che il tempo produce: morte.
E ancora.
Fotografavo macerie di palazzi demoliti, e cimiteri di auto
scassate, e fogli di giornali ingialliti. Prima, dopo.
E a mano a mano che gli anni scorrevano, andavo alla ricerca di
immagini imperfette: una
cicatrice impressa su un volto, un arto atrofizzato, un corpo estremamente
obeso. Di nascosto, furtiva, fingendo di fotografare altro, inquadravo e
scattavo.
Intossicata da una verità assoluta, ne cercavo con ossessione le prove, come un
poliziotto che non ha dubbi su come il delitto si è svolto, ma che deve
analizzare le macchie di sangue, interrogare strenuamente i testimoni,
appostarsi per osservare i movimenti degli indiziati.
Prima e dopo. Una pubblicità rovesciata di una clinica estetica.
E clack clack clack. Ogni
scatto era una prova della caducità, della dissoluzione, della fragilità in cui galleggiamo.
Fissando la fine di ogni cosa su un rettangolo di carta,
esorcizzavo la paura del cambiamento,
dell'abbandono, mi allenavo a sopportare altre lacerazioni, simili alla mia
infanzia perduta, che la vita mi avrebbe fatto subire.
E ancora.
Prendevo un foglio, un pennarello e scrivevo la parola fine, a lettere maiuscole, con un largo
spazio bianco a intervallarle, per dare più risalto all'immagine. Fine, in tutto le lingue che conoscevo,
o che riuscivo in qualche modo a rintracciare: FIN; END; FINE; ricopiavo con
precisione ideogrammi giapponesi, caratteri arabi, cinesi, scrivevo in russo,
disegnavo sulla carta la parola fine
in greco, finlandese, turco. E poi prendevo la macchina, mettevo a fuoco. E clack clack clack.
Archiviavo tutto negli album, in un grottesco ossimoro che faceva
assurgere la disgregazione a eternità.
Di me, qualcuno diceva che ero eccentrica, altri dicevano che ero
pazza. I miei coetaneii quasi mi evitavano. E io mi
ficcavo dentro il nido della solitudine, e ci stavo bene, sai. Possedevo una
verità che gli altri ignoravano: i ragazzi e le ragazze che conoscevo correvano
incoscienti lungo vicoli ciechi, senza consapevolezza del muro contro cui, alla fine, sarebbero andati a schiantarsi.
Per questo, tu, sei stato per me l'unica scelta possibile.
Besame mucho, il brano che mi ha rapito una sera. Una festa, e io che mi
sentivo stanca di me, troppi clack clack clack nelle orecchie,
troppi schermi riempiti da titoli di coda, troppi piegamenti dell'indice su uno
scatto. Era una versione sensualissima di quella vecchia canzone, oro liquido
che mi ha riempito il ventre. Ho chiesto chi è che suona. Mi hanno portato la
copertina di un cd. E' stata la prima volta che ti ho visto. Di te non
conoscevo nulla. E ora quella foto, i tuoi occhi, seminascosti dagli occhiali
dalla montatura grande, occhi vivaci, che sapevano. E le tue mani, belle,
forti, modellate per suonare, per pigiare su tasti e sensi.
E il resto. Quella assoluta imperfezione del tuo corpo, per me
così perfetta.
Ho comprato i tuoi dischi, tutti. Li ascoltavo e ti immaginavo
dentro di me: la trasformazione costante che mi riempiva. Della tua malattia
conoscevo ogni dettaglio: ricerche nelle lunghe notti dove il leggero
ticchettio dei tasti del mio pc si congiungeva alla
forza dei tasti del tuo pianoforte. Sentivo, in quelle notti, che la mia
insonnia scorreva insieme alla tua continua, irreversibile trasformazione. Mi
appartenevi, e ti appartenevo, come mai mi era accaduto.
Poi quel concerto. Montreux, io ubriaca
della tua musica e della tua immagine, e la finestra sul lago, e quella camera,
e quel letto, e le tue mani, finalmente. E le mie.
E' stato facile conoscerti. Mi sono fatta strada fra la gente che
ti circondava, sono arrivata così vicino a te da respirare il tuo respiro. Ti
ho detto…non ricordo, non ricordo quello che ho detto. So però come mi hai
guardata, con una luce di riconoscimento, come se una lunga attesa si fosse
finalmente conclusa. Ti ho amato da subito, mi hai raccontato poi.
Quella camera, i mobili di un secolo passato, e fuori la luce
dell'alba che trasformava il morbido nero del lago in uno specchio rosa, e il
soffitto stuccato, e le lenzuola umide dei nostri umori. Ti accarezzavo,
seguivo con l'indice teso il contorno del tuo corpo, avvertivo la dolente
pienezza della mia carne, del mio sesso, di tutti quei punti che tu avevi
toccato, da cui avevi tratto una musica dolce e violenta. Vita miscelata alla
morte, questo vedevo. Era stata la mia morbosità che mi aveva fatto gridare
mentre eri dentro di me, che mi aveva fatto ridere di un riso felice, poi,
mentre mi riempivo lo sguardo con il tuo corpo deforme? Ti amavo, perché eri
l'unico possibile, per me.
Le mie foto, da quel momento, sono diventate monotematiche: tu,
sempre tu. Non i bambini, non compleanni, o alberi di Natale, e neanche foglie
morte o rose appassite. Solo tu. E spiavo, e annotavo sulla carta le differenze
che si evidenziavano con il trascorrere dei mesi.
Poi mi hai detto: “Per favore, non farlo più. Sto male, quando lo fai. “
E allora ho cominciato a farlo di nascosto. Mentre dormivi
scoprivo il tuo corpo e clack clack clak. Quando eri ai concerti, mettevo a fuoco le tue
gambe, o il petto, o la testa che sembrava sempre più grande e clack clack clack.
Ma dopo mesi, mentre continuavo a scippare quelle
immagini, un pensiero ha iniziato a penetrarmi dentro, a disgregare le mie
antiche certezze: forse, ho cominciato a pensare: la parola fine non gli appartiene affatto. Ho cominciato a pensare che tu, forse, eri l'unico essere vivente
e immortale, lì intorno. Tu, con la forza della tua musica, con la tua ironia
intelligente. Con la consapevolezza della fine, tu, al contrario di me, ti eri
liberato dal suo giogo.
Io ho percorso la mia vita vedendo solo muri che si sgretolavano
al mio passaggio, raccontandomi bugie, dicendomi che solo così mi sarei
salvaguardata dalla sofferenza. E così,
anche con te, avevo
misurato le tue trasformazioni, per prepararmi.
Tu, invece, la tua vita l'hai abbracciata: ne assapori ogni nota,
ogni sfumatura di colore, ne catturi ogni emozione.
Questi pensieri hanno cominciato ad accompagnarmi ogni volta che
ti guardavo, che ti sentivo ridere circondato dagli amici. Che ti ascoltavo
suonare. Che facevamo all'amore.
Pensieri sempre più completi,
sempre più fermi.
E allora.
Tac tac tac: le forbici tagliano veloci, smembrano.
Mi soffermo sui tuoi occhi, prima di farli a pezzetti.
E sulle tue mani.
Ma riprendo a tagliare.
Perché tu dentro di me sei intero.
Tu sei l'uomo per sempre.
E mai più, amore mio, fisserò il tuo corpo su una carta destinata
a sbiadirsi.
Ispirato dal racconto “Fotografie” di Simona Vinci ( In
tutti i sensi come l'amore Einaudi Tascabili, 1999 Stile Libero)