La prima
neve
di Milvia Comastri
La prima volta che vidi
la neve avevo dieci anni.
Era l'alba del 25
dicembre di tanti anni fa, e io ero stato sveglio forse per tutta la
notte. Non mi era mai capitato di
starmene da solo in una cameretta, e l'assenza di altri respiri, e la presenza
di quegli odori per me sconosciuti, e perfino il buio, che sembrava avere un
colore diverso da quello cui ero abituato, mi terrorizzavano. Me ne stavo fermo fermo sotto quella sorta di
sacco riempito di piume, mentre le lacrime che avevo trattenuto per giorni e
giorni mi rigavano le guance. Ogni tanto la porta si apriva e allora trattenevo
il respiro e ricominciavo a respirare solo quando mia madre, dopo essersi
chinata su di me e avermi fatto una carezza sui capelli, usciva dalla stanza.
Mia madre. Ma allora non
la associavo ancora alla parola madre, quella donna con i capelli rossi apparsa
qualche mese prima nella mia vita.
Madre, mama,
per me era Ameena. Ma lei, come i miei due fratelli,
come la mia sorellina Irat, come babu, mio padre, erano stati
spazzati via da un'onda enorme, sei anni prima. E tanti altri, con loro. Di un
intero villaggio ci eravamo salvati in tre. E le suore dell'orfanotrofio di Tangalle per sei anni mi avevano chiamato miracolato.
Dello tsunami ricordavo
niente. Della famiglia sì, ricordavo gli odori, sembrava mi fossero rimasti dentro le narici, e da
lì si espandessero dentro di me, per confortarmi: l'odore di curry del sari
della mamma, e quello di pesce essiccato che impregnava la pelle di mio padre,
l'odore di terra che si portavano sempre addosso i miei fratelli quando
rientravano dopo i giochi sulla riva del fiume che scorreva dietro la nostra
casa. La nostra casa fra le due acque: limacciosa quella del fiume, e con tutte
le sfumature dell'azzurro quella dell'oceano.
Ma quella notte, la mia
prima notte in Italia, gli odori del cuore erano spariti, sostituiti da altri,
che erano acidi, senza nome, paurosi. Erano gli odori delle cose sconosciute,
come sconosciuto era l'odore dell'aereo che mi aveva portato fino a lì, e prima
ancora l'odore della stanza d'albergo di Colombo dove avevo passato la mia
ultima notte in Sri Lanka. La donna con i capelli rossi e l'uomo che era con
lei, il marito, anche
loro avevano un odore che non conoscevo. Estraneo a tutto quello che avevo
vissuto fino a quel momento.
“Sei un bambino
fortunato”, mi aveva detto suor Mary. “Questi signori
italiani vogliono che tu vada a vivere con loro. Ti vogliono come
figlio, diventerai il loro bambino. “
Ma in quella notte, in
quella notte che le suore mi avevano insegnato fosse la Notte Santa, io non mi
sentivo fortunato.
Mi mancavano i miei
compagni, ragazzini senza famiglia come me, mi mancavano le suore che avevano
sostituito mia madre nel darmi affetto e rimproveri e che come lei odoravano di
curry. Mi mancava l'odore del mia terra. Forse, anche
se era un pensiero che data la mia giovane età non riuscivo a concretizzare,
non sapevo più chi ero.
Suor Mary mi aveva
insegnato qualche parola d'italiano: mamma, papà, buongiorno, buon Natale…
Ma io, da quando, due
giorni prima, avevo lasciato l'orfanotrofio, non avevo più parlato.
Forse mi addormentai,
alla fine di quella lunga notte. Quando riaprii gli occhi una stranissima luce
bianca stava schiarendo il buio della stanza. E avvertii anche un silenzio
particolare, come se tutto, intorno, fosse avvolto da bende.
Mi alzai e a piedi nudi
mi diressi alla porta-finestra. Scostai le tende e…
Centinaia, migliaia di
piume bianche stavano scendendo dal cielo. Danzavano davanti ai miei occhi, poi
si posavano sugli alberi e sul vialetto del giardino, e sulle aiuole, e sul
muretto che separava il giardino dalla strada. Tutto era nascosto sotto una
coperta candida, e brillava, quella coperta, come se fosse intessuta di piccole
gemme di cristallo.
E io stavo lì, con il
naso schiacciato contro i vetri, e mi venne in mente la parola miracolo, e
pensai che mai avevo visto una cosa così bella. E
sentii qualcosa, dentro, che si allentava, un peso che usciva e uscendo mi
rendeva leggero, mi faceva ritornare il bambino che ero stato fino a qualche
giorno prima. Aprii la finestra. Fu
allora che sentii l'odore. Un odore nuovo, anche quello, ma che era fresco,
come quello delle lenzuola stese nel cortile dell'orfanotrofio quando c'era
vento. Era un odore buono. Un odore del cuore. Era un buon odore.
Una mano mi si posò sulla
spalla. Una voce dolce mi disse:
“Vieni, piccolo, non prendere freddo. “
Mi girai e,
“ Buon
Natale, mamma”, dissi.
Sono passati trent'anni,
da allora. Un'altra notte Santa, questa
che mi vede serenamente insonne.
Mia moglie dorme
tranquilla accanto a me. Nella stanza accanto nostro
figlio intesse la notte di sogni.
Mancano poche ore
all'alba. E io, come ogni anno, mi ritrovo a pregare che mille piume bianche
scendano dal cielo.