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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La prima neve, di Milvia Comastri 21/12/2008
 

La prima neve

                                                   di Milvia Comastri

 

 

La prima volta che vidi la neve avevo dieci anni.

Era l'alba del 25 dicembre di tanti anni fa, e io ero stato sveglio forse per tutta la notte.  Non mi era mai capitato di starmene da solo in una cameretta, e l'assenza di altri respiri, e la presenza di quegli odori per me sconosciuti, e perfino il buio, che sembrava avere un colore diverso da quello cui ero abituato, mi terrorizzavano. Me ne stavo fermo fermo sotto quella sorta di sacco riempito di piume, mentre le lacrime che avevo trattenuto per giorni e giorni mi rigavano le guance. Ogni tanto la porta si apriva e allora trattenevo il respiro e ricominciavo a respirare solo quando mia madre, dopo essersi chinata su di me e avermi fatto una carezza sui capelli, usciva dalla stanza.

Mia madre. Ma allora non la associavo ancora alla parola madre, quella donna con i capelli rossi apparsa qualche mese prima nella mia vita.  Madre, mama, per me era Ameena. Ma lei, come i miei due fratelli, come la mia sorellina Irat, come babu, mio padre, erano stati spazzati via da un'onda enorme, sei anni prima. E tanti altri, con loro. Di un intero villaggio ci eravamo salvati in tre. E le suore dell'orfanotrofio di Tangalle per sei anni mi avevano chiamato miracolato.

Dello tsunami ricordavo niente. Della famiglia sì, ricordavo gli odori, sembrava mi  fossero rimasti dentro le narici, e da lì si espandessero dentro di me, per confortarmi: l'odore di curry del sari della mamma, e quello di pesce essiccato che impregnava la pelle di mio padre, l'odore di terra che si portavano sempre addosso i miei fratelli quando rientravano dopo i giochi sulla riva del fiume che scorreva dietro la nostra casa. La nostra casa fra le due acque: limacciosa quella del fiume, e con tutte le sfumature dell'azzurro quella dell'oceano.

Ma quella notte, la mia prima notte in Italia, gli odori del cuore erano spariti, sostituiti da altri, che erano acidi, senza nome, paurosi. Erano gli odori delle cose sconosciute, come sconosciuto era l'odore dell'aereo che mi aveva portato fino a lì, e prima ancora l'odore della stanza d'albergo di Colombo dove avevo passato la mia ultima notte in Sri Lanka. La donna con i capelli rossi e l'uomo che era con lei, il marito,  anche loro avevano un odore che non conoscevo. Estraneo a tutto quello che avevo vissuto fino a quel momento.

“Sei un bambino fortunato”, mi aveva detto suor Mary. “Questi signori italiani vogliono che tu vada a vivere con loro. Ti vogliono come figlio, diventerai il loro bambino.

Ma in quella notte, in quella notte che le suore mi avevano insegnato fosse la Notte Santa, io non mi sentivo fortunato.

Mi mancavano i miei compagni, ragazzini senza famiglia come me, mi mancavano le suore che avevano sostituito mia madre nel darmi affetto e rimproveri e che come lei odoravano di curry. Mi mancava l'odore del mia terra. Forse, anche se era un pensiero che data la mia giovane età non riuscivo a concretizzare, non sapevo più chi ero.

Suor Mary mi aveva insegnato qualche parola d'italiano: mamma, papà, buongiorno, buon Natale…

Ma io, da quando, due giorni prima, avevo lasciato l'orfanotrofio, non avevo più parlato.

 

Forse mi addormentai, alla fine di quella lunga notte. Quando riaprii gli occhi una stranissima luce bianca stava schiarendo il buio della stanza. E avvertii anche un silenzio particolare, come se tutto, intorno, fosse avvolto da bende.

Mi alzai e a piedi nudi mi diressi alla porta-finestra. Scostai le tende e…

Centinaia, migliaia di piume bianche stavano scendendo dal cielo. Danzavano davanti ai miei occhi, poi si posavano sugli alberi e sul vialetto del giardino, e sulle aiuole, e sul muretto che separava il giardino dalla strada. Tutto era nascosto sotto una coperta candida, e brillava, quella coperta, come se fosse intessuta di piccole gemme di cristallo.

E io stavo lì, con il naso schiacciato contro i vetri, e mi venne in mente la parola miracolo, e pensai che mai avevo visto una cosa così bella. E sentii qualcosa, dentro, che si allentava, un peso che usciva e uscendo mi rendeva leggero, mi faceva ritornare il bambino che ero stato fino a qualche giorno prima.  Aprii la finestra. Fu allora che sentii l'odore. Un odore nuovo, anche quello, ma che era fresco, come quello delle lenzuola stese nel cortile dell'orfanotrofio quando c'era vento. Era un odore buono. Un odore del cuore. Era un buon odore.

 

Una mano mi si posò sulla spalla.  Una voce dolce mi disse:

 “Vieni, piccolo, non prendere freddo.

Mi girai e,

Buon Natale, mamma”, dissi.

 

Sono passati trent'anni, da allora.  Un'altra notte Santa, questa che mi vede serenamente insonne.

Mia moglie dorme tranquilla accanto a me. Nella stanza accanto nostro figlio intesse la notte di sogni.

Mancano poche ore all'alba. E io, come ogni anno, mi ritrovo a pregare che mille piume bianche scendano dal cielo.

 

 

 
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