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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Angelo dei bambini, di Milvia Comastri 04/02/2009
 

Angelo  dei bambini

di Milvia Comastri

 

 

 

 

Il bambino camminava a piccoli passi trascinando il carrello con la sacca della flebo sulle piastrelle azzurre del corridoio. Con l'altra mano reggeva un sacchetto da cui debordavano profili  colorati di giocattoli di plastica.

Angelo gli aveva sorriso, e si era accucciato davanti a lui.

“Così finalmente è arrivata la tua mamma e ti ha portato anche  dei giocattoli… Sei contento?”

Il piccolo lo aveva guardato serio, gli occhi scuri, grandi, ancora più grandi sotto l'arco inesistente delle sopracciglia, fissi nei suoi, e poi il suo braccino era scattato, e  mentre il sacchetto dei giocattoli sbatteva sulla testa di Angelo, macchinine e palline colorate erano cadute a terra. Repentina la mano della madre si era abbattuta sul viso del figlio.

     

Tornando a casa, quel pomeriggio, Angelo ripensò, ancora pieno di collera, a quello che era accaduto poi.

Si era tirato su in piedi, aveva  abbrancato quella donna per un braccio e l'aveva portata fuori dalla porta che dava sulle scale. Lei si era liberata dalla stretta, poi aveva preso da una tasca dei jeans  un pacchetto cincischiato di MS, freneticamente si era cercata addosso l'accendino, aveva acceso la sigaretta storta con le mani che le tremavano. Poi finalmente l'aveva guardato. Lui intanto si era leggermente calmato; la rabbia non lo travolgeva più, ma aggredì  ugualmente  la donna con un: lei è completamente pazza, signora!

La donna aveva distolto lo sguardo. Pazza, sì, aveva detto, pazza… E' lui che mi fa pazza… Lui non è come l'altro, quello che è rimasto a casa. L'altro, il maggiore,  è bravo, mai un dispiacere, l'altro mi vuole bene… ma questo, questo è cattivo, cattivo figlio, non piange neanche, anche quando gli do uno sberla, niente, mi guarda e basta. Lo ha visto anche lei come guarda. Ha visto come le ha sbattuto quella roba in testa.  Prima non era così, prima era buono, non come l'altro, però prima non mi tradiva… Se ‘sta disgrazia fosse successa all'altro, il cancro, dico, ‘sta maledizione del cazzo, ‘sta malattia di merda, l'altro sarebbe stato buono, ma questo, questo è proprio cattivo…

Angelo si era ritrovato con le mani strette sulle braccia della donna, aveva cominciato a scuoterla forte, e a dirle che non era la malattia, era lei che era una madre del cazzo, era lei che era una madre di merda. L'aveva poi lasciata lì, con la sigaretta fumante caduta a terra, con quel suo abbigliamento da mercato da quattro soldi, con le unghie smangiate fino a mostrare il sangue, con quella sua vita rosicchiata dalla miseria  di un quotidiano senza speranza e piastrellato di nulla.

Quando era rientrato in reparto il bambino era ancora lì, nel mezzo del corridoio, i giocattoli di nuovo nel sacchetto, la peluria del capo nascosta da una bandana colorata che Angelo stesso gli aveva regalato, il liquido della flebo che continuava a sgocciolare  vita  e veleno nella vena sottile.

“La mia mamma?” aveva chiesto. E c'erano amore e paura di perdita nella sua vocina.

“Ora viene” aveva risposto Angelo, cercando di controllare la voce, ancora tremante per l'ira.

 

Accostò l'auto al cordolo del marciapiede di fronte all'entrata del parco. Solo ora, rivivendo quei momenti, lo aggredì la consapevolezza di non aver capito nulla e di essersi comportato come un deficiente. Non aveva visto più in là dell'apparenza, accecato solo dalle parole della donna, ma non l'aveva veramente né ascoltata né guardata. Ora che finalmente la vedeva, che riusciva anche a percepire quel tremito interiore del suo essere, capiva che non era disamore, il sentimento che la madre aveva espresso, ma paura, rabbia, smarrimento davanti all'incomprensibile; lei lo aveva anche detto “prima non mi tradiva”: si sentiva tradita dal figlio perché si era ammalato. Perché quel corpo che lei aveva tenuto nel suo per nove mesi, che poi aveva nutrito e dissetato con il suo seno, che aveva lavato e asciugato, fatto crescere, improvvisamente le si era rivoltato contro, nella impietosa logica della malattia. Ora che Angelo la rivedeva, lo sguardo rivolto alla parete, i capelli spioventi sul viso, la felpa larga a nascondere ogni disegno di femminilità, con quella scritta per lei  senz'altro  senza senso “ I'm Happy”, il ragazzo sentiva in sé la scura disperazione di quella donna. Le guance gli si infiammarono per la vergogna, e capì, con grande lucidità che era stanco, che quel lavoro gli era diventato intollerabile, che era ora di cambiare per non continuare a sbagliare.

 E non era diventato intollerabile solo a causa di quella madre del Sud, giunta lì quando aveva potuto: quando aveva trovato i soldi per il viaggio, e sistemato l'altro figlio, e sistemato  anche il marito (spesa fatta abiti lavati e stirati mutande piegate nel cassetto l'ultima scopata fatta ad occhi stretti con il buio dentro). Arrivata in ospedale solo  quando aveva avuto la conferma di trovare alloggio presso le suore vicino all'oncologico (lei che forse non aveva mai lasciato il paese). E partita soprattutto quando aveva racimolato il coraggio per venire a sostituire la volontaria che aveva assistito il figlio (quel piccolo traditore imperfetto), durante la prima settimana di ricovero.

Non solo per lei. Ma anche per quel giovane padre dirigente d'azienda che usciva frettolosamente dall'ufficio, e puntuale si presentava ogni sera in ospedale, stringeva a sé la moglie esausta, le toglieva dalle braccia il piccolo figlio (sei mesi compiuti a gennaio, e c'era stata festa nel reparto: tutti pensavano proprio che non ce l'avrebbe fatta ad arrivare a gennaio), e lo cullava con dolcezza, e gli soffiava sul viso un respiro lieve, come per infondergli l'essenza vitale, e intanto il bel vestito gli si macchiettava di saliva e piccoli rigurgiti.

 E anche per la famiglia pugliese, padre e madre e figlia adolescente, condannata questa ragazzina, nonostante l'autotrapianto delle cellule staminali, condannata a morte senza possibilità di grazia: le loro mani scure (padre –madre- figlia adolescente condannata) sempre unite,  posate una sull'altra sul bianco del lenzuolo come una preghiera,  e  gli altri figli, e il lavoro, e  il blu del cielo lasciati giù, nel paese sul mare, e i soldi contati e ricontati per farli bastare: non bastano mai, dicevano ad Angelo, quando la figlia non sentiva, anche se l'ospedale non ci costa, ci costa vivere qui, la città è cara, ma noi abbiamo fiducia, i medici sono così bravi, e anche lei, Angelo, è tanto gentile, è tanto bravo.

 

Bravo il cazzo, si disse Angelo, adoperando ancora una volta  quel giorno un gergo che non gli apparteneva, mentre rimetteva rabbiosamente in moto la vettura.

Si staccò dal marciapiede e si immise nel viale che portava verso casa.

 

 

Il fumetto che usciva dalla bocca del gatto diceva Welcome. Angelo pensò  che quello zerbino ero ormai logoro, il gatto era diventato grigiastro, la W era spelacchiata. Già, era ora di cambiarlo.

Sorrise amaro: cinque anni come paramedico all'oncologico, cinque anni in quella città, cinque anni in quella casa. Cinque anni di strofinamento di scarpe su quello zerbino. L'usura del tempo. Anche dentro di lui. Frammenti di morte gli si erano appiccicati addosso. Il reparto dove lavorava era il più duro di tutto l'oncologico, il cancro si mangiava in fretta carni ed anime da poco battezzate. Il pediatrico a volte poteva diventare un incubo. Anche se era ormai vero che, negli ultimi tempi, sempre più frequentemente, accadeva che la vita ritornasse in punta di piedi in una stanza, si stendesse su un lettino, e facesse stare tutti lì, parenti, medici, paramedici,  quasi senza respirare, per il terrore che la vita  si rialzasse e se ne andasse per sempre. Fino a quando la prognosi infausta veniva azzerata.

Ma Angelo era ben consapevole, soprattutto in quel pomeriggio, che una vita perduta lasciava ferite,in lui, che il balsamo di più guarigioni riusciva a lenire solo in parte. E sentiva che la capacità di dare e di fare un lavoro che non fosse solo buono dal punto di vista tecnico, si stava inaridendo. Poteva considerare l'episodio del piccolo paziente di quella mattina  come  l'accendersi di un segnale di pericolo.

Già, era ora di cambiare.

 

 

Mentre era sotto la doccia prese a interrogarsi sul suo futuro. In attesa di una decisione definitiva avrebbe potuto chiedere una sospensione  temporanea dal lavoro, adducendo magari la scusa che le condizioni di salute di sua madre si erano aggravate. Ma senza stipendio, come fare? Avrebbe potuto trovarsi un lavoro provvisorio. Ma quale?  Con la penuria di lavoro che c'era in giro, poi…

 

Infilò nel micro-onde una confezione di lasagne dall'aspetto ben poco invitante. Prese una lattina di birra dal frigo e il rumore che fece la linguetta del coperchio quando la sollevò gli sembrò come una piccola esplosione. C'era troppo silenzio, in quella casa, un silenzio a cui poteva anche attribuire un colore, un bianco sporco, uniforme, come il cielo che sovrastava la città nei lunghissimi mesi invernali.

Di sogni ne aveva avuti, in passato. Diventare medico, partirsene per un qualsiasi paese del terzo mondo,  spandere guarigioni come un contadino d'altri tempi spandeva sementi sul suo campo. Ma la realtà aveva strangolato queste sue velleità eroiche.  Mancanza di soldi,  la madre sempre a piangere e lamentarsi, e poi, forse, pensò mentre si infilava in bocca la prima forchettata di quel cibo senza sapore, forse non ne sarei mai stato capace.  Un conto è sognare, un conto è agire per realizzare un sogno. Mi sono fermato davanti alle difficoltà, ho alzato le braccia in segno di resa davanti al primo ostacolo. Era il coraggio che gli mancava.  Gli venne in mente l'episodio della mattina. Non era stato il coraggio a dettargli quel comportamento, ma solo la frustrazione. Coraggio lo dimostravano ogni giorno i suoi piccoli pazienti, che riuscivano ancora a sorridere e a giocare. Coraggiosi erano i genitori che li assistevano giorno su giorno combattendo una guerra  impari, contro un nemico che a volte si camuffava, sembrava arrendersi, ma poi ritornava più maligno che mai.

Si trovò improvvisamente a piangere. Silenziosamente le lacrime gli riempirono gli occhi e presero a scendere copiose, irrefrenabili. Piangeva per quei bambini, per le loro famiglie. Soprattutto piangeva su se stesso, per come era, per la pochezza della sua vita. 

Scostò il piatto, incrociò le braccia sul tavolo e chinò la testa sulle braccia, come faceva da bambino, quando dopo cena era assalito dal sonno.

 

Lo risvegliò il suono del campanello.

La felpa era la stessa della mattina, con quell'assurda scritta I'm Happy. Per un momento Angelo pensò di stare sognando. Fino a quando lei disse:

“C'hai ragione. Sono una madre del cazzo.”

“Ma come…come ha fatto a arrivare qui?”

“ Mi sono fatta dare l'indirizzo  da Sermilli. Glielo detto che ti dovevo dire una cosa. Lui non voleva, stava a dire che non si fa,  ma poi me lo ha dato. Io ti voglio dire che ho da ringraziarti. Che c'ho pensato tutto il giorno. Che hai fatto bene a urlarmi.  Mi hai fatto capire che è la paura che mi fa fare certe cose. Se non te lo venivo a dire, stanotte non ci dormivo.

Lei continuava a parlare, i piedi ben piantati sulla figura scolorita del gatto, gli occhi scuri fissati nello sguardo di Angelo.

Lui disse “Entra”, ma ancora non capiva. Ancora aveva il sapore delle lacrime, dentro, e quel senso di desolazione che non si era stemperato nel sonno.

La donna entrò, fece pochi passi, poi si coprì il viso con le mani.

Le parole ora le uscivano smozzicate, Angelo riusciva a capirne solo alcune: vergogna, il mio povero figlio, il mio bambino. E ancora: grazie, tu me lo hai fatto capire.

Lui le si avvicinò e le allontanò le mani dal viso. Si accorse in quel momento come lei fosse giovane, sotto quella maschera di dolore.

Disse: Sei tu che devi perdonarmi.  E le fece una carezza su una guancia.

Improvvisamente si sentì più leggero.  Aveva sbagliato, è vero. Ma per una volta un errore aveva dato buoni frutti. Quella madre d'ora in poi si sarebbe comportata in modo diverso, con il suo bambino.

Pensò che questa volta non si sarebbe arreso.  Avrebbe continuato il percorso iniziato cinque anni prima che, sebbene lastricato di dolore, gli permetteva forse di rendere più vivibile la vita di quelle creature sofferenti, e forse anche la sua. D'altra parte non era forse vero che in reparto lo chiamavano, giocando sul suo nome, l'Angelo dei bambini?

 

“Stavo per fare il caffè, “ le disse.” Tu ne vuoi? E…scusa, ma non so il tuo nome. Io mi chiamo Angelo, ma questo già lo sai.

 

 

 

 

 

 
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