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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La prova di Andrea Franco 01/06/2006
 

 

 

 

È per mio figlio.

L'uomo prese Halid per il braccio e lo tirò verso di sé. Sudava copiosamente e stringeva forte gli occhi. Le lacrime scorrevano lungo il suo volto lasciando strisce nere sulle guance sporche. Probabilmente non aveva nemmeno quarant'anni, ma ne dimostrava almeno quindici di più, come ogni coltivatore.

Halid lo fissò negli occhi e annuì senza dire niente. L'uomo chinò la testa e poggiò la fronte sulla sua spalla e prese a singhiozzare.

– È per mio figlio – disse ancora con la voce rotta dal pianto. – Mio figlio. Ha solo sette anni.

– Si faccia coraggio. Oltre la grande porta c'è la salvezza – lo rassicurò Halid. Aveva distolto gli occhi dal volto dell'uomo e fissava avanti a sé, verso l'ingresso del tempio. Erano le undici di mattina e la fila era già molto lunga. Davanti a loro c'erano almeno venti persone. Era una giornata molto calda e l'attesa sarebbe stata massacrante. E con quell'uomo al suo fianco diventava ancora più difficile.

Halid gettò lo sguardo oltre la fila serpeggiante di persone, verso l'ingresso del Tempio della Belva. L'uomo al suo fianco lo aveva finalmente lasciato e adesso stava tirando per un braccio l'uomo di fronte a lui. Continuava a parlare ad alta voce.

Era lì per il figlio. Suo figlio aveva solo sette anni. Il figlio…

Halid lo guardò con compassione. Quell'uomo aveva paura e forse non avrebbe affrontato la prova. Forse era giunto fino al Tempio della Belva per liberare la sua vita dal peso di un figlio malato. Probabilmente era per sé stesso che era giunto al tempio per affrontare prima il Bambino Senza Occhi, poi la Belva. Il dolore del figlio veniva dopo le sue sofferenze, la sua stanchezza, la sua voglia di farla finita, in un modo o in un altro. E non avrebbe superato la prova. Se mai l'avesse affrontata.

Chiunque affrontava la prova per sé stesso, non poteva superarla. Così era scritto. Il Bambino Senza Occhi lo avrebbe ricordato a ognuno di loro. Anche ad Halid, per l'ennesima volta.

– Esce qualcun altro – disse un uomo alle sue spalle. Halid si voltò verso destra, sul lato occidentale del tempio, dove si affacciavano le due porte del destino: la porta più piccola, quella dello Julaz, la via diritta, e la porta più grande, la Katham, il passo della Belva.

L'uomo stava uscendo dalla porta dello Julaz, la porta più piccola. Non aveva affrontato la Belva. Aveva preso coscienza della sua paura, ascoltato il respiro rauco del demone. Ed era andato oltre. La Belva avrebbe letto nel suo cuore. Avrebbe trovato dubbi e incertezze. Forse avrebbe trovato il desiderio di alleggerirsi di un peso, una scintilla di egoismo. E lo avrebbe sbranato. L'uomo aveva avuta salva la vita e tornava a testa china verso casa, un luogo che poteva essere distante centinaia di chilometri. Forse aveva compreso la vera natura del suo dolore e ne avrebbe tratto giovamento. A volte la Belva poteva aiutarti anche senza guardarti negli occhi.

Tutte le persone in fila seguirono la figura curva che si allontanava dal tempio. In tutta la mattinata nessuno aveva affrontato la prova. Tutte le persone che erano entrate nel tempio lo avevano abbandonato attraverso la porta dello Julaz. Erano molti anni che nessuno usciva dalla porta più grande e sempre meno erano le persone che affrontavano la prova. Chi lo aveva fatto, non era sopravvissuto. In molti andavano davanti al Bambino Senza Occhi. In pochi davanti alla Belva.

– Lei ce l'ha un figlio? – L'uomo davanti a lui tornò a tirarlo per un braccio. Halid si liberò con un gesto gentile e scosse la testa.

– Allora è qui per la sua donna? – Halid fece ancora segno di no. L'uomo alzò gli occhi al cielo e sembrò infastidito.

– Allora…

Halid alzò una mano e fece cenno all'uomo di tacere, quindi indicò la fila che si muoveva verso l'ingresso del tempio.

– Si concentri sul suo dolore, uomo – disse alla fine. Lo invitò a fare qualche passo in avanti e l'altro desistette, afflosciando le spalle.

Dopo un'ora arrivarono davanti all'ingresso principale. Era tutto molto semplice e sul marmo bianco che sovrastava l'apertura principale spiccava una sola parola: Haron, la Belva. Halid la fissò distrattamente e si concentrò sull'incontro che da lì a pochi minuti lo aspettava. Il Bambino Senza Occhi avrebbe letto di nuovo nel suo animo. Forse avrebbe fatto le stesse domande dell'ultima volta, e di quella prima ancora. O forse no. A volte era imprevedibile. Halid sorrise all'uomo di fronte a lui nel momento in cui lo vide entrare nel tempio. Stava per affrontare le sue paure. Halid sapeva che quell'uomo non avrebbe trovato il coraggio di affrontare la prova. O perlomeno lo sperava per lui, perché non l'avrebbe di certo superata.

Quando Halid si fermò, con i piedi sulla linea rossa del pavimento che indicava l'ingresso nel regno della Belva, gettò lo sguardo nella penombra che avvolgeva il tutto. Dietro di lui il sole era alto e caldo, quasi impossibile da sopportare. Davanti invece si apriva una stanza buia illuminata tenuemente da poche fiaccole. Il pavimento all'interno del tempio era di un granito rosso scuro, cremisi come il sangue malvagio. Gli  incensi che bruciavano diffondevano un odore quasi fastidioso che insieme al silenzio ovattato e alla penombra conferiva un'aria quasi magica all'insieme.

Appena oltre la soglia del tempio due sacerdoti attendevano in silenzio, col volto rivolto verso i pellegrini in fila sotto il sole. Alcuni raggi filtravano attraverso i tendaggi scuri e disegnavano strisce incandescenti sui loro corpi. Halid attendeva con pazienza il suo turno. Seguì ancora una volta il passo incerto dell'uomo che lo precedeva e lo vide sparire oltre il varco che conduceva alla stanza del Puro, una piccola apertura in fondo al grande locale principale.

Quando dalla stanza del Bambino Senza Occhi giunse il suono di una campanella i due sacerdoti si mossero quasi all'unisono e allungarono le braccia verso Halid.

– È giunto il momento – disse uno di loro. Senza dire nulla Halid fece un passo in avanti ed entrò nel tempio della Belva. I due sacerdoti cosparsero il suo corpo con degli olî profumati, quindi indicarono anche a lui il varco in fondo alla sala. Halid la fissò per un istante senza muovere un passo. Le lame di luce che penetravano dai tendaggi sembravano tagliare in due la sala. I pochi passi che lo separavano dal Puro sembravano ogni volta i più difficili. Dopo, tutto era più semplice.

Halid avanzò con passi lenti e misurati. Voleva sembrare sereno, ma sapeva che l'incontro con il Puro lo avrebbe scosso, più del ruggito della Belva. Contò i passi fino alla piccola apertura e quando si fermò davanti alla soglia quasi dovette trattenere un sorriso.

Dodici passi. Uno in più dell'ultima volta. Era più contratto e il nervosismo che sentiva crescere dentro di sé lo tratteneva più di quanto avrebbe voluto. Il Puro lo avrebbe giudicato ancora una volta. Halid sperò che potesse capire.

Il varco era coperto da un velo leggero. Halid lo scostò ed entrò nella piccola sala bianca. Si fermò un passo oltre la soglia, lo sguardo basso in segno di reverenza.

– Vieni pure avanti, Halid – disse una voce angelica, quasi femminile.

Halid alzò la testa e puntò gli occhi sul volto del Puro, il Bambino Senza Occhi. Colui che può vedere. E capire. L'uomo avanzò di pochi passi e si fermò a un metro dal trono eburneo. La stanza era completamente vuota e il trono era proprio nel mezzo di essa. Il Bambino Senza Occhi stava seduto immobile, il volto liscio e sereno sembrava quello di una statua di marmo. Le cavità vuote degli occhi erano due pozzi neri, colmi del dolore degli uomini, delle loro incertezze, delle loro nefandezze.

– Bentornato uomo.

– È un onore per me, Altissimo.

Halid si inginocchiò e con le mani carezzò i piedi del fanciullo. L'uomo distolse gli occhi dal volto del Puro e rimase con la testa china, in attesa.

– Lo sai che posso leggere nel tuo cuore – disse il Puro.

– Non mi aspetto nulla di meno.

– Il ruggito della Belva può rasserenare il tuo spirito?

– Io sono umile schiavo dell'Altissimo e della Belva.

– Lo sai che solo un animo puro può superare la prova? – La voce del fanciullo era melodiosa e rilassante, ma Halid si sentiva denudato da quelle semplici parole.

– Alla Belva non piacciono le falsità. Solo chi non viene per sé può uscire vivo dalla Katham, la grande porta della salvezza – aggiunse il Puro.

– Lo so, mio signore.

– Seguirai lo stesso il percorso?

– Voglio sentire il ruggito della Belva.

– La belva aiuta anche chi non affronta la prova – spiegò il fanciullo.

– È così, Altissimo. Forse troverò la forza di affrontare la prova.

– Io ti leggo nel profondo Halid. Io conosco il tuo tormento.

– Lei non c'è più, mio signore – mormorò l'uomo.

– Credi che sia stato tutto vano?

Halid scosse la testa. – Ho avuto più tempo di quello che speravo. Nulla è stato vano.

– Ma cerchi ancora una risposta dentro di te.

– Cerco solo un po' di serenità.

– La belva sentirà il tuo dolore. Ma troverà qualcos'altro.

– Prima o poi dovrà finire – disse Halid, sempre con la testa china, gli occhi umidi.

– Lei non avrebbe voluto – sentenziò il Bambino Senza Occhi.

– Forse no. – Ammise l'uomo. – Ora preferirei andare.

– E sia – concesse il Puro. – La Belva ti attende.

Halid si alzò e senza guardare il volto del fanciullo passò al fianco del trono. A pochi metri c'era un altro varco. Halid scostò la tenda e passò oltre. In quel punto iniziava il percorso della Belva.

– Eccomi – mormorò appena dentro. Il corridoio che si distendeva davanti a lui era buio e silenzioso. Si percepiva solo il rauco respiro del demone. Halid avanzò con passi lenti. Il corridoio curvava leggermente a sinistra e girava tutto intorno a una stanza circolare. Ogni dieci metri, sulla sinistra, si apriva un piccolo varco coperto da tende cremisi: gli ingressi che conducevano nel regno della Belva.

Quando Halid arrivò davanti al primo varco si fermò e chiuse gli occhi. Il respiro della Belva sembrava più forte.

– Sono di nuovo qui – mormorò Halid a denti stretti. Il demone sapeva che lui era lì, così come intuiva il passaggio di tutti gli altri. Viveva delle loro paure e delle loro incertezze. Era a un passo oltre la tenda. Halid avrebbe potuto allungare una mano e sfiorarlo, ma non si mosse. Riaprì gli occhi e riprese a camminare.

Seguì la curva del corridoio sfiorando con la spalla destra il muro opposto agli ingressi. A ogni passo le gambe diventavano più pesanti e si sentiva sempre meno lucido.

Quando arrivò al secondo varco si fermò di nuovo. Ancora il respiro della Belva era più forte del battito del suo cuore. Halid vide la tenda muoversi. La Belva era a un passo, proprio di fronte a lui. Poteva decidersi una volta per tutte e…

Mosse un passo in avanti e si lasciò il secondo varco alle spalle. Nonostante lì dentro l'aria fosse fresca, stava sudando. Sentiva la tunica incollata sulla schiena e rivoli di sudore colavano dalla fronte lungo il suo viso.

Il terzo varco era l'ultimo. Superarlo significava lasciare il tempio dalla Julaz, la piccola porta. La porta della vita e della non speranza.

Oppure poteva affrontare la prova. Oltrepassare il terzo varco e trovarsi a faccia a faccia con il destino, come tanti anni prima. Ma allora era giovane e credeva in qualche cosa di più grande di sé stesso. Il demone avrebbe ricordato? Lui poteva trovare quella stessa forza, o stava cercando solo una via più semplice?

Entrare nel regno della Belva significava andare incontro alla morte e al fallimento. Questo Halid non voleva concederselo. Strinse forte i denti e avanzò a passo deciso. Si fermò davanti all'ultima tenda cremisi e rimase immobile.

– Non posso farlo – disse. Dall'altro lato rispose solo un grugnito e il rauco respirare della Belva. Quindi Halid si voltò e corse verso l'uscita, verso la piccola Julaz. Alle sue spalle il respiro del demone sembrava già più debole e incredibilmente lontano.

Nella sua testa si riaffacciarono le parole che aveva scambiato con il Puro pochi anni prima.

– Perché ritorni, Halid? – la voce dell'Altissimo era sempre morbida e armoniosa.

– Per non dimenticare mai – aveva risposto l'uomo.

– In questo luogo vengono persone che cercano una risposta, che credono in qualche cosa. Oppure che hanno semplicemente una speranza.

– Lo so, Altissimo.

– Qual è la speranza che ti conduce ogni anno in questo luogo di sofferenze? – aveva chiesto il Bambino Senza Occhi, eterno e saggio.

– Ma tu…

– Io lo leggo dentro di te, ma tu hai mai provato a dare voce ai tuoi tormenti?

Halid aveva alzato la testa e per qualche secondo aveva fissato il volto del Puro, le cavità degli occhi nere come la notte.

– Vengo qui con la speranza di non dover mai più affrontare la prova.

– È una buona speranza, Halid.

 

 
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