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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Muccapazza, di Massimo Maugeri 14/05/2009
 

 

MUCCAPAZZA

di Massimo Maugeri

 

 

Siamo teatranti in festa con la morte nel cuore, ha detto muccapazza non molto tempo fa. Penso spesso a quella frase. Ha percorso i cunicoli grigi dei miei sentimenti aggrovigliati, si è insinuata tra gli anfratti confusi dei sensi di colpa, per poi ergersi dal cumulo di banalità del pensiero dilagante.

Muccapazza non c'è. Non la trovo.

Quella frase continua a rimuginarmi nel cervello.

 

Non avrei mai creduto di poter rimanere coinvolto fino a tal punto, impegolato in questa sorta di melassa informatica. Sarei stato capace di scommettere tutto quello che ho. Sono esente da queste stronzate, avrei detto. Io? Vogliamo scherzare? Sono una persona seria, io. Integerrima. Ho un mucchio di cose da fare. Scadenze che mi perseguitano, un inferno di toghe da gestire, destini da decidere in fretta sotto l'alea di una giustizia teorica. Ho caffè da ingurgitare uno dietro l'altro, collaboratori di cui non ci si può fidare, sigarette da respirare finché cancro non ci separi, discorsi da sentire senza ascoltare, incontri meno eludibili delle tasse. E ho ancora carte da studiare, libri, codici e manuali da compulsare e fiumane di sentenze, leggi e decreti che mi sommergono aggrovigliandosi in spinosi circuiti contraddittori.

E ho l'amara, recondita percezione del tempo che passa.

Dov'è muccapazza?

 

Non ci avrei mai creduto, ma non posso nemmeno dire di essere sorpreso dallo squallore nudo del mio agire.

Non mi lamento, no; sopravvivo a me stesso nascondendomi dietro il bagliore diafano di questo computer portatile. E non è vergogna quella che provo. Solo una vaga sensazione di miseria interiore cristallizzata nel profondo. Rinnego me stesso, sì; vorrei volgere le spalle allo scorrere quotidiano di queste giornate vacue, ma so di non averne la forza.

Chi mi conosce avrebbe difficoltà a individuarmi tra i meandri oscuri di questa sordida pantomima. Lui ha tutto, direbbero. Tutto ciò che si può desiderare.

Ho tutto, certo: un rivoltante lavoro di successo, una buona ed effimera salute, una splendida famiglia angosciante.

Una vita felice.

Dov'è muccapazza?

 

Conobbi mia moglie nell'estate del Settanta. Tutt'altra donna da questa bisbetica cialtrona. O forse erano i miei occhi che guardavano, allora, con il filtro ingannevole dell'ingenuità giovanile, con la generosa percezione di chi è a credito nei confronti della ruota perenne. Non v'è dubbio che mia moglie, a vent'anni, offrisse ben altri scenari alle mie fantasie di ragazzo, diverse strade percorribili, promettenti situazioni futuribili. Un visino lungo, ma grazioso, adornato da due soavi mezzelune che sfioravano gli angoli della bocca; quelle stesse mezzelune che sarebbero diventate, negli anni, profondi solchi di freschezza avvizzita. Aveva le spalle dritte, mia moglie, capelli freschi da farsi scivolare tra le dita e l'eloquenza vivace di una mente fervida non inacidita dalle delusioni degli anni. M'innamorai di quelle soavi mezzelune, della postura eretta, della chioma fluente, della ricca eloquenza. Almeno, pensai di essermi innamorato. Non saprei dire, oggi, se fu vero amore o solo il guizzo fugace di un incauto impulso.

Eppure festeggiamo ancora le ricorrenze. Ci siamo convinti che amiamo farlo, che è ciò che vogliamo. Ci sono momenti in cui me ne convinco anch'io, ma passano rapidi come l'incedere sfuggente di una fortuna sfiorata.

Non siamo altro che teatranti in festa con la morte nel cuore; pronti a celare le nostre angosce dietro sorrisi tirati e a coinvolgere il mondo sbandierando la natura giuliva delle nostre coscienze, abborracciando congratulazioni a iosa, ammannendo cene pantagrueliche per ogni evento possibile. Sì, è questo che siamo: teatranti in festa con la morte nel cuore.

 

Muccapazza non c'è.

Vedo gli altri: superdotato, lanimalo_61, sperman, ninfea28, tettonica, gnoccanet. Ci sono tutti, tranne muccapazza. Ce n'è anche di nuovi: yety, proboscide, maggiora. C'è pure un tale che si differenzia dagli altri, che sorprende per la generosa originalità del suo nomignolo: bentrovato a te, piero. No, non ho alcuna voglia di avviare una conversazione riservata!

 

Ho una figlia, insipida come l'aria di questa metropoli, che annaspa tra gli stagni lerci del mondo scambiando consigli per rabbuffi e filtrando ogni cosa attraverso una ridicola, donchisciottesca visione della verità. Amo mia figlia più di me stesso, mi dico, e non mi condizionano la sua natura sciatta, le sue fattezze sgraziate, il suo disperato bisogno di altro. Ha ereditato il peggio di me e di sua madre, lo so, come mia moglie e io - del resto - abbiamo preso il peggio dei nostri antenati. È una maledizione insita nella nostra stirpe, che nemmeno i più disperati interventi di eugenetica potrebbero sradicare. Ma non è questo che m'inquieta, quanto piuttosto l'insopportabile latrare della madre, il suo indice puntato sulla mia inadeguatezza di uomo, di marito, di padre.

Mia moglie mi parla, mi urla, mi sommerge di frasi caustiche nel diuturno tentativo di inchiodarmi alle mie responsabilità, gesticola, accompagna il tutto con il tono mordace della sua mezza età, mi accusa, si passa le mani tra i capelli crespi, non più fluenti, mi scaraventa i suoi pensieri irrisolti, le sue teorie caracollanti, s'inasprisce al muro della mia indifferenza, al deliquio delle mie capacità reattive.

Ho lasciato che tutto scivolasse via.

Ho abbandonato le vesti del teatrante in festa per aprire il passo alla schizofrenia latente, e ora rifletto le mie frustrazioni sullo schermo di questo portatile obsoleto.

Al chiuso del mio studio, lontano dalle mura domestiche, ho affidato una vita parallela agli impulsi elettronici di un modem, e i pensieri sono passati sfuggenti tra queste dita brancicanti per fissarsi nei caratteri provvisori partoriti dai pulsanti unti di questa tastiera.

 

Muccapazza è stata l'ancora di salvataggio, il faro nella notte tetra, la palingenesi del mio io derelitto, l'antidoto al veleno dell'esistenza. Ho atteso con ansia quegli incontri virtuali. Ho pensato a lei ogniqualvolta mi apprestavo ad abbandonarmi alla nequizia incerta del sonno, e ho abbracciato le leggiadre eteree fattezze di donna dei desideri offertemi dalle mie visioni ipnagogiche. L'ho percepita nelle mie ore vuote, soave immagine eidetica. E adesso, tutto ciò che mi resta, è questo nulla ferale; e l'angoscia insostenibile che attraversa la mia natura agonica traviata da questi moderni ircocervi.

 

Il primo incontro fu frutto del caso. Navigavo alla ricerca di siti specializzati sulle novità giurisprudenziali. D'improvviso un'icona lampeggiante attirò tutta l'attenzione cui la mia mente obnubilata era in grado di offrire. Cliccai, aprii le orecchie a quella sorta di canto delle sirene telematico e approdai a quell'isola di nulla che unisce le solitudini. Tra voci multiple, parole vorticanti, nomignoli assurdi, mi lasciai trascinare nella confusione solipsistica di quella comunità. Finii per assecondare il sistema ricorrendo a un epiteto dozzinale capace di imporsi all'altrui attenzione.

Fu muccapazza che venne a me.

Fu lei che cominciò.

Di sera in sera, nel buio rischiarato dalla luce crepuscolare di quegli incontri virtuali, muccapazza e io ci univamo in emozioni inattese che dalle parole scritte rimbalzavano sui nostri sensi accesi. Non chiesi mai il suo numero di telefono. Non volli mai passare a forme alternative di conversazione. Né desiderai incontrarla, per il timore che quell'eccitamento magico rubato alla fisicità dei rapporti ordinari potesse svalutarsi di fronte a una corporeità che avrebbe potuto renderci estranei. Così mi accontentai di quel poco di lei che bastava ad avviare le mie pulsioni onanistiche.

 

È stato ieri che mia moglie mi ha lacerato nell'intimo rivelandomi i disastri morali dei quali nostra figlia, la nostra unica figlia, si era rivestita. All'enunciazione di quelle che furono presentate come novità agghiaccianti, fui pervaso da un terrore cieco e da un'indecisione ansiosa che lì per lì non seppi come gestire.

Era capitato che, per una sorta di bizzarro impulso autolesionista, mia figlia si fosse confidata con la cugina, figlia della sorella di mia moglie, la quale con la duplicità di un doppiogiochista di professione, aveva provveduto a raccontare tutto ai genitori. La mattina successiva mia moglie aveva appreso che nostra figlia soleva comunicare via Internet di cose di sesso con l'inverecondia di una donnaccia di strada. Quelle abitudini insane, peraltro, perduravano da mesi e pareva che la ragazza accompagnasse non di rado le oscene comunicazioni dattiloscritte con atti impudichi assai difficili da descrivere per una persona a modo. La reazione di mia moglie fu brutale. Fece a pezzi l'apparecchiatura casalinga che consentiva la connessione veloce alla rete e intimò a mia figlia di trascorrere la serata chiusa in stanza a dedicarsi ai doveri scolastici, ché quello sarebbe stato il suo unico impegno nelle settimane, anzi nei mesi, di più, negli anni a venire, visto che non avrebbe giammai rimesso il naso fuori di casa. Fui quasi sorpreso dal sottile illogico paradosso insito nella scelta di quella punizione carceraria, giacché proprio all'interno delle mura domestiche la ragazza si era macchiata delle colpe contestatele.

Mia moglie non mancò di rinfacciarmi, con l'abituale spietata animosità acquisita in anni di litigi efferati, la mia presenza evanescente nel ruolo di padre. Considerò che il mio atteggiamento evasivo nei confronti della ragazza, che di certo aveva avuto un ruolo predominante per lo sviluppo di quelle vergognose confusioni adolescenziali, non poteva più esser giustificato dall'alibi incerto di un lavoro impegnativo cui dover render conto.

 

Fu in quel momento che il tarlo del dubbio cominciò a rodermi.

Quante possibilità c'erano che oltre le parole sensuali di muccapazza, dietro quelle espressioni di eccitante impudicizia che giungevano sino alla superficie del mio schermo, potesse celarsi il sangue del mio sangue?

Avrei parlato con mia figlia, sì! Mia moglie me l'imponeva come dovere inevitabile di padre. E l'avrei fatto. Sì, le avrei parlato. L'avrei ammonita con sferzante severità. Ma poi? Se davvero fosse lei muccapazza?

Non saprei dire se le mie perplessità, la mia angoscia, fossero determinate in via principale dall'idea di aver potuto dare origine a un incesto telematico o se, invece, fossero solo frutto del consapevole rischio di dover rinunciare a muccapazza per sempre.

 

Così, mentre mia figlia è relegata all'isolamento dalla rete nei confini della sua stanza, io sono qui, rintanato nel mio studio, assoggettato agli impulsi elettronici di queste anime confuse, a sprofondare nelle acque torbide dell'inquietudine.

E attendo.

Vieni muccapazza, vieni. Dimostrami con il tuo arrivo che non discendi dalle mie ossa. Offri a questi nervi logori il prezioso dono del sollievo. Da' futuro a questo disperato bisogno d'incontrarti.

In fin dei conti non m'importa di null'altro. Lo sai anche tu. Non è così difficile. Potremo continuare a svolgere i nostri compiti con l'affabilità di sempre, a braccia aperte, con le coscienze intatte, il sorriso disegnato, le battute a mente.

Da bravi attori.

Perché è questo che siamo, in fondo: teatranti in festa con la morte nel cuore.

 

Da Tellusfolio (www.tellusfolio.it)

 

 

 
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