La fatica
di odiare
di Milvia Comastri
La gente non guarda mai
la mia faccia. Chi mi incontra per la prima volta abbassa subito gli occhi, e
poi si mette a fissarmi un ginocchio, o una spalla, quasi ci fosse appollaiato,
sulla spalla, un pappagallo pronto a raccontare cosa mi è successo. Neppure mia
madre mi guarda. Mentre mi stringe una mano, o mi accarezza la testa, tiene gli
occhi socchiusi, come se una luce forte le ferisse gli occhi.
Io sì. Io mi guardo. Mi
fermo davanti allo specchio e lascio che i miei occhi escludano tutto,
dell'immagine riflessa, all'infuori del viso. Vocabolo improprio, viso. Un
insieme di ossa spezzate e di pelle, di piccoli muscoli recisi, di
avvallamenti, di oblique linee frastagliate. Io la guardo, questa cosa che
sembra scaturita dalle mani di un bambino incapace cui abbiano dato una palla
di plastilina per farci un volto.
Io li guardo, i miei
occhi: il sinistro semichiuso e abbassato rispetto al suo compagno. Io la
guardo la mia bocca-scarabocchio. Io mi guardo in faccia, ogni giorno, a lungo.
E' così che nutro il mio
odio, che lo allatto, che lo faccio crescere forte e senza debolezze.
E' così che mi alleno a
odiarti, ogni istante di più.
Era una bella giornata di
primavera, gli uccellini cinguettavano in allegria, i fiori mostravano tutto il
loro rinnovato splendore
e una brezza leggera
faceva dondolare le foglie degli alberi: uno scrittore senza troppo talento
descriverebbe così il giorno del loro primo incontro. In
effetti la descrizione corrisponde alla realtà. Era un banale giorno di
primavera, quando si conobbero. Anche la causa dell'incontro fu banale:
un'informazione stradale. Lui che chiede a lei: scusa, mi sai dire dov'è via
Tasso?
Come poi si fossero
trovati subito dopo seduti su una panchina del parco della villa comunale, e poi
a prendere un caffé in un bar della piazza, e due
sere dopo a bere una birra nel pub di via Garibaldi, e infine, la settimana
successiva, a letto insieme nel monolocale che lei aveva preso in affitto da un
mese, è del
tutto irrilevante spiegarlo.
La primavera si stava
ritirando per far posto all'estate, i giardini esplodevano in colori e profumi
accesi e parallelamente esplodeva la loro
passione. Niente, per lei, era stato così, prima di lui. Prima di lui, per
esempio, non si era neppure quasi accorta di avere un corpo. Ora, invece, ne avvertiva tutte le esigenze.
Che poi era una sola, era una sola esigenza. Avere lui dentro di lei, la sua
bocca ovunque e le sue dita che ovunque si insinuavano. Un pianoforte: ecco, cosa
era diventato il suo corpo. E lui il pianista, che spingeva i tasti, ora
dolcemente, ora con furia, per trarne una musica mai ascoltata.
Niente era stato così,
prima, per lei. Anche parlare con lui, raccontare di sé, era qualcosa di nuovo.
E anche stare in silenzio, lo era. Un silenzio che rilasciava calore.
No, non lo conoscevo, ho
risposto al poliziotto. Avrei potuto
dare nome cognome indirizzo altezza colore degli occhi
dei capelli. Ma non l'ho fatto. Mi sono inventata un aggressore sconosciuto,
tutto diverso da te, biondo, occhi azzurri, tatuaggio di uno scorpione sul
braccio destro. Perché l'ho fatto?
Perché volevo che solo le sbarre del mio odio ti racchiudessero. Perché non
volevo che tu, con l'ausilio di qualche legge schifosa, te la cavassi con una
condanna lieve. E perché ho pensato che la morte, che il dolore, ti avrebbero
potuto raggiungere più facilmente, fuori. Il carcere è molto meno duro e meno
pericoloso della vita all'esterno, ho pensato.
A nessuno l'ho detto, che
sei stato tu. A nessuno ho detto che è a causa tua se la gente non mi guarda in
faccia. Non lo conosce nessuno il nome di chi mi ha spappolato l'utero. Non c'è nessuno che sa chi è l'oggetto del
mio odio. D'altra parte di te non avevo
parlato neppure
con mia madre. Rimandavo ogni giorno; mi dicevo: questa sera le telefono e
glielo dico che ho incontrato l'amore. Poi il tempo passava e non dicevo nulla,
per pudore, credo. Di amiche non ne avevo: città nuova, nuovo lavoro. Solo tu.
La prima volta era stata
come una specie di scherzo. Una divergenza di opinioni su un argomento futile, e lui che le
dice: sei proprio una testa dura, ora te lo dimostro. E il suo pugno (non
troppo forte, ma neppure lieve) che arriva lì, proprio al centro della
testa. Non le chiede scusa. Quando vede
le lacrime che le scendono sul viso dice: ma non fare la stupida. E poi l'
abbraccia.
La seconda volta era
arrivato uno schiaffo. Lei insisteva su non si sa cosa, per andare da qualche
parte, forse, e lui non aveva proprio voglia di andarci in quel posto che lei
proponeva con tanto entusiasmo, ma lei aveva continuato a insistere, a
insistere. Dopo, si erano ritrovati a fare all'amore in fondo a un vicolo
deserto, in piedi contro un muro sbrecciato di una casa abbandonata e a lei era
sembrato di impazzire per il piacere che lui le stava dando.
Poi altre volte. Inezie:
pizzicotti sulle braccia, un altro schiaffo, due, tre. E mai una scusa.
Perché lo hai fatto? Era
capitato, in precedenza, che tu… ti fossi lasciato andare: la mia conclusione era sempre stata
che fosse colpa mia, perché ti avevo infastidito con una certa parola, con un
certo atteggiamento. E poi il dolore passava subito, sostituito da…oh, lo sai molto bene
cosa era che portava via il dolore.
Indagando su di te, con
discrezione, ho sentito voci: infanzia desolata, padre assente…
Le solite cose che paiono
giustificare tutto. E non giustificano
niente. Sinceramente non mi importa poi tanto sapere perché lo hai fatto.
L'autunno si era già
sistemato a bordo campo, fremente di mettersi in gioco, mentre l'estate si
trascinava nella
sua ultima partita di stagione. Lei era felice. Lo aveva appena saputo:
aspettava un bambino. Decise lei dove
incontrarsi. Gli disse che doveva dirgli una cosa importante, che aveva un dono
da fargli.
Si sedettero sulla stessa
panchina dove si erano seduti il giorno del loro incontro. Era già buio, il
parco era deserto.
Lui si alzò in piedi di scatto e disse:
che cazzo hai combinato, non voglio nessun figlio, le disse. Lui disse: devi
abortire. Lui urlò: non voglio nessun cazzo di figlio hai capito. Lei si alzò in piedi
lentamente, gli mise una mano sul petto, disse: ma cosa stai dicendo, noi ci
amiamo, disse lei, io ti amo, il nostro bambino, noi due, e piangeva, mentre
diceva queste frasi smozzicate, e un buco cominciò ad allargarsi nel suo cuore.
Poi disse: va bene, sarà solo mio questo bambino. E fece per girarsi e
andarsene. Lui disse: allora non hai capito io non voglio un figlio mio nel
mondo. Al primo calcio lei scivolò a terra. Cercò di coprirsi la pancia con le
mani, pur sapendo che non sarebbe servito a proteggere il bambino. Lui
continuò, il piede che scattava sempre più veloce, tac tac tac, sulla pancia, poi
più su, sul petto, fino ad arrivare al viso. Colpisci colpisci colpisci. Lei non sentiva più nulla, ma il buco nel
cuore aveva cominciato a riempirsi. Di odio.
La trovarono due ragazzi
che rientravano da una festa. Mentre uno
dei due telefonava per un'autoambulanza, l'altro vomitò anche l'anima.
L'ho saputo per caso, del
tuo incidente. E' per questo che adesso sono qui. Sai, quando me lo hanno detto
mi sono sentita felice, dopo tanto tempo. Ho chiesto impaziente: ma vivrà? Sì,
vivrà, ma gli hanno amputato le gambe, e poi è tutto una bruciatura. E' stato un incidente di macchina
spaventoso. Povero ragazzo, mi hanno risposto. Era la risposta che
volevo, sai? Ma lei lo conosceva? hanno aggiunto. No, ho detto, forse solo di vista.
Sono venuta qui, in questo ospedale dove sei inchiodato da due mesi,
all'infermiera ho detto di essere una tua vecchia amica, ho finto anche una lacrima,
sai? Sono entrata nella stanza, ho
accostato la sedia al tuo letto, e ho cominciato a guardarti. Il tuo volto è
bendato, dal bianco della garza emergono solo le tue palpebre abbassate. Ti
tengono ancora sedato, coma farmacologico, mi sembra lo chiamino. Ho sollevato il lenzuolo: le tue gambe non ci
sono più, non ci sono più i
tuoi maledetti piedi.
Chissà dove li hanno messi. In pasto ai cani, mi viene da pensare. E penso anche che non è
vero che la vendetta ha un sapore amaro. Ha un gusto dolcissimo,
inebriante, invece. Ora posso smettere
di odiarti, finalmente. Mi ha consumata
odiarti, ma è
stata la mia missione. Faticosissima,
logorante missione. Compiuta con successo, non trovi? E ora continua a vivere, se ne sei capace.
Ripone la sedia ai piedi
del letto. Ancora uno sguardo. Poi esce
dalla stanza. Povero amico mio, dice simulando sofferenza all'infermiera che
incrocia nel corridoio. L'infermiera le fissa un ginocchio e scuote la testa,
comprensiva. Mentre scende le scale Anita sente il buco nel cuore che si
svuota, piano, e poi lentamente si richiude, fino a sparire.
Fuori è una bella
giornata di primavera, gli uccellini cinguettano in allegria, i fiori mostrano
tutto il loro rinnovato splendore e una
brezza leggera fa dondolare le foglie degli alberi