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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La fatica di odiare, di Milvia Comastri 26/07/2009
 

La fatica di odiare

di Milvia Comastri

 

 

La gente non guarda mai la mia faccia. Chi mi incontra per la prima volta abbassa subito gli occhi, e poi si mette a fissarmi un ginocchio, o una spalla, quasi ci fosse appollaiato, sulla spalla, un pappagallo pronto a raccontare cosa mi è successo. Neppure mia madre mi guarda. Mentre mi stringe una mano, o mi accarezza la testa, tiene gli occhi socchiusi, come se una luce forte le ferisse gli occhi.

Io sì. Io mi guardo. Mi fermo davanti allo specchio e lascio che i miei occhi escludano tutto, dell'immagine riflessa, all'infuori del viso. Vocabolo improprio, viso. Un insieme di ossa spezzate e di pelle, di piccoli muscoli recisi, di avvallamenti, di oblique linee frastagliate. Io la guardo, questa cosa che sembra scaturita dalle mani di un bambino incapace cui abbiano dato una palla di plastilina per farci un volto.

Io li guardo, i miei occhi: il sinistro semichiuso e abbassato rispetto al suo compagno. Io la guardo la mia bocca-scarabocchio. Io mi guardo in faccia, ogni giorno, a lungo.

E' così che nutro il mio odio, che lo allatto, che lo faccio crescere forte e senza debolezze.

E' così che mi alleno a odiarti, ogni istante di più.

 

Era una bella giornata di primavera, gli uccellini cinguettavano in allegria, i fiori mostravano tutto il loro rinnovato splendore  e una  brezza leggera faceva dondolare le foglie degli alberi: uno scrittore senza troppo talento descriverebbe così il giorno del loro primo incontro. In effetti la descrizione corrisponde alla realtà. Era un banale giorno di primavera, quando si conobbero. Anche la causa dell'incontro fu banale: un'informazione stradale. Lui che chiede a lei: scusa, mi sai dire dov'è via Tasso?

Come poi si fossero trovati subito dopo seduti su una panchina del parco della villa comunale, e poi a prendere un caffé in un bar della piazza, e due sere dopo a bere una birra nel pub di via Garibaldi, e infine, la settimana successiva, a letto insieme nel monolocale che lei aveva preso in affitto da un mese,  è del tutto irrilevante spiegarlo.

La primavera si stava ritirando per far posto all'estate, i giardini esplodevano in colori e profumi

accesi e parallelamente esplodeva la loro passione. Niente, per lei, era stato così, prima di lui. Prima di lui, per esempio, non si era neppure quasi accorta di avere un corpo.  Ora, invece, ne avvertiva tutte le esigenze. Che poi era una sola, era una sola esigenza. Avere lui dentro di lei, la sua bocca ovunque e le sue dita che ovunque si  insinuavano. Un pianoforte: ecco, cosa era diventato il suo corpo. E lui il pianista, che spingeva i tasti, ora dolcemente, ora con furia, per trarne una musica mai ascoltata.

Niente era stato così, prima, per lei. Anche parlare con lui, raccontare di sé, era qualcosa di nuovo. E anche stare in silenzio, lo era. Un silenzio che rilasciava calore.

 

 

 

 

No, non lo conoscevo, ho risposto al poliziotto.  Avrei potuto dare nome cognome indirizzo altezza colore degli occhi dei capelli. Ma non l'ho fatto. Mi sono inventata un aggressore sconosciuto, tutto diverso da te, biondo, occhi azzurri, tatuaggio di uno scorpione sul braccio destro.  Perché l'ho fatto? Perché volevo che solo le sbarre del mio odio ti racchiudessero. Perché non volevo che tu, con l'ausilio di qualche legge schifosa, te la cavassi con una condanna lieve. E perché ho pensato che la morte, che il dolore, ti avrebbero potuto raggiungere più facilmente, fuori. Il carcere è molto meno duro e meno pericoloso della vita all'esterno, ho pensato.

A nessuno l'ho detto, che sei stato tu. A nessuno ho detto che è a causa tua se la gente non mi guarda in faccia. Non lo conosce nessuno il nome di chi mi ha spappolato l'utero.  Non c'è nessuno che sa chi è l'oggetto del mio odio.  D'altra parte di te non avevo parlato  neppure con mia madre. Rimandavo ogni giorno; mi dicevo: questa sera le telefono e glielo dico che ho incontrato l'amore. Poi il tempo passava e non dicevo nulla, per pudore, credo. Di amiche non ne avevo: città nuova, nuovo lavoro. Solo tu.

 

 

La prima volta era stata come una specie di scherzo. Una divergenza di opinioni  su un argomento futile, e lui che le dice: sei proprio una testa dura, ora te lo dimostro. E il suo pugno (non troppo forte, ma neppure lieve) che arriva lì, proprio al centro della testa.  Non le chiede scusa. Quando vede le lacrime che le scendono sul viso dice: ma non fare la stupida. E poi l' abbraccia.

La seconda volta era arrivato uno schiaffo. Lei insisteva su non si sa cosa, per andare da qualche parte, forse, e lui non aveva proprio voglia di andarci in quel posto che lei proponeva con tanto entusiasmo, ma lei aveva continuato a insistere, a insistere. Dopo, si erano ritrovati a fare all'amore in fondo a un vicolo deserto, in piedi contro un muro sbrecciato di una casa abbandonata e a lei era sembrato di impazzire per il piacere che lui le stava dando.

Poi altre volte. Inezie: pizzicotti sulle braccia, un altro schiaffo, due, tre. E mai una scusa.

 

 

Perché lo hai fatto? Era capitato, in precedenza, che tu… ti fossi lasciato andare:  la mia conclusione era sempre stata che fosse colpa mia, perché ti avevo infastidito con una certa parola, con un certo atteggiamento. E poi il dolore passava subito, sostituito da…oh,  lo sai molto bene cosa era che portava via il dolore.

Indagando su di te, con discrezione, ho sentito voci: infanzia desolata, padre assente…

Le solite cose che paiono giustificare tutto.  E non giustificano niente. Sinceramente non mi importa poi tanto sapere perché lo hai fatto.

 

L'autunno si era già sistemato a bordo campo, fremente di mettersi in gioco, mentre l'estate si trascinava  nella sua ultima partita di stagione. Lei era felice. Lo aveva appena saputo: aspettava un bambino.  Decise lei dove incontrarsi. Gli disse che doveva dirgli una cosa importante, che aveva un dono da fargli.

Si sedettero sulla stessa panchina dove si erano seduti il giorno del loro incontro. Era già buio, il parco era deserto.

Lui  si alzò in piedi di scatto e disse: che cazzo hai combinato, non voglio nessun figlio, le disse. Lui disse: devi abortire. Lui urlò: non voglio nessun cazzo di figlio hai capito. Lei  si alzò in piedi lentamente, gli mise una mano sul petto, disse: ma cosa stai dicendo, noi ci amiamo, disse lei, io ti amo, il nostro bambino, noi due, e piangeva, mentre diceva queste frasi smozzicate, e un buco cominciò ad allargarsi nel suo cuore. Poi disse: va bene, sarà solo mio questo bambino. E fece per girarsi e andarsene. Lui disse: allora non hai capito io non voglio un figlio mio nel mondo. Al primo calcio lei scivolò a terra. Cercò di coprirsi la pancia con le mani, pur sapendo che non sarebbe servito a proteggere il bambino. Lui continuò, il piede che scattava sempre più veloce, tac tac tac, sulla pancia, poi più su, sul petto, fino ad arrivare al viso. Colpisci colpisci colpisci.  Lei non sentiva più nulla, ma il buco nel cuore aveva cominciato a riempirsi. Di odio.

La trovarono due ragazzi che rientravano da una festa.  Mentre uno dei due telefonava per un'autoambulanza, l'altro  vomitò anche l'anima.

 

 

L'ho saputo per caso, del tuo incidente. E' per questo che adesso sono qui. Sai, quando me lo hanno detto mi sono sentita felice, dopo tanto tempo. Ho chiesto impaziente: ma vivrà? Sì, vivrà, ma gli hanno amputato le gambe, e poi è tutto una bruciatura.  E' stato un incidente di macchina spaventoso. Povero ragazzo, mi hanno risposto. Era la risposta che volevo, sai?  Ma lei lo conosceva? hanno aggiunto. No, ho detto, forse solo di vista.

Sono venuta qui, in questo ospedale dove sei inchiodato da due mesi, all'infermiera ho detto di essere una tua vecchia amica, ho finto anche una lacrima, sai?   Sono entrata nella stanza, ho accostato la sedia al tuo letto, e ho cominciato a guardarti. Il tuo volto è bendato, dal bianco della garza emergono solo le tue palpebre abbassate. Ti tengono ancora sedato, coma farmacologico, mi sembra lo chiamino.  Ho sollevato il lenzuolo: le tue gambe non ci sono più, non ci sono più i  tuoi maledetti piedi.  Chissà dove li hanno messi. In pasto ai cani, mi viene da pensare.  E penso anche che non è vero che la vendetta ha un sapore amaro. Ha un gusto dolcissimo, inebriante, invece.  Ora posso smettere di odiarti, finalmente.  Mi ha consumata odiarti, ma  è stata la mia missione.  Faticosissima, logorante missione. Compiuta con successo, non trovi?  E ora continua a  vivere, se ne sei capace.

 

 

Ripone la sedia ai piedi del letto. Ancora uno sguardo.  Poi esce dalla stanza. Povero amico mio, dice simulando sofferenza all'infermiera che incrocia nel corridoio. L'infermiera le fissa un ginocchio e scuote la testa, comprensiva. Mentre scende le scale Anita sente il buco nel cuore che si svuota, piano, e poi lentamente si richiude, fino a sparire.

 

Fuori è una bella giornata di primavera, gli uccellini cinguettano in allegria, i fiori mostrano tutto il loro rinnovato splendore  e una  brezza leggera fa dondolare le foglie degli alberi

 

 

 

 
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