Degli
anziani, a lavorare lì, era rimasto solo lui: Santi Fortunato. Santi di nome,
Fortunato solo di cognome, non perché si fosse mai ritenuto sfortunato, però;
non aveva mai pensato a sé come a un infelice, piuttosto si era sempre sentito,
come dire, invisibile. Di certo non l'uomo
invisibile, insomma non un essere fantastico dai poteri soprannaturali: invisibile come un
oggetto d'uso comune o un elemento architettonico di scarso rilievo artistico.
Come un manifesto pubblicitario sbiadito, per esempio. Qualcosa che c'è
materialmente, ma su cui gli sguardi scivolano indenni, privi di messa a fuoco.
A dargli
questa buffa percezione di sé aveva contribuito anche il posto di lavoro: il
silenzio, il dolore intimo che accentra l'attenzione dei visitatori d'un
cimitero.
Le
giornate le passava quasi tutte lì, a svolgere il suo umile mestiere con
dedizione e, nelle ore libere, a passeggiare o seduto su una vecchia lapide,
fumando l'ennesima sigaretta.
Aveva amici tra i morti, vecchie conoscenze e nuovi visi che
l'avevano attirato durante il suo lento oziare, magari con una scusa
banale: un cappello piumato, una
decorazione sull'uniforme…
Settimanalmente
completava il suo giro di visite, discreto e silenzioso,
per non lasciare nessuno scontento. C'era Carmelo Aricò, in doppiopetto nero e aria da patriarca; i coniugi Patania, lui in piedi con la mano sulla spalla della moglie
grassa, seduta composta, resa severa da un'ombra di peluria scura sul labbro superiore;
Gaetano Celi, che Santi chiamava nonno Tanuzzu, con
la perenne coppola nera che, ci avrebbe giurato, si era di certo portato nella
cassa.
Se lo
ricordava bene nonno Tanuzzu, bidello alla scuola
elementare: tirava scoppole e calci da far invidia a un mulo. Ogni volta che
Santi sedeva sulla sua tomba, a fumare, gli scappava un sorriso: che paura gli
faceva da picciriddu quell'ometto
incazzoso.
Ma la sua
preferita era Francesca, da lei passava ogni mattina, prima d'iniziare il
turno. Le lasciava una rosa nella mezza bottiglia di plastica che fungeva da
vaso portafiori. Sulla sua tomba non si sedeva, non l'avrebbe fatto neanche se
avesse potuto, se non fosse stata così antica, piccina e fragile. Non fumava
neanche, davanti a
lei; se ne restava in piedi come se pregasse. Non pregava, però, si perdeva
dietro quei riccioli che immaginava biondi, in quei grandi occhi chiari che
voleva azzurri, in quel visetto delizioso d'angelo. La tomba datava 1889, la
bimba aveva solo quattro anni quando era morta. Santi
aveva fatto di tutto per impedire al tempo di strappare le lettere dorate, a
rilievo, accanto alla foto, ciò non ostante buona parte della scritta era
venuta via e anche l'angelo di marmo era ridotto a poco più d'un monco
assurdamente alato.
Spesso,
durante le sue visite silenziose, veniva distratto dai
nuovi colleghi: tutti giovani, disoccupati assunti a tempo determinato,
disgustati dal misero lavoro, vergognosi e rabbiosi si sarebbe detto. Li vedeva
aggirarsi inutili tra le tombe, masticando gomme o fumando, alcuni assordati
dagli auricolari o assorti nelle tastiere dei telefonini. Tentava d'immaginarne
la vita fuori dal lavoro, ma poi scoteva la testa e
ammiccava a qualche amico tra i morti, quasi a spartire con lui la muta critica.
La sua di
vita, oltre il cancello del cimitero, non si era mai preso la briga
d'inventarla invece. Usciva solo per le incombenze improrogabili e sempre a
disagio, come se il popolo dei vivi non gli appartenesse, quasi il mondo reale
non fosse condivisibile. Non si era mai chiesto perché, né aveva mai sofferto
la solitudine; neanche le donne gli erano mai apparse desiderabili.
Nulla,
fuori, lo attirava.
Solo
qualche volta, guardando Francesca, si era domandato cosa si provasse ad avere
un figlio. Lo immaginava semplice, in verità. Pensava che un figlio, creato
dallo stesso sangue, fosse una specie di prolungamento di sé. Qualcuno che
bastava guardare con amore, ogni mattino, così come contemplava Francesca,
affinché tutto filasse liscio.
In fondo guardare era ciò che faceva più
spesso, il succo della sua esistenza da netturbino. Osservava cosa c'era da
pulire, quali piante tagliare, se i cassonetti dei fiori secchi erano colmi,
che non mancasse l'acqua o i bidoncini, chi era venuto a trovare chi, quali
tombe erano abbandonate e da quanto…
Un
giorno, chissà perché,
immaginò che uno sguardo si sollevasse più su della sua tuta da
spazzino, per giungere intatto sino al
viso. Uno sguardo vero, vivo. Si passò una mano sulla barba lunga e
pungente di due giorni, si stropicciò gli occhi e sedette a pensare, confuso
dalla sensazione di vulnerabilità, di nudità quasi, che questo pensiero gli
aveva risvegliato. E insieme qualcosa di simile a un senso di colpa gli s'insinuò dentro;
come se quella fantasia d'un attimo fosse da considerarsi un tradimento verso i
morti, un'offesa.
Si
sedette, a casaccio, su una tomba sconosciuta e involontariamente si voltò a
guardare la foto, in un gesto automatico.
“Mi scusassi” sussurrò, incrociando gli occhi
del morto. Lo disse come uno che, in preda a un capogiro, si sieda
a un tavolo di ristorante già occupato, soggiogato dal malessere improvviso. Il
morto non fiatò; continuò a guardare fisso avanti a sé, impassibile, lontano.
Fu la prima volta in cui Santi si sentì solo.
Non si era certo aspettato una risposta, sapeva bene che le storie sui fantasmi
sono sciocchezze; tuttavia quell'ovvio silenzio fece
tremare qualche sua remota certezza. In cuor suo aveva sempre pensato, forse
inconsapevolmente, d'appartenere alla grande famiglia del cimitero. Se ne
sentiva un membro importante anzi. Per anni e anni si era aggirato come un
ospite premuroso, onorando delle sue visite oggi quello, domani quell'altro; sicuro e pago del suo ruolo ufficiale e
ufficioso. Quel silenzio, quello sguardo assente, che lo oltrepassava con
eterna indifferenza, non gli piacque, d'improvviso lo irritò.
“Con permesso” disse, alzandosi e sentendosi stupido.
Correre era un'attività che non praticava da
almeno cinquant'anni. Non ricordava neanche più
l'ultima volta, però ci si provò quel tanto che la vecchiaia gli permetteva.
Corse in giro dai suoi morti, sbatté i pugni sulla tomba di nonno Tanuzzu e per ultima raggiunse Francesca. Prima di guardare
la foto strinse forte le braccia, una sull'altra come trattenendo qualcosa: era
il solo modo che conosceva di desiderare intensamente. Spinse lo sguardo negli
occhi della bimba, a fondo.
Pianse.
Singhiozzò come un padre disperato, cadendo in ginocchio a mani giunte. I morti
non lo volevano più. Si era spezzato l'incantesimo. I loro occhi fissavano
l'eternità, indifferenti. Anche Francesca, anche lei.
Passò una
donna, vestita di nero, con un fascio di gladioli tra le braccia e, vedendolo
prostrato, si chinò a lasciare un fiore nel vaso di plastica. Santi girò il
viso lacrimoso e incrociò i suoi occhi nocciola, sereni.
“Su, non
faccia così…Vedrà, col tempo il dolore si attenua”disse la signora,
poggiandogli una mano sulla spalla, lievemente, prima di andar via.
Il suo
sguardo aveva oltrepassato la tuta, era arrivato al viso: un calore si era
diffuso sulla pelle di
Santi, piacevole. Il vecchio sentì, disarmante, la nostalgia
d'una carezza. Una carezza…
Spazzò
via, con le
dita rugose, qualche foglia secca caduta sulla tomba di Francesca, si asciugò
le lacrime col braccio e salutò la bambina, gli occhi fissi all'angelo
sbreccato.
“È ura chi mi fazzu ‘a varba”, bofonchiò
sottovoce, accarezzandosi le guance ispide, mentre lentamente si avviava verso
casa.
Dalla strada, appena fuori
dal camposanto, si vedevano già le luci di città, fioche nel rosso del
tramonto. Santi s'incamminò, attratto dal tremore lucente come una falena.
Sorrideva curioso, sembrava un bambino.