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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il viandante, di Milvia Comastri 22/12/2009
 

Il viandante

di

 Milvia Comastri

 

 

Dopo le ultime case del paese e prima che inizi la monotona sequenza dei campi incolti, c'è una chiesetta.  Il transito continuo di automobili e tir sulla Provinciale ne ha deturpato la facciata, un tempo bianca, con una patina opaca di indefinibile colore. Da anni, al suo interno, non si celebrano più messe. Solamente nel mese di maggio qualche vecchia del paese arriva fino a lì, per biascicare il Rosario e tirare fuori dai polverosi cassetti della memoria qualche ricordo di gioventù. Abitudine destinata a scomparire, a mano a mano che scompariranno le vecchie, o che scomparirà la loro memoria. Abbandonata, come un giocattolo dimenticato da un bambino capriccioso, la chiesetta sembra solo aspettare di scomparire, anche lei, come quelle vecchie donne, fra il fragore di una ruspa e un turbine di polvere.

 

Ulisse appoggiò la mano sul legno ruvido della porta e spinse. Un cigolio prolungato infranse il silenzio della notte. L'uomo  si fermò sulla soglia un attimo, indeciso se entrare o proseguire il cammino.  Poi si disse che faceva troppo freddo, lì fuori. Che il suo rifugio fosse, per il momento,  una chiesa, o una stalla, o un garage, non aveva molta importanza. Quattro pareti intorno e un tetto sulla testa, era questo che cercava.

La notte prima aveva dormito in uno scantinato di una casa in costruzione e il freddo gli aveva fatto lacrimare gli occhi per tutto il tempo.

Lo avvolse un buio denso e un odore di polvere e muffa. Per un attimo si sentì proiettato indietro di decenni, nella soffitta della casa della sua infanzia, per un attimo riprovò quella miscela di eccitazione e paura che, bambino, lo prendeva ogni volta che saliva in soffitta. Ma a Ulisse non piaceva ripensare al passato, e si affrettò a posare lo zaino e a tirare fuori la torcia. Diresse la luce tutt'intorno: un altare sguarnito, un grande crocifisso storto, una decina di banchi ricoperti di polvere.

“Benvenuto al grand'hotel di Dio!”  esclamò a mezza voce. Appoggiò lo zaino sulla panca più vicina all'altare e cominciò a prepararsi per la notte; sacco a pelo, due coperte, una bottiglietta piena a metà di acqua e la cosa più preziosa: un libretto tutto sgualcito, usurato dagli anni e dalle letture. Erano tre anni che si addormentava con le poesie di Rilke fra le mani. Da tre anni, erano le poesie del grande poeta praghese che gli davano la buona notte. Stese una coperta sul pavimento ai piedi dell'altare, srotolò il sacco a pelo, ci si infilò dentro e cercò di avvolgersi alla bene meglio con la seconda coperta. La torcia l'appoggiò sul petto, con la luce diretta sulle pagine del libro.

In grembo alla notte nevosa, d'argento,

immensa si stende dormendo, ogni cosa.

Pensò che era una notte nevosa, anche quella che aveva lasciato fuori dalla ruvida porta della chiesetta. E gli venne in mente, all'improvviso, che era la notte della Vigilia.

Una vita che cambia, che cambia drasticamente, come era accaduto alla sua, conserva ugualmente radici che il tempo e i mutamenti avvenuti non riescono a estirpare. Per la seconda volta, in quella sera, si ritrovò a vivere in quel tempo passato che inutilmente cercava ogni giorno di cancellare.

Le vigilie di Natale con i genitori. I pomeriggi della vigilia in ufficio, con i colleghi, gli scambi di auguri e di battute sciocche. 

E poi le vigilie di Natale con Mara. Le candele i regali il vino il profumo del cibo la tavola apparecchiata i cristalli l'albero le luci jingle bells jingle bells Jingle all the way.

Mara.

I capelli le labbra la lingua il seno le mani il ventre il pube dorato le gambe. L'odore della pelle. L'odore di Mara. Un profumo, il suo, che ancora non lo abbandonava, non cancellato, quell'odore, dall'aroma dei boschi attraversati per  riuscire a sfuggirgli, dagli effluvi dei gas di scarico delle automobili, dal nauseante  tanfo delle cucine dei ristoranti cinesi in cui si concedeva a volte qualche pasto.  Non cancellato da tutti gli odori delle centinaia di chilometri percorsi a piedi, dal mutare dei paesaggi, dallo scorrere delle stagioni.

Le vigilie di Natale con Mara. Fino all'ultima, tre anni prima, quando erano state dette parole che dovevano essere taciute, quando erano esplosi, fra l'anatra all'arancia e il soufflè di castagne, confessioni che avrebbero dovuto rimanere rinchiuse.  L'aborto fatto di nascosto, il suo bambino buttato via, come uno straccio. Che forse non era neppure il suo bambino, lei aveva detto.

E tutto era precipitato. Lasciato il lavoro, la casa, la città, tutto.

Da quella sera, da quella vigilia di Natale, Ulisse era diventato il viandante, un Ulisse che, invece di ritornare in patria, dalla patria voleva solo fuggire. Era impazzito, forse, o forse

no: forse voleva solo diventare un automa, caricato a molla, e andare avanti, avanti, avanti  senza raggiungere nulla.

Viveva di espedienti, piccoli lavori saltuari, che divideva con il popolo di emigranti che batteva le sue stesse strade. Giusto per sopravvivere.

Richiuse il libro, spense la torcia e sperò nell'arrivo del sonno, per sfumare i ricordi.

Lo risvegliò il cigolio della porta e una ventata gelida che gli attanagliò il viso.  Stette immobile, in attesa. La porta si rinchiuse, ripetendo il suo cigolio. Qualcuno si muoveva incerto, nel buio, con passo leggero. Ulisse accese la torcia e la diresse verso lo sconosciuto.

Era una ragazza. Si era bloccata, una gamba avanti all'altra, come in quel gioco delle statuine che si faceva da bambini. Lo guardava, la bocca spalancata da cui non usciva suono, gli occhi con la pupilla dilatata dalla paura.

Teneva le braccia incrociate sul petto, forse, lui pensò, per proteggersi dal freddo.

La ragazza cominciò a indietreggiare, senza distogliere lo sguardo. Poi:

“Chi sei?” chiesero insieme.

Ulisse, avviluppato com'era, si tirò faticosamente a sedere.

“Non aver paura”, le disse. “Non sono nessuno. Solo uno che va, un viandante, niente altro.

 

La ragazza inclinò il collo verso la spalla.

“Via-ndante?” ripetè incerta.

Una straniera, ecco cos'era quella ragazza. Una migrante.

“Io romena, mio nome è Herta.”  “Come poeta”, aggiunse,  con un tono più sicuro, con una sorta di orgoglio.

“Io mi chiamo Ulisse. Come… come Ulisse, sai, quell'Ulisse…”

“Ulisse, capito. Ulisse io bisogno posto di dormire. Io freddo, e anche mio bambino freddo. Mio bambino, nato oggi.”

Ecco il perché delle braccia strette al petto. Non era per il freddo. Fra le braccia teneva un bambino. Stringeva suo figlio, pensò lui, esterrefatto.

Vieni, avvicinati. Ho coperte, aspetta, ora mi tolgo da questo sacco a pelo, vieni, vieni a scaldarti.” ,disse  sollecito.

Quando fu in piedi, si avvicinò alla ragazza. Vide quanto era giovane, e come fosse pallido il suo viso. Le mise un braccio sulle spalle e la condusse verso il sacco a pelo. Posò a terra la torcia.

“Ecco, sistèmati, a me basta la coperta”

Lei allungò le braccia.

“Tieni”, disse “tieni un pochino, che io mi metto dentro. Poi dammi bambino. Io molto stanca.”

Ulisse si trovò fra le braccia un fagottino tiepido, ne avvertì il respiro e un odore mai sentito, che gli ricordò il fieno tagliato di fresco, ma che aveva qualcosa di diverso, di primordiale, gli venne da pensare.  Era un odore commovente, pensò, l'odore di una vita nuova. Inaspettatamente gli si riempirono gli occhi di lacrime. 

La ragazza, intanto, si era infilata dentro il sacco a pelo e gli stava tendendo le braccia.

“Mio bambino.” disse con tono imperioso. “Dammi.”

Ulisse si accovacciò accanto a lei e gentilmente le posò il bimbo fra le braccia. Il faccino del neonato era rosso, rugoso come quello di un vecchietto. Lui allungò un dito e gli fece una carezza lievissima sulla peluria soffice del capo.

“Ecco, ora riposati, Herta. Io mi metto qui vicino a voi. Così ci scaldiamo a vicenda. Buona notte.” ,sussurrò.

Poi spense la torcia, ma sapeva che il sonno avrebbe tardato ad arrivare. Avrebbe voluto chiedere tante cose, alla ragazza.  Era così assurda, quella situazione, che per un attimo pensò di avere sognato. Ma sentiva ancora quell'odore, l'odore commovente del bambino. E nel buio percepiva il respiro della madre.

Poi sentì la mano di Herta  sul suo viso:

“ Tu dormi? Mio bambino ancora senza nome. Io posso chiamare lui Ulisse?”

Ulisse sentì un groppo in gola che per un attimo gli impedì di parlare. 

“Sì” , disse poi. “ Ulisse. Ulisse va bene.”

Si girò su un fianco e strinse fra le braccia la madre e il figlio.

Era stanco, di una stanchezza buona.

Per le domande c'era tempo. E poi forse non erano importanti, le risposte. Importante era il tempo. E loro tre di tempo, per conoscersi, ne avevano tanto, davanti.

“Buon Natale, Herta, Buon Natale Ulisse”, mormorò, con la voce già si spegneva nel sonno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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