Il viandante
di
Milvia Comastri
Dopo le ultime case del paese e prima
che inizi la monotona sequenza dei campi incolti, c'è una chiesetta. Il transito continuo di automobili e tir
sulla Provinciale ne ha deturpato la facciata, un tempo
bianca, con una patina opaca di indefinibile colore. Da anni, al suo
interno, non si celebrano più messe. Solamente nel mese di maggio qualche
vecchia del paese arriva fino a lì, per biascicare il
Rosario e tirare fuori dai polverosi cassetti della memoria qualche ricordo di
gioventù. Abitudine destinata a scomparire, a mano a mano che scompariranno le
vecchie, o che scomparirà la loro memoria. Abbandonata, come un giocattolo
dimenticato da un bambino capriccioso, la chiesetta sembra solo aspettare di
scomparire, anche lei, come quelle vecchie donne, fra il fragore di una ruspa e
un turbine di polvere.
Ulisse appoggiò la mano sul legno
ruvido della porta e spinse. Un cigolio prolungato infranse il silenzio della
notte. L'uomo si
fermò sulla soglia un attimo, indeciso se entrare o proseguire il cammino. Poi si disse che faceva troppo freddo, lì
fuori. Che il suo rifugio fosse, per il momento, una chiesa, o una stalla, o un garage,
non aveva molta importanza. Quattro pareti intorno e un tetto sulla testa, era
questo che cercava.
La notte prima aveva dormito in uno
scantinato di una casa in costruzione e il freddo gli aveva fatto lacrimare gli
occhi per tutto il tempo.
Lo avvolse un buio denso e un odore di
polvere e muffa. Per un attimo si sentì proiettato indietro di decenni, nella
soffitta della casa della sua infanzia, per un attimo riprovò quella miscela di
eccitazione e paura che, bambino, lo prendeva ogni volta che saliva in
soffitta. Ma a Ulisse non piaceva ripensare al passato, e si affrettò a posare
lo zaino e a tirare fuori la torcia. Diresse la luce tutt'intorno: un altare
sguarnito, un grande crocifisso storto, una decina di banchi ricoperti di
polvere.
“Benvenuto al grand'hotel di Dio!” esclamò a mezza
voce. Appoggiò lo zaino sulla panca più vicina all'altare e cominciò a
prepararsi per la notte; sacco a pelo, due coperte, una bottiglietta piena a
metà di acqua e la cosa più preziosa: un libretto tutto sgualcito, usurato
dagli anni e dalle letture. Erano tre anni che si addormentava con le poesie di
Rilke fra le mani. Da tre anni, erano le poesie del grande poeta praghese che gli davano la buona notte.
Stese una coperta sul pavimento ai piedi dell'altare, srotolò il sacco a pelo,
ci si infilò dentro e cercò di avvolgersi alla bene
meglio con la seconda coperta. La torcia l'appoggiò sul petto, con la luce
diretta sulle pagine del libro.
In
grembo alla notte nevosa, d'argento,
immensa si stende dormendo, ogni
cosa.
Pensò che era una
notte nevosa, anche quella che aveva lasciato fuori dalla ruvida porta
della chiesetta. E gli venne in mente, all'improvviso, che era la notte della
Vigilia.
Una vita che cambia, che cambia
drasticamente, come era accaduto alla sua, conserva ugualmente radici che il
tempo e i mutamenti avvenuti non riescono a estirpare. Per la seconda volta, in
quella sera, si ritrovò a vivere in quel tempo passato che inutilmente cercava
ogni giorno di cancellare.
Le vigilie di Natale con i genitori. I
pomeriggi della vigilia in ufficio, con i colleghi, gli scambi di auguri e di
battute sciocche.
E poi le vigilie di Natale con Mara. Le
candele i regali il vino il profumo del cibo la tavola apparecchiata i
cristalli l'albero le luci jingle bells jingle bells Jingle all the way.
Mara.
I capelli le labbra la lingua il seno
le mani il ventre il pube dorato le gambe. L'odore della pelle. L'odore di
Mara. Un profumo, il suo, che ancora non lo abbandonava, non cancellato,
quell'odore, dall'aroma dei boschi attraversati per riuscire a sfuggirgli, dagli effluvi
dei gas di scarico delle automobili, dal nauseante tanfo delle cucine dei ristoranti cinesi in
cui si concedeva a volte qualche pasto.
Non cancellato da tutti gli odori delle centinaia di chilometri percorsi
a piedi, dal mutare dei paesaggi, dallo scorrere delle stagioni.
Le vigilie di Natale con Mara. Fino all'ultima,
tre anni prima, quando erano state dette parole che dovevano essere taciute,
quando erano esplosi, fra l'anatra all'arancia e il soufflè
di castagne, confessioni che avrebbero dovuto rimanere
rinchiuse. L'aborto fatto di nascosto,
il suo bambino buttato via, come uno straccio. Che forse non era neppure il suo
bambino, lei aveva detto.
E tutto era precipitato. Lasciato il
lavoro, la casa, la città, tutto.
Da quella sera, da quella vigilia di
Natale, Ulisse era diventato il viandante, un Ulisse che, invece di ritornare
in patria, dalla patria voleva solo fuggire. Era impazzito, forse, o forse
no: forse voleva solo diventare un
automa, caricato a molla, e andare avanti, avanti, avanti senza raggiungere nulla.
Viveva di espedienti, piccoli lavori saltuari,
che divideva con il popolo di emigranti che batteva le sue stesse strade.
Giusto per sopravvivere.
Richiuse il libro, spense la torcia e
sperò nell'arrivo del sonno, per sfumare i ricordi.
Lo risvegliò il cigolio della porta e
una ventata gelida che gli attanagliò il viso.
Stette immobile, in attesa. La porta si rinchiuse, ripetendo il suo
cigolio. Qualcuno si muoveva incerto, nel buio, con passo leggero. Ulisse
accese la torcia e la diresse verso lo sconosciuto.
Era una ragazza. Si era bloccata, una gamba avanti all'altra, come in quel gioco
delle statuine che si faceva da bambini. Lo guardava, la bocca spalancata da
cui non usciva suono, gli occhi con la pupilla dilatata dalla paura.
Teneva le braccia incrociate sul petto,
forse, lui pensò, per proteggersi dal freddo.
La ragazza cominciò a indietreggiare,
senza distogliere lo sguardo. Poi:
“Chi sei?” chiesero insieme.
Ulisse, avviluppato com'era, si tirò
faticosamente a sedere.
“Non aver paura”, le disse. “Non sono
nessuno. Solo uno che va, un viandante, niente altro.”
La ragazza inclinò il collo verso la
spalla.
“Via-ndante?” ripetè
incerta.
Una straniera, ecco cos'era quella
ragazza. Una migrante.
“Io romena, mio nome è Herta.” “Come
poeta”, aggiunse, con
un tono più sicuro, con una sorta di orgoglio.
“Io mi chiamo Ulisse. Come… come
Ulisse, sai, quell'Ulisse…”
“Ulisse, capito. Ulisse io bisogno posto di dormire.
Io freddo, e anche mio bambino freddo. Mio bambino, nato
oggi.”
Ecco il perché delle braccia strette al
petto. Non era per il freddo. Fra le braccia teneva un bambino. Stringeva suo
figlio, pensò lui, esterrefatto.
“Vieni,
avvicinati. Ho coperte, aspetta, ora mi tolgo da questo sacco a pelo, vieni,
vieni a scaldarti.” ,disse sollecito.
Quando fu in piedi, si avvicinò alla
ragazza. Vide quanto era giovane, e come fosse pallido il suo viso. Le mise un
braccio sulle spalle e la condusse verso il sacco a pelo. Posò a terra la
torcia.
“Ecco, sistèmati, a me basta la
coperta”
Lei allungò le braccia.
“Tieni”, disse “tieni un pochino, che
io mi metto dentro. Poi dammi bambino. Io molto stanca.”
Ulisse si trovò fra le braccia un
fagottino tiepido, ne avvertì il respiro e un odore mai sentito, che gli
ricordò il fieno tagliato di fresco, ma che aveva qualcosa di diverso, di
primordiale, gli venne da pensare. Era
un odore commovente, pensò, l'odore di una vita nuova. Inaspettatamente gli si
riempirono gli occhi di lacrime.
La ragazza, intanto, si era infilata
dentro il sacco a pelo e gli stava tendendo le braccia.
“Mio bambino.” disse con tono
imperioso. “Dammi.”
Ulisse si accovacciò accanto a lei e
gentilmente le posò il bimbo fra le braccia. Il
faccino del neonato era rosso, rugoso come quello di un vecchietto. Lui allungò
un dito e gli fece una carezza lievissima sulla peluria soffice del capo.
“Ecco, ora riposati,
Herta. Io mi metto qui vicino a voi. Così ci
scaldiamo a vicenda. Buona notte.” ,sussurrò.
Poi spense la torcia, ma sapeva che il
sonno avrebbe tardato ad arrivare. Avrebbe voluto chiedere tante cose, alla
ragazza. Era così assurda, quella
situazione, che per un attimo pensò di avere sognato. Ma sentiva ancora
quell'odore, l'odore commovente del bambino. E nel buio percepiva il respiro
della madre.
Poi sentì la mano di Herta
sul suo viso:
“ Tu dormi? Mio bambino ancora senza
nome. Io posso chiamare lui Ulisse?”
Ulisse sentì un groppo in gola che per
un attimo gli impedì di parlare.
“Sì” , disse
poi. “ Ulisse. Ulisse va bene.”
Si girò su un fianco e strinse fra le
braccia la madre e il figlio.
Era stanco, di una stanchezza buona.
Per le domande c'era tempo. E poi forse
non erano importanti, le risposte. Importante era il tempo. E loro tre di
tempo, per conoscersi, ne avevano tanto, davanti.
“Buon Natale, Herta,
Buon Natale Ulisse”, mormorò, con la voce già si spegneva nel sonno.