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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Ernesto, vent'anni, di Fiorella Borin 27/01/2010
 

Ernesto, vent'anni

di

Fiorella Borin

 

 

Erano allineati nel cortile. Tutti. Zoccoli di legno e casacche a righe e un numero ciascuno. Quattro cifre per riassumere un destino.

   “... sechs, sieben...(Non io Signore ti prego fa' che non tocchi a me) “... acht, neun..." (Tu che hai posto un angelo al fianco di ciascuno di noi) "... zehn!"

   Dieci. Toccava a lui. Il manico di un frustino premuto contro il suo cuore. Il cuore di Ernesto, vent'anni. Venti primavere ed Eva-il-primo-bacio e quattro numeri tatuati sulla pelle e mordere l'aria, farla a pezzi e sputare ribellarsi cadere in ginocchio... “Zehn!" ripeté il soldato, "Zehn!" e oltre il filo spinato il cielo pareva un sudario, "Zehn!”, dieci!, e lui era il decimo e il suo angelo era volato lontano da lui.

   Annaspare brancolare cadere in ginocchio rincorrere quella frase troppe volte gridata, "... Um Gott... Um Gotteswillen..." per pietà per pietà per pietà, balbettare e rantolare e allungare le mani e congiungerle e sbarrare gli occhi, "Um Gotteswillen!"

   Il soldato gli riempì la bocca con un pugno e: "Wird's bald? (Ti muovi?)" gli ringhiò in faccia mentre lo afferrava per il bavero obbligandolo a rimettersi in piedi.

   "Um Gotteswillen" ripetè ancora Ernesto, per pietà per pietà per amor di Dio... ma Lui se ne era andato altrove: schifato dagli uomini o invece stanco, o malato, o forse morto. Chissà. Niente Dio, in quel recinto di filo spinato. Al suo posto, il Comandante 'Due Cani'.

   "Spute dich! (muoviti!)" gl'intimò il soldato indicandogli l'alloggio del Comandante di Campo; e ci mise in aggiunta una pedata e uno spintone, affinché lui capisse che il suo destino non era - per quel giorno - un muro o un cappio o il fumo della ciminiera, no, il suo destino era ‘Due Cani'.

    Zoppicava, Ernesto, cercava di correre, Ernesto sollievo-e-paura, arrivò dinanzi a quell'uscio, Ernesto Dio-abbi-pietà.                         

   Bussò.

   Herein! (avanti!)” gorgogliò la voce che aveva fatto fuggire gli angeli oltre il filo spinato.

  Abbassò la maniglia, entrò.

  Lui era là, oscenamente grasso e roseo, sprofondato nella sua poltrona di cuoio marrone, gambe aperte e ventre gonfio di birra, gli occhi due lame sottili, infide e chiare come l'acqua di uno stagno. (Di stagno è il soldatino e il soldatino va alla guerra, mamma che cosa vuol dire stagno?, mamma avevi promesso che avresti pregato per me...)

    Erano accucciati sul tappeto, i due cani, pelo-lucido e denti-aguzzi, pastori-tedeschi, due cani feroci e ben pasciuti, fedeli feroci cani assassini. Lo squadrarono, riconobbero l'odore acido di fame e sporco e orina secca e croste e pidocchi e paura e richiusero gli occhi, tutti e due richiusero gli occhi, schifati da quell'uomo che era più bestia di loro. Ernesto pochi-anni e una sorte da bestia.

   Il Comandante congiunse le mani sul ventre e ruttò.

    "Grande baldoria, questa notte... Lustigkeit, sì, tu capisci Lustigkeit?” Ernesto capiva: baldoria, che tu sia maledetto, tu i tuoi cani e la tua infame baldoria.

    Cani animali molto saggi: economici, sì. Molto grande economici. Loro mangia, e se mangiato troppo loro butta fuori da bocca. Butta fuori, sì. Però... Però dopo, dopo sì?, loro rimangia. Niente va sprecato con cani. Perché loro molto economici: loro niente sprecato. Non come voi, bocche inutili."

   Ernesto teneva gli occhi bassi. Ma il suo sguardo strisciava sul pavimento, zoccoli tappeto stivali, zampe musi code e pavimento lustro, strisciava lo sguardo di Ernesto, ferito ammaccato carponi, strisciava come uno schiavo obbligato a rimestare la fogna. Si fermò in un angolo, lo sguardo muto di Ernesto.

   "Però a me parsimonia di cani fa schifo!” gridò il Comandante assestando un pugno al bracciolo; ruttò ancora, forte, un trionfo di cibo mal digerito, un'apoteosi di bevande mischiate, vino birra cognac caffè, uno schiaffo sul volto di Ernesto zuppa-di-patate-marce e mele-raggrinzite, "Es ekelt mich! (mi fa schifo!)” gridò ancora mentre Ernesto non riusciva a scollare gli occhi da quell'angolo, lì dove c'era...

   "Miei cani molto beneducati. Miei cani gentiluomini. Ripeto a te bocca inutile: essi molto bene educati. Loro non mangia schifezze."

    ... c'era una pozza di vomito, nell'angolo. C'era. Immonda acida giallognola pozza di vomito. C'era. Andava pulita.

   "Tu pulire. Tu obbediente servitore di miei due gentiluomini."

   Ed Ernesto si guardò intorno, cercando un secchio di segatura  uno straccio un pezzo di carta una spugna, qualcosa... Niente.

   "Con tua casacca."

   Così. Denudarsi davanti a chi ha stivali e pistola e pancia piena, davanti a due cani sonnacchiosi, sfilarsi via l'ultimo straccio, l'ultima reliquia di un'umanità che fu. Via quel cencio ruvido di strappi e macchie e brividi impigliati nella stoffa, via, un gesto, con decisione, un gesto solo. Bastò.

   Un uomo a torso nudo davanti a tre animali.

   "Beeile dich! (spicciati!)"

   S'inginocchiò sul pavimento, Ernesto costole-aguzze, appallottolò la casacca, Ernesto braccia-scarnite, pulì tutto, Ernesto, pulì per bene, Ernesto voglia-di-piangere.

   "Sehr gut (Bene.)"

   Si rialzò, torso nudo e casacca fra le mani, mordendosi le labbra, tornò davanti al suo Comandante.

  "E adesso rimettiti tua camicia."

   Così. Anche questa corona di spine, Signore. Quando i quattro chiodi, Signore? Quando la Resurrezione? Verrà mai, Signore degli innocenti, quel giorno?

   "Schnell! (Subito!)"

   Ruvido disgustoso fetore umidiccio sul viso e sulle braccia e lì dove un tempo aveva creduto fosse alloggiato il cuore. (Mamma vuoi sentire la poesia che ci ha insegnato oggi la maestra: o Valentino vestito di nuovo come le brocche del biancospino...)

    "E adesso: hinaus! (fuori!)"

   Fuori. Incontro al filo spinato e al cielo greve come un sudario. Fuori. Lì dove si era smarrito il confine tra gli uomini e le bestie. Fuori, sì.

   Abbassò la maniglia, spalancò la porta. Era ancora presto per morire.

 

 

 
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